§ CHE ITALIA FA

ALL'INTELLIGENZA SI PUO' FAR CREDITO




M.C.M.



Il dibattito sulla creazione di "banche d'affari" nel nostro Paese si è finora incentrato soprattutto su un aspetto particolare del problema, quello strettamente finanziario. Ovvero, gli intervenuti al dibattito si sono posto come problema centrale lo squilibrio esistente tra gli scarsi mezzi propri delle nostre imprese industriali ed il loro ingente indebitamento, cercando poi di escogitare meccanismi per far affluire nuovo capitale di rischio a queste imprese. Le "banche d'affari" sono appunto considerate come uno di questi meccanismi, secondo il quale le banche assumerebbero - o farebbero assumere ad altre Istituzioni - in modi più o meno indiretti, partecipazioni azionarie in imprese industriali.
Ma a giudicare dall'esperienza dei maggiori Paesi industriali, l'Investment Banking è qualche cosa di più di un asettico intervento finanziario. Se si riducesse ad una pura presa di partecipazione azionaria in aziende valide ma bisognose di fondi, alla fornitura di coperture finanziarie in situazioni di squilibrio interno, esso non sarebbe quel motore di crescita che è all'estero e che potrebbe essere o diventare anche in Italia.
L'Investment Banking ha raggio d'azione più vasto, una potenzialità ben più marcata: è più un problema di capitale umano, della sua creazione, del suo utilizzo, della sua trasmissione, che di capitale di rischio. Realizzare in Italia le condizioni per un suo vero sviluppo sarebbe estremamente positivo, in termini di ristrutturazione industriale ed economica, non solo finanziaria; ma ciò richiede molto di più delle pur necessarie modifiche normative, istituzionali e legali. Richiede, soprattutto, una progressione della cultura imprenditoriale, sia industriale sia bancaria, nel nostro Paese, e il raggiungimento di una concezione profondamente integrata dei vari elementi che oggi, e in particolare domani, saranno indispensabili a sostenere sane iniziative imprenditoriali e a ristrutturare il nostro assetto produttivo.
Questi elementi comprendono non solo la finanza, ma anche la tecnologia, il marketing, la produzione e, soprattutto, la Loro interazione in un sistema inevitabilmente dinamico. Se si va a guardare, ad esempio, dentro una delle Investment Banks di New York (ancor più che Merchant Bank inglesi), ci si accorge che la risorsa fondamentale che esse offrono, e vendono, non è il denaro in sé, ma la materia grigia. Certo, il risultato finale di ogni operazione sfocia in un apporto finanziario, nelle varie forme in cui esso può articolarsi. Ma questo è solo l'atto finale di un processo di valutazione ben più vasto.
L'impresa in difficoltà, o in crescita, non ha soltanto bisogno di un capitale passivo, fungibile, indifferenziato, ma ha bisogno di un capitale legato ad una strategia. Essa ha bisogno di misurarsi con il flusso capitale-idee che circola nei più vitali mercati finanziari del mondo, di verificare che la propria strategia di utilizzazione delle risorse e di proiezione internazionale abbia senso economico, alla luce della dinamica dei mercati e della conoscenza disponibile su questi mercati.
Le Investment Banks sono di fondamentale importanza perchè sono, appunto, grandi serbatoi di conoscenza, sofisticati alambicchi nei quali i più recenti imputs tecnologici, finanziari, tecnico-produttivi ed anche politici, vengono miscelati per suggerire al proprio cliente, anzi per trovare insieme con esso, una strategia giusta, operativa, articolata, chiara ed intelligibile per azionisti, per creditori e per clienti.
Ecco perchè, come accade nei maggiori centri finanziari, una vera Investment Bank è definita dalla grande varietà di competenze presenti in essa, dal grado di integrazione di queste capacità, dalla rapidità con la quale esse sono fatte confluire su un determinato progetto, dalla loro osmosi continua con l'ambiente esterno. Per poter valutare e concedere il giusto livello di finanziamento e la sua articolazione, essa deve poter anticipare e misurare l'impatto strategico dei nuovi sviluppi tecnologici, della continua dislocazione dei flussi di investimento internazionali, del crearsi di nuove imprenditorialità in nuovi settori ed in nuovi Paesi.
Una "Morgan Stanley", una "First Boston", una "Goldman Sachs", sono laboratori di intelligenza, nei quali ingegneri, chimici, finanzieri, informatici e politici, provenienti da esperienze tutte diverse, praticano l'arte di progettare insieme nuove iniziative imprenditoriali e di calibrare il pacchetto finanziario più idoneo ad alimentare la strategia definita insieme con il loro cliente industriale.
Questo richiede nuove competenze all'interno delle banche, ma allo stesso tempo anche nuovi modi di essere imprenditori industriali, cioè una maggior trasparenza finanziaria nelle attività economiche reali e una maggior capacità di dialogare con le istituzioni finanziarie, come se esse fossero partners, piuttosto che avversarie. Solo l'interscambio di uomini tra imprese e banche potrà produrre il tipo di sintonia e di collaborazione operativa necessario a saldare banche d'affari e imprese in progetti comuni più avanzati e più competitivi nel mondo.
Alcuni obiettano che le imprese italiane, in modo particolare quelle piccole e medie, non mancano di inventiva, di dinamismo, di imprenditorialità e anche di capacità tecnologiche. Esse dunque avrebbero solo bisogno di capitale di rischio per rimettere in sesto i propri bilanci e i propri equilibri interni.
Purtroppo, questa è una prospettiva ormai decotta, adatta all'epoca di un'economia d'arrembaggio, agli Anni Sessanta e Settanta, non alla competizione sistematica, articolata e sofisticatissima degli anni futuri. Oggi non ha più senso pensare ai vari inputs come a degli elementi isolati, indipendenti, il cui totale è uguale alla somma delle parti. Per competere internazionalmente abbiamo bisogno di strutture, di piani e di sistemi di supporto e sviluppo nel nostro potenziale economico.
Nel mondo di oggi e di domani l'integrazione dei circuiti informativi e decisionali, la sinergia tra campi tecnologici diversi, ma contigui, produce tali moltiplicatori nell'economia mondiale, che la nostra povera aritmetica non può nemmeno simulare in senso statico. Basta osservare i magri bottini delle sparute, anche se valide, imprese italiane lasciate completamente sole a competere, in aree come il Sud-Est asiatico e il Pacifico, contro l'enorme forza di spinta delle Società di Trading giapponesi, che della banca d'affari hanno molti connotati, dalla rete informativa alle conoscenze tecniche, compresa la fornitura di capitale di rischio e di finanziamenti.
Le banche d'affari, come del resto le Trading Companies, devono essere quindi delle sofisticatissime antenne sul mondo, in grado di elaborare enormi quantità di dati e di risintetizzarli sotto forma di interventi strategici, sia che si tratti di venture capitals, sia di fusioni, sia di acquisizioni, sia infine di grandi piani di investimento.
Se ben si riflette su questo vortice di stimoli e di sollecitazioni esterne, ci si rende conto che il problema delle partecipazioni bancarie in imprese industriali, così come si è incominciato a impostarlo nel nostro Paese, rischia di restare statico. Ed è solo la punta dell'iceberg di un discorso più profondo sull'Investment Banking come agente di ristrutturazione industriale e di competitività internazionale.
Ben vengano anche nel nostro Paese le banche d'affari. Ma esse potranno sostenere solo un'azione difensiva, una sacrosanta guerra di trincea contro l'inflazione che corrode i profitti reali, fino a che esse non si nutriranno di una classe imprenditoriale (sia nel settore pubblico sia in quello privato) che pensi ed agisca in termini integrati, interdisciplinari ed internazionali, individuando le necessarie configurazioni instituzionali, che sperabilmente accolgano anche partners esteri.
E' quindi prioritario migliorare e rinnovare il mix tecnico-imprenditoriale sia delle nostre banche sia delle nostre imprese (specialmente pubbliche), ringiovanendole nel senso di aumentarne l'osmosi con tutti i settori produttivi, dotandole di efficaci centri analitici, immergendole nell'ambiente esterno, sottoponendole al verdetto dei mercati internazionali. Solo un attivo sviluppo delle nostre risorse umane farà progredire le nostre istituzioni e la nostra economia, non il capitale come voce di bilancio.
E' un discorso importante, soprattutto alla luce delle trasformazioni avvenute negli ultimi anni nel nostro Paese, un Paese che in un certo senso ha "cambiato pelle" e che vive gli Anni '80, volendosi esprimere in sintesi, con più benessere, ma con meno sicurezza. Com'è cambiato? In che direzione va?
Sostituendosi all'onnipresente sociologo, risponde uno studio dell'Istat, fitto di cifre e di grafici. Molte cose le sapevamo già, sia pure approssimativamente: viviamo più a lungo, siamo più istruiti, abbiamo più telefoni e televisori, molti di noi sono proprietari di casa (parecchi ne hanno anche un'altra), ci nutriamo meglio (e spendendo per il nostro vitto una fetta più piccola del nostro reddito), andiamo più spesso in vacanza.
C'è, però, il rovescio della medaglia: è aumentato il numero dei delitti, in gran parte impuniti; cresce la criminalità organizzata; due detenuti su tre sono in attesa di giudizio; aumentano i disoccupati e i giovani in cerca di prima occupazione (anche se pochi pensano ad emigrare); leggiamo meno giornali e riviste; la riforma sanitaria è in gran parte fallita, eppure abbiamo il più alto numero di medici in rapporto a qualsiasi altro Paese; per la ricerca scientifica spendiamo quote irrisorie; crescono i divari tra Nord e Sud, e questo è uno dei dati più gravi. Ma vediamo la situazione nei dettagli.

Popolazione. In base all'ultimo censimento (1981), siamo 56 milioni 224 mila, circa due milioni più di dieci anni fa. Per l'immediato futuro si prevede un incremento piuttosto limitato, che potrebbe addirittura tramutarsi, entro il 2000, in una leggera riduzione, se il tasso di natalità seguirà a calare, come in tutti gli altri Paesi sviluppati. Nel 1990 - stime Istat - dovremmo essere 57 milioni e 600 mila.E'però da rilevare che, mentre al Nord e in misura minore al Centro, il numero dei morti supera quello dei nati, al Sud si prevede ancora per qualche decennio un incremento demografico. E questo fenomeno non sarà più bilanciato dall'emigrazione, già ferma da alcuni anni. Si è anche ridotto il flusso dell'emigrazione verso l'estero, che negli ultimi vent'anni è scesa da 400 mila unità all'anno a meno di 100 mila. in compenso, si è sviluppata l'immigrazione, proveniente da Paesi sottosviluppati. la vita media è aumentata, più per le donne che per gli uomini; 75,9 anni contro 68,7. Ogni quattro novantenni, tre sono donne.

Industria. Fra i maggiori Paesi della CEE, l'Italia detiene (a partire dal 1975) il primato della crescita della produzione industriale, e, tra i Paesi industrializzati, è seconda solo al Giappone. Fra le tabelle che orgogliosamente scandiscono questi risultati, ce n'è una che conferma le accuse CEE all'Italia di aver .incrementato la produzione di acciaio, mentre tutti gli altri Stati della Comunità la riducevano.

Commercio. Siamo un Paese di negozianti: il commercio occupa infatti il 44 .per cento dei lavoratori del terziario privato. Ma i risultati non sono esaltanti: infatti, il valore aggiunto prodotto rappresenta solo il 34,4 per cento del totale. Causa: l'eccessiva "polverizzazione" dei punti di vendita, mentre resta ancora troppo basso il numero dei grandi magazzini, dei supermercati e delle cooperative (e al Sud ce ne sono la metà rispetto al Nord).

Lavoro. Quasi tutti gli uomini fra i 30 e i 54 anni hanno un lavoro. Per le donne, i giovani e i più anziani, la situazione è invece ben diversa, soprattutto per .Chi non ha mai lavorato. Pare che, mentre per chi ha un posto di lavoro sia relativamente facile conservarlo, ottenere un primo impiego è impresa assai ardua: anche perchè, proprio in questi anni, stanno entrando nel mercato del lavoro i giovani nati negli Anni '60, il periodo di più alta natalità. Ogni cento lavoratori, 71 sono dipendenti; le donne lavoratrici sono un pò meno della metà degli uomini, ma il divario va lentamente calando.

Reddito. Il reddito prodotto per abitante varia molto da regione a regione: in Vai d'Aosta, la più ricca, è oltre tre volte superiore rispetto alla Calabria. Ai primi posti ritroviamo Lombardia, Liguria, Piemonte, Emilia-Romagna. Agli ultimi, come al solito, Campania, Sicilia, Molise, Basilicata, Calabria. Non solo al Sud il reddito medio è più basso, ma è assai inferiore il numero di persone che lavorano. Negli ultimi anni è migliorata, a confronto con la media nazionale, la posizione di tutte le regioni del "versante adriatico".

Consumi. Negli ultimi dieci anni si è ridotta notevolmente, dal 34,6 al 28,3 per cento, la quota della spesa per consumi alimentari, a vantaggio ovviamente di consumi "più ricchi", come i trasporti, l'arredamento, il turismo. Anche qui, grandi differenze tra Nord e Sud, e tra le diverse categorie sociali. Ad esempio: nelle famiglie di imprenditori e di liberi professionisti la spesa per l'alimentazione incide per il 22,5 per cento, contro il 28,4 di dirigenti e impiegati, il 30,3 per cento dei lavoratori in proprio, il 34,3 degli operai, il 34,7 dei pensionati.

Alimentazione. Il consumo di carne e di latte è in continua crescita, mentre è in leggera diminuzione il consumo di pane, pasta e vino: è un'evoluzione che denota un aumento del benessere economico, e che spesso rappresenta anche un miglioramento della dieta.

Salute. L'evoluzione della spesa che lo Stato sostiene per le prestazioni sanitarie (assorbite per oltre metà dall'assistenza ospedaliera) costituisce da anni una percentuale costante del Prodotto Nazionale Lordo. Aumenta invece la spesa sostenuta dalle famiglie, sia per le prestazioni mediche, sia per l'acquisto dei medicinali, specialmente a partire dal 1978, anno di introduzione dei ticket. Il numero dei posti-letto negli ospedali è soddisfacente: 949 ogni centomila abitanti, contro gli 871 della Gran Bretagna e i 630 degli Stati Uniti, Inoltre, la durata media delle degenze e più che dimezzata, negli ultimi vent'anni, passando da 26,4 a 12,9 giorni.

Casa. Uno dei grandi problemi sociali dell'Italia d'oggi è la difficoltà di trovare un alloggio, soprattutto nelle grandi città. Motivo: gli investimenti nel settore sono andati calando negli ultimi dieci anni, in particolare dopo la crisi economica del 1975. Ma è aumentato il numero di stanze per ogni mille abitanti: dal 1971 al 1981 si è passati da 1.193 a 1.552. Tuttavia, buona parte di queste nuove costruzioni riguarda le "seconde case", usate per le vacanze. Aumenta anche il numero delle abitazioni in proprietà, rispetto a quelle in affitto: il rapporto è ormai di 60 a 40. Un altro motivo della crisi è costituito dagli eccessivi prezzi delle case, che diventano proibitivi se si deve ricorrere a prestiti o mutui, dati gli alti tassi d'interesse.

Trasporti e comunicazioni. Fra i Paesi più sviluppati, siamo all'ultimo posto per la dotazione di ferrovie, destinate quasi esclusivamente al trasporto dei passeggeri. Anche nel trasporto aereo siamo in ritardo, sia per la dotazione di vettori sia per l'economicità di trasporto. La rete stradale appare limitata, mentre per le autostrade siamo al secondo posto in Europa. Per gli apparecchi telefonici, l'Italia è poco al di sotto della media europea, ma rispetto agli Stati Uniti è a poco più di un terzo, come nel campo degli apparecchi televisivi.

Istruzione e cultura. Oltre un milione di iscritti alle Università: basta questa cifra per sintetizzare i progressi compiuti, almeno quantitativamente, nel settore dell'istruzione. Trent'anni, fa, infatti, i laureati in tutta Italia erano appena 300 mila. Ormai, oltre la metà dei giovani si iscrive alla scuola media superiore, e la maggior parte conclude gli studi con un diploma, anche se spesso inutile.
Questo aumento di istruzione non ha però inciso su alcuni consumi culturali, come l'acquisto di riviste e di giornali, calato negli ultimi anni: solo 19 italiani su 100 comprano riviste, e appena 8 su 100 acquistano giornali quotidiani. La situazione è ancora più grave per i libri (due acquirenti su 100 italiani), anche se c'è in questo settore un certo miglioramento.

Sport e vacanze. Quaranta italiani su 100 vanno ogni anno in vacanza. Dieci anni fa erano solo 31. Sono soprattutto gli abitanti del Nord a godere di questo privilegio: in particolare i giovani. Due su tre vanno al mare, uno su venti all'estero. Anche per gli spettacoli e le manifestazioni sportive i settentrionali spendono molto di più (oltre il doppio) dei meridionali. Nonostante la crisi che sta attraversando (soprattutto per via della Tv), il cinema fa sempre la parte del leone, con il 40 per cento della spesa (al Sud il 45 per cento); segue il ballo (20% al Nord, 10% al Sud); lo sport registra il 18 per cento: quasi la metà per il solo calcio di serie A e B. Con quote inferiori seguono, nell'ordine, biliardini, flippers, juke-box, rivista, operetta e varietà, teatro di prosa, concerti, lirica e balletti, infine il circo.


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