Disoccupazione
I dati ISTAT, aggiornati nella seconda metà dello scorso anno,
registrano, a partire dal periodo successivo ai primi Anni Sessanta
(quelli del cosiddetto "boom economico"), un ritmo di crescita
costante a livello di disoccupazione nel nostro Paese. I disoccupati,
secondo la stima riferita alla fine del 1984, sono 2 milioni e 390 mila
(10,37% delle forze di lavoro). Ciò significa che una persona
su dieci ha perso il lavoro o è in cerca di prima occupazione.
I soggetti maggiormente colpiti da questa situazione risultano i giovani
(33,75% di disoccupazione giovanile) e le donne (57,61%, cioè
oltre la metà del totale dei disoccupati). Un altro primato sconfortante
spetta al Mezzogiorno d'Italia, dove gli uomini senza lavoro sono poco
meno del 50% del resto d'Italia (481 mila, a fronte del milione dell'Italia
Settentrionale e Centrale); le donne disoccupate sono 541 mila. Ed è
importante notare che il ritmo di crescita della disoccupazione "esplicita"
è stato nell'ultimo periodo più intenso che in altri Paesi
della CEE (a parte i Paesi Bassi).
Neppure il futuro sembra riservarci la possibilità di formulare
ipotesi più ottimistiche, se vogliamo attenerci ai dati forniti,
in un recente studio, dalla Banca d'Italia. Attraverso un'analisi del
mercato del lavoro basata su una serie di variabili (andamento demografico,
tassi di attività) si ottiene una stima minima del fenomeno "disoccupazione"
(900mila nuove persone in cerca di occupazione) ed una stima massima,
basata sull'estrapolazione delle tendenze emerse negli ultimi sette
anni (1,5 milioni di nuovi disoccupati di qui al 1993). Nell'ipotesi
massima - detta "estrapolativa" - sarebbe necessario un incremento
annuo di occupazione tale da dover creare 160 mila posti di lavoro per
la manodopera aggiuntiva e quasi 400mila per raggiungere la piena occupazione.
Una prospettiva ardua, se si pensa che solo per stabilizzare la situazione
della disoccupazione ai livelli attuali, l'economia italiana dovrebbe
crescere ad un ritmo di sviluppo che varia tra il 2,4% e il 2,8% l'anno.
Nuovi problemi si presenteranno anche dal punto di vista sociale, poichè,
per effetto di un minore ingresso dei giovani sul mercato del lavoro,
l'età media dei disoccupati tenderà a spostarsi sempre
più in avanti.
L'economia
sommersa
I soggetti sociali più facilmente estromessi dal mondo del
lavoro - i giovani e le donne - sembrano destinati, almeno in parte,
ad ingrossare le sacche del lavoro nero e del lavoro a domicilio.
Ma prima di analizzare il fenomeno del cosiddetto lavoro "sommerso",
soffermiamoci sull'economia sommersa più in generale.
Da stime basate sulla valutazione della percentuale di sottostima
delle statistiche ufficiali, dal lato della formazione delle risorse
e da quello degli impieghi, il volume di "sommerso" nel
nostro Paese risulterebbe pari a circa 100mila miliardi (un quinto
del Prodotto Interno lordo ufficiale). Una caratteristica di tale
analisi è l'aver tentato di valutare l'"economia criminale"
(contrabbando, droga, prostituzione, furti etc.) da un lato ed i "consumi
illegali" dall'altro. Dalle stime, i poli principali del "sommerso"
sembrerebbero essere quattro (a parte il sommerso proprio del sistema
economico nel suo insieme):
Il polo edilizio.
L'entità del sommerso legato a questo settore sarebbe di circa
20-30mila miliardi, tenendo conto del divario fra i dati ufficiali
e le costruzioni effettive, che risultano .circa il doppio; accanto
all'abusivismo edilizio va considerata anche la sottovalutazione dei
servizi dell'abitazione, quali gli affitti fuori equo canone, le sublocazioni,
etc.
Il polo dell'industria
leggera. La sottovalutazione produttiva complessiva potrebbe essere
di 5-10mila miliardi, tenendo conto che nel settore tessile-abbigliamento
ed in quello della pelle e del cuoio le stime del valore aggiunto
sembrano inferiori al vero di un volume di circa il 20%, mentre sottostime
di poco inferiori si hanno per l'industria del legno e del mobilio
e per gli alimentari.
Il polo commerciale.
L'entità del sommerso in questo settore si può stimare
in 25-30 mila miliardi; in quest'ambito, infatti, le sottovalutazioni
appaiono vistose, soprattutto per i pubblici esercizi e per quel settore
del commercio che può rifornirsi senza fattura dai produttori
dell'industria leggera.
Il polo criminale.
Il volume di sommerso sarebbe pari a circa 20mila miliardi. Altre
sottovalutazioni importanti concernono taluni settori agricoli, l'evasione
dei professionisti, la sottostima ,delle spese per la salute.
Sottoccupazione
I dati sulla disoccupazione, cui abbiamo accennato, non potranno che
registrare un peggioramento ulteriore della situazione, a meno che
la nostra politica economica non sappia attuare un mutamento di rotta
almeno parziale. le conseguenze, se ciò non si verificasse,
sarebbero assai gravi, sia dal punto di vista politico che economico,
soprattutto per quanto riguarda la capacità di contenere il
deficit del bilancio della pubblica amministrazione e le spinte inflazionistiche.
La sottoccupazione appare come uno scoglio non meno arduo da superare.
La tutela dei lavoratori inseriti nei vari aspetti di sottoccupazione
è resa difficile dall'impossibilità di formulare strategie
adeguate, a causa della .mancanza di informazioni attendibili sulle
caratteristiche e sulle dimensioni del fenomeno. Attraverso le ricerche
effettuate nell'ultimo decennio sul lavoro a domicilio, sul decentramento
dell'attività al di fuori della fabbrica, sul potenziale di
lavoro, sulla sottoccupazione non rilevata ufficialmente, sul lavoro
nero e sul lavoro sommerso, si è gradualmente presa coscienza
di come i confini tra "offerta di lavoro / occupazione / sottoccupazione
/ disoccupazione" siano sfumati e soggetti a rapide variazioni,
tali da rendere ardua ogni quantificazione. In ogni caso, l'orientamento
principale della ricerca sulla sottoccupazione è attualmente
diretto sul doppio lavoro e sulle così dette "figure miste",
cioè quei soggetti sociali posti, per così dire, a metà
tra lavoro e posizioni considerate ufficialmente come "non professionali":
gli studenti, i pensionati, le casalinghe. Ricerche vengono anche
condotte in settori che aprono enormi problematiche, come quello del
lavoro minorile. Un approccio a questi problemi in termini di cifre
è assai difficile. Come nota Mauro Ferrara, ricercatore del
CENSIS (Centro Studi Investimenti Sociali), non esistono infatti confini
netti tra lavoro e non lavoro per consistenti fasce di offerta, sia
in età di ingresso sia in età di uscita sia in età
centrale. Non è possibile quantificare con precisione queste
fasce, ma solo tenere presenti talune grandezze che condizionano il
funzionamento del mercato del lavoro. Le identità di tale mercato
appaiono oggi instabili, polivalenti, con determinanti multiple e
con forte variabilità temporale, mentre le vecchie categorie
(attivi / inattivi; occupati / inoccupati / sottoccupati) appaiono
troppo rigide ed inadeguate: in altre parole, l'offerta di lavoro
non appare oggi del tutto comprensibile nè governabile per
identità unidimensionali e per insiemi disgiunti (attivi, inattivi,
occupati, inoccupati). Appare molto vasta e fluida la configurazione
dell'offerta e della partecipazione al lavoro, anche con fenomeni
di segmentazione di quella parte di offerta che viene correntemente
riferita alla categoria della disoccupazione.
La configurazione dell'offerta è, in linee generali la seguente:
- il doppio
lavoro: per il 1980, attraverso le dichiarazioni Irpef, la stima
è di 4,2 milioni di unità (pari al 19,1% dei dichiaranti
redditi derivanti da attività lavorative), con una minoranza
non trascurabile di iperoccupati, con tre o più attività,
che tocca le 260mila unità circa;
- il part-time:
nel luglio 1983 interessa 1,2 milioni di occupati, corrispondente
al 5,9% dell'occupazione totale (per la sola occupazione femminile
la quota sale all'11,2%);
- la presenza
degli immigrati stranieri: stimata approssimativamente in 400
mila unità nel 1976, oggi certamente in forte espansione, se
si tiene conto dei permessi di soggiorno rilasciati;
- la segmentazione
dell'insieme dell'inoccupazione, che va al di là della
differenziazione tra i disoccupati (cioè coloro che hanno perso
una prima occupazione, nel 1983 circa 355 mila, pari al 15,6% della
inoccupazione), i giovani in cerca di prima occupazione (un milione
299mila nello stesso anno, pari al 57%) e le figure "miste"
- casalinghe, studenti, pensionati - che aspirano a lavorare (624
mila, sempre nel 1983, pari al 27,4%).
Esiste inoltre un'indentità mobile dell'offerta, che
fluidifica ulteriormente la partecipazione al lavoro: durante l'arco
dell'anno, infatti, un insieme di 4,9 milioni di persone (11,7% della
popolazione in età da lavoro) trasforma i riferimenti della
propria identità lavorativa, passando dall'inattività
all'attività e dall'occupazione all'inoccupazione o viceversa.
A questi vanno aggiunti gli occupati che cambiano lavoro (circa 2,8
milioni). Abbiamo casi, nel corso di un anno, un movimento di 7 milioni
e 633 mila unità (il 18,3% della popolazione fra i 14 ed i
70 anni). Va anche tenuto conto di un pendolarismo annuale ed infrannuale
tra inattività ed occupazione (ad esempio, durante l'arco dell'anno
circa 430 mila casalinghe entrano nell'occupazione, contro 428mila
che dall'occupazione ritornano all'inattività); come pure bisogna
tenere conto della diversificazione della partecipazione al lavoro
da parte della popolazione studentesca e della proporzione fra gli
occupati che vanno in pensione (551 mila) ed i pensionati che trovano
lavoro (194mila).
Per avere un approccio quanto più possibile corretto con il
problema del lavoro sommerso, dobbiamo tener conto dell'andamento
economico del nostro Paese dal secondo dopoguerra.
La nascita
del decentramento. Lavoro nero e sottoccupazione.
Dal secondo dopoguerra e fino alla metà degli Anni Settanta,
l'Italia presento, rispetto ai Paesi più industrializzati,
squilibri tipici di un'economia a sviluppo ritardato. In questo periodo
il nostro sistema produttivo è caratterizzato da un forte dualismo
nelle capacità imprenditive, organizzative e tecnologiche:
accanto ad un nucleo di imprese avanzate per quanto riguarda gli aspetti
succitati, esiste una moltitudine di imprese che presenta strutture
organizzative e dimensionali più semplici e che opera nei settori
a tecnologia più tradizionale. La conseguenza è un corrispondente
dualismo retributivo e un dualismo nelle condizioni di lavoro: in
particolare fra lavoro regolare e lavoro irregolare o precario, oppure
una combinazione di entrambi, a seconda degli obiettivi e dei rapporti
di forza che prevalgono. Questo elemento di natura strutturale spiega
l'esistenza di un mercato nero: infatti l'inadeguata offerta di capacità
imprenditiva ed organizzativa e la sua inelasticita nel breve-medio
periodo impediscono di realizzare l'occupazione del potenziale di
lavoro disponibile a condizioni quantitativamente e qualitativamente
migliori. Inoltre, se analizziamo i dati ISTAT relativi ai censimenti
1961-1971, rileviamo l'andamento del fenomeno cui si lega il lavoro
nero ed in particolare il lavoro a domicilio: il decentramento produttivo.
Le tendenze del processo di decentramento, venute in luce all'inizio
degli Anni Sessanta, mostrano un rallentamento tra il 1961 ed il 1969,
mentre tra il 1969 ed il 1971 si accentuano e si consolidano, coinvolgendo
piccole unità produttive. L'organizzazione decentrata della
produzione - di cui il lavoro a domicilio è la forma specifica
- rientra nelle caratteristiche più generali del capitalismo
moderno: essa consente, infatti, oltre allo svuotamento delle norme
che dovrebbero tutelare legalmente le condizioni di lavoro in fabbrica,
anche un alleggerimento della conflittualità che deriva dall'autonoma
organizzazione operaia. Esiste dunque un nesso preciso tra sviluppo
industriale, decentramento produttivo e l'anello ultimo del decentramento
che è il lavoro a domicilio.
Alla fine del 1971 l'assestamento dell'organizzazione decentrata della
produzione appare consolidato nel rapporto tra grosse concentrazioni
e tutto il tessuto di piccole unità produttive ad esse subordinato,
nel quale acquista rilievo particolare l'artigianato. Secondo alcune
stime, alla fine del 1971 almeno 210 mila imprese artigiane manufatturiere
risultano coinvolte nel decentramento, con circa 490rnila occupati
tra titolari, soci, familiari e dipendenti; 120 mila gli artigiani
lavoranti a domicilio con circa 250mila occupati.
Nella seconda metà degli Anni Settanta si comincia però
a delineare una nuova situazione tecnico-produttiva, anche se allora
recepita in modo marginale. E' alla fine degli stessi Anni Settanta
che, attraverso lo studio delle attività terziarie piuttosto
che di quelle manifatturiere, viene individuato nel perseguimento
delle così dette "nuove tecnologie" (microelettronica,
telematica) l'emergere di un nuovo decentramento della attività
produttiva. In un saggio di L. Frey, pubblicato lo scorso anno dal
Centro di Ricerche Economiche e Sociali nell'ambito di una ricerca
condotta per conto della Regione Lombardia, viene analizzata questa
nuova forma di decentramento e come essa alimenti nuovi margini di
"economia sommersa". Altro dato rilevante di questa ricerca
è l'ipotesi che una parte notevole dei "ritirati dal lavoro"
sotto i 60 anni di età, estromessi dai processi produttivi
con prepensionamento, mantenga una presenza più o meno esplicita
sul mercato del lavoro regionale. Appare tra l'altro significativo
che sia aumentato in misura rilevante dal 1980 al 1983 il numero di
"ritirati dal lavoro" in cerca di occupazione, i quali alimenterebbero
la disoccupazione / sottoccupazione esplicita regionale. Accanto a
questa componente esplicita vi sarebbe anche una crescente sottoccupazione
"implicita" di "ritirati dal lavoro" desiderosi
di mantenere un ruolo attivo e di integrare il reddito familiare.
Accanto a tale espansione della figura mista del pensionato-lavoratore,
viene ipotizzato anche l'aumento delle figure miste degli studenti-lavoratori,
che parimenti favorirebbero i processi di decentramento.
A ragione si può dunque definire la realtà economica
italiana come multidimensionale, frammentata ed articolata attraverso
comportamenti - economici e sociali - che la rendono non facilmente
comprensibile attraverso i normali criteri di analisi e di intervento.
Di pari passo vanno rapidamente mutando i bisogni collettivi e la
cultura, mentre faticosamente l'analisi dei fenomeni sta al passo
con questa accelerazione e la cultura politica di vertice appare inadeguata
a dare risposte concrete. Di fatto, alla progressiva complessificazione
del mercato del lavoro non c'è stato riscontro adeguato in
termini di capacità di governo e di gestione; alla dinamica
sociale si è contrapposta - e continua a contrapporsi - una
sorta di stasi di idee e di proposte; alla volontà collettiva
di crescita, la mancanza di un riferimento sicuro di autorità
e diritto. Alla volontà di costruzione e sviluppo del singolo
e della collettività troppo spesso, ancora, fanno riscontro
antiche discriminazioni, i privilegi di pochi, la gestione del potere
condotta in ottiche di forza, la spartizione partitica della cosa
pubblica. E, come se non bastasse, l'inquinamento del tessuto sociale
(e di quello lavorativo ed economico) attraverso cosche e congreghe,
mafie e poteri, occulti ma non troppo, in non rara connivenza con
il potere politico. Di questa situazione è vittima tutta la
parte sana del corpo dello Stato. In particolare, e soprattutto nel
mondo del lavoro, coloro che maggiormente vengono penalizzati sono
i giovani e le donne.
Donne e lavoro
Le donne occupano una posizione per molti versi "anomala"
nelle istituzioni e nei processi del sistema sociale. Esistono infatti
condizioni, in questa nostra società contemporanea, che toccano
le donne più direttamente che altre categorie sociali e che
concernono il modo di funzionare del sistema sociale complessivo.
L'emancipazione della donna appare ancora una conquista per molti
versi ambigua. A fronte di una sua legittimazione teorica, che non
ha però corrispondenti sbocchi concreti nel mondo del lavoro,
i poteri e le priorità restano, saldamente maschili. Le discriminazioni
contro le donne nell'ambito del lavoro non appaiono, quindi, affatto
tramontate, soprattutto perchè non è ancora tramontato
il loro vecchio ruolo nell'ambito della società. Mentre la
donna ha difficoltà a riaggregarsi nei movimenti collettivi
femminili ed afferma un'identità estranea tanto alla tradizione
quanto ai facili slogan del presente, sembra ritornare in auge - riproposta
coralmente dai mass-media - una immagine .stereotipata di femminilità
(basti un'occhiata alle riviste di moda) e riprendere il sopravvento,
assieme al concetto di "madre biologica", l'idea di donna
come produttrice di servizi all'interno della famiglia. Forse non
a caso vengono tagliate le spese pubbliche per i servizi sociali.
In questo clima, anche il "part-time per tutti" probabilmente
finirà con il risolversi in un'occupazione a tempo determinato
soprattutto per le donne, in modo che esse possano conciliare "pretese"
di lavoro e cura della casa e dei figli. Ma questo perseguimento antistorico
della separazione dei ruoli, in virtù del quale il lavoro esterno
della donna presenta ancora un carattere integrativo delle entrate
familiari ed un carattere di compatibilità con il lavoro produttivo
principale (quello casalingo), presenta una serie di vantaggi a livello
di profitto economico:
- deputando le donne al ruolo di casalinghe, si ottiene il contenimento
dell'offerta di piena occupazione da .parte delle forze produttive;
- si crea la possibilità di sfruttare manodopera ed anche lavoro
intellettuale sottosalariato femminile (lavoro nero, lavoro a domicilio,
etc.);
- dal momento che la donna espleta tutti i servizi sociali necessari
alla famiglia, lo Stato ottiene risparmio nella erogazione di denaro
per la creazione di una rete adeguata di servizi sociali.
Il lavoro a domicilio, tipicamente di connotazione femminile, per
quanto si cerchi da più parti di rivalutarlo (richiede una
ridotta organizzazione aziendale, tariffe più basse di quelle
corrisposte nel lavoro regolare e permette di ottenere una buona produzione
giornaliera), in quanto valvola di sicurezza nella tenuta del sistema
economico allorchè il livello disoccupazionale supera i livelli
di guardia, corrisponde tuttavia più alle leggi del profitto
che ad una soluzione della crisi economica ed occupazionale.
Anche per quanto riguarda il "nuova" lavoro a domicilio
cui abbiamo accennato (quello indotto dalle nuove tecnologie), sebbene
esso possa interessare una struttura molto più variegata -
per sesso, età, qualifica - che non il lavoro a domicilio tradizionale,
a tutt'oggi permane una rilevante componente femminile, soprattutto
quando il decentramento parta da imprese manifatturiere, proprio perchè
l'attuale contesto socioculturale permette una maggiore coincidenza
fra le strategie delle imprese decentranti e le caratteristiche dell'offerta
femminile e della condizione femminile di cui si è detto.
Molti sarebbero ancora gli argomenti .da affrontare, dal lavoro minorile,
alla disoccupazione giovanile analizzata più nel dettaglio
e nelle cause, fino all'offerta di lavoro delle persone avanti nell'età.
Ci limitiamo a notare che questi aspetti molteplici di una realtà
sociale ed economica, complessa e contraddittoria, sono fenomeni diversi
ma complementari che sottendono un ovvio clima di insicurezza nei
confronti del futuro, un diffuso disagio (individuale e collettivo),
uno scollamento progressivo tra società civile e società
politica, incapace di dare risposte, una sfiducia nelle ,istituzioni
che rischia di divenire cronica. In poche parole, una distanza che
appare sempre più grande tra natura dei bisogni sociali e cultura
istituzionale.