§ OCCUPAZIONE

REALPOLITIK PER I GIOVANI




Maria Rosaria Pascali



E' difficile ammettere che, oggi più che mai, tra invasioni di computers e robots, troppi problemi esistenziali restano ancora irrisolti. Anche la disoccupazione ci appare solo come una tragica incoerenza. Purtroppo, l'automazione ha distrutto tutti i precedenti parallelismi, rendendo inutili troppi uomini. Ma, si sa, non si può fermare il progresso.
Si dice sia l'epoca dei dubbi, dei ripensamenti. E, di fatto, tutti sembrano aver aperto gli occhi. Ma con che coraggio si parla di presa di coscienza? Ignorare i problemi, finchè non ne derivano drammatiche conseguenze, è ancora nel nostro ordine di idee: soltanto quando la situazione è esasperata nascono le indagini, i dibattiti, e si cerca di rimediare in qualche modo. è successo anche in materia di occupazione; solo che, stavolta, il fenomeno si è rivelato più grave del previsto e le proposte fanno acqua da, tutte le parti.
In Italia, poi, sembra di essere in un vicolo cieco. Tutte le previsioni dicono che al problema non c'è rimedio e i dati sono terrorizzanti: siamo, dopo la Gran Bretagna, il paese a più alto tasso di disoccupazione (10,4%) dell'Occidente industrializzato; mentre abbiamo il record assoluto in materia di disoccupazione giovanile (33,2%). A peggiorare la situazione concorre l'incapacità di inquadrare nettamente il fenomeno: non c'è niente di preciso e, nel momento in cui si cerca di indagare a fondo, lo si scopre aggrovigliato in una fitta rete di dubbi. Innanzitutto, incertezze nascono quando si cerca di sintetizzare il problema in cifre: infatti, per l'impossibilità di accertare i dati sul lavoro nero e sugli immigrati clandestini, esse danno solo un'immagine parziale della nostra realtà occupazionale. In Italia, si parla di due milioni e mezzo di disoccupati; ma si parla anche, secondo dati ufficiosi, dell'esistenza di un egual numero di occupati svolgenti doppio lavoro, di 800 mila immigrati di colore (clandestini e non), di 500 mila donne occupate nel sommerso... Dati, questi, che variano da Istituto ad Istituto, provocando contrasti e contraddizioni.
Un'altra fonte di perplessità riguarda il carattere della disoccupazione italiana: molti sostengono (e la presenza di tantissimo lavoro nero e di doppio lavoro dovrebbe esserne la prova) che il fenomeno, in Italia, non è dovuto alla mancanza di posti di lavoro, ma si riduce ad una questione di settori e di mobilità. Eppure, questa affermazione perde credibilità, se si considera che anche l'apparato del lavoro nero e della doppia occupazione è entrato in crisi. Inoltre, nonostante si continui ad assimilare il fenomeno a quello degli altri Paesi industrializzati, mai, in nessuna di queste nazioni, esso ha assunto un carattere così endemico e permanente come in Italia: in nessun altro Paese industrializzato si rischia di restare disoccupati a vita, né si emigra per cercare lavoro.
Purtroppo, in Italia, il fenomeno è più grave di quanto si voglia far credere: non vi è dubbio che una politica statole caratterizzata da sperperi ed assistenzialismi sia stata un errore comune a tutte le nazioni europee: ma, nel nostro Paese, questo sbaglio si è unito ai seri problemi strutturali esistenti in alcune aree del Meridione, dando casi un carattere cronico alla disoccupazione italiana.
L'impegno dei politici è a lunga scadenza: si dice che dovranno passare almeno dieci anni, prima che la percentuale di disoccupazione possa raggiungere livelli oscillanti fra il 7% e l'8%. E, in questi dieci anni, la situazione, soprattutto per i giovani e per il Sud (dove si concentrerà il 90% delle nuove offerte di lavoro), è tutt'altro che incoraggiante: attualmente, sono 2 milioni 800 mila i disoccupati espliciti, impliciti od occultati dalla Cassa Integrazione. Fino al 1994, circa un milione 700 mila persone si aggiungeranno alla lista di atteso: infatti, si consideri che l'ingresso sul mercato del lavoro delle leve dei "baby boom" si completerà solo nel 1991; che l'offerta femminile subirà un inevitabile aumento e che molti lavoratori saranno espulsi dall'agricoltura e dall'industria. Completano il quadro gli emigrati che, per le condizioni non certo migliori degli altri Paesi, saranno presto costretti a ritornare in Italia. Totale: circa quattro milioni e mezzo di persone in cerca di lavoro... Una cifra sconcertante!
D'altra parte, solo per riuscire a contenere il tasso di disoccupazione entro il 7-8%, bisogna creare ogni anno, per dieci anni, ben 250 mila nuovi posti di lavoro: mèta molto difficile da raggiungere, se si pensa che la media del decennio 1974-84 non oltrepassa le 110 mila unità.
Anche la speranza che una crescita economica potesse salvare la situazione è venuta meno: nel 1983 si era creduto che la recessione dell'1,2% del Prodotto Interno Lordo fosse stata la causa principale della creazione di un minor numero di posti di lavoro (solo 64 mila unità). Ma che dire del 1984? Nonostante la nostra economia sia cresciuta del 3-3,5% (è stata la terza crescita economica del mondo), sono sorti soltanto 90 mila nuovi posti di lavoro. Quell'antico parallelismo tra produzione e occupazione viene dunque oggi ad essere definitivamente infranto.
Si delineano, allora, periodi cupi per tutti; ma per i giovani è ancora peggio. Purtroppo, se non cambia qualcosa, un'intera generazione rischia di restare disoccupata a vita: infatti, il 60% dei senza lavoro è costituito da giovani al di sotto dei 29 anni che non hanno mai lavorato. I dibattiti si susseguono, nella speranza di aprire uno spiraglio di luce. Il fatto è che oggi le imprese non hanno alcuna convenienza ad assumere le forze in cerca di primo impiego: la differenza di salario tra un giovane senza esperienza e un lavoratore qualificato è solo del 25%. Che fare? Creare un .salario d'ingresso per far aumentare quella differenza, oppure dare ai giovani un'adeguata formazione professionale? Sono queste le possibilità tenute in maggiore considerazione da politici, sindacati e industriali. E, mentre la necessità di dare una formazione professionale alle nuove forze resta ancora qualcosa di teorico, la creazione di un salario d'ingresso si delinea ormai come una realtà. Meno salario per i giovani e più lavoro per tutti: è questa la ricetta. E, visti i tempi che corrono, la prospettiva di guadagnar meno è sempre più accettabile della disoccupazione. Ma quante forme di sfruttamento, in aggiunta a quelle già esistenti, verranno a crearsi? Non dimentichiamo, poi, che su questo principio si basava anche la legge 285 sull'occupazione giovanile. Eppure si sono visti i risultati: in due anni di applicazione, essa ha prodotto solo 13 mila assunzioni nel settore privato. ,Questo significa che simili soluzioni non potranno essere, in nessun caso, efficaci strumenti nella lotta contro la disoccupazione. Infatti, alla necessità di creare nuovi sbocchi occupazionali le di slanciare le forze produttive, non .si può far fronte adottando politiche ,sostanzialmente redistributive, come quella del salario d'ingresso o della .riduzione dell'orario di lavoro.

E' lo stato di inerzia industriale che va innanzitutto guarito. La creazione di nuove industrie, come fonte prima di occupazione, deve allora rimanere l'obiettivo principale da raggiungere. Anche perchè non possiamo dimenticare che, oltre ai giovani, è diventata inutile moltissima mano d'opera impiegata nelle imprese: sono, infatti, più di 200 mila i lavoratori in Cassa Integrazione a zero ore che non torneranno più in fabbrica. E il loro numero è destinato ad aumentare: le vecchie industrie devono rinnovarsi e, per farlo, devono espellere continuamente mano d'opera, facendo venir meno qualsiasi garanzia di stabilità occupazionale.
Ma la nostra più grande conquista sarebbe quella di eliminare le assurde ingiustizie esistenti nel Paese. Purtroppo, in Italia, si vive e ci si crogiola nelle contraddizioni e nella degradazione umana: un enorme reticolato prolifera e opera nell'ombra... Tutti sanno e tutti ignorano: doppi, tripli lavori, attività sommerse, laureati, giovani non garantiti e stranieri che accettano il "nero" pur di lavorare. Bisognerebbe spezzare questa catena.
I politici, però, la pensano un po' diversamente. "Il nostro sistema è troppo rigido" - dicono - "l'unica speranza è quella di far presa sulla flessibilità e sull'innovazione, seguendo l'esempio del Giappone e degli Stati Uniti. Se lì non c'è disoccupazione è perchè hanno spaccato in due il mercato del lavoro: da una parte i protetti e i garantiti; dall'altra il resto, remunerato male e impiegato, in molti casi, in aziende senza sindacati: una specie di "sommerso" riconosciuto e accettato. D'altra parte, anche il nostro mercato è spaccato in due: da un lato chi lavora, dall'altro chi è disoccupato e rischia di restarlo a vita. Una soluzione di certo non migliore di quella giapponese o americana. E, così come stanno le cose oggi, sarebbe un'utopia credere che si possano creare 250 mila nuovi posti di lavoro all'anno come quelli che ci sono ora. Resta inteso che si farà di tutto per ridurre al minimo sperequazioni e ingiustizie". Ma com'è pesante quest'ultima promessa...
E' certo che un recupero della flessibilità, in un sistema rigido come il nostro, sia più che necessario; solo che la soluzione da dare dovrebbe essere molto più complessa, più giusta. Tale recupero servirà ad esasperare la situazione, se non si batteranno prima altri fronti. Infatti, come convincere i giovani che è più giusto, per loro e per la società, accontentarsi di un salario di fame e di un lavoro precario?
No, non è questo che si prefiggono politici e sindacati; ma è questo ciò che si otterrà, perchè viviamo in una società ancora molto immatura, e di questo dobbiamo esserne convinti. Se così non fosse, si porrebbe innanzitutto fine dell'assistenzialismo stile Anni '70: si riformerebbe quel finanziamento pubblico a favore dei partiti, enormi apparati burocratici che hanno smarrito, negli sperperi elettorali, il senso della loro azione politica; ma, soprattutto, si porrebbe in primo piano la questione meridionale, quale fonte principale di disoccupazione.
Nei dibattiti non se ne parla; eppure è nel Sud che il tasso dei senza lavoro arriva anche al 19% mentre nel Centro-Nord è di molto inferiore al 10%. Ciò significa che la disoccupazione, in particolare quella giovanile, è destinata ad essere sempre più un problema meridionale; ma soprattutto significa che, se si vuole affrontare seriamente e risolvere il problema, non si può più trascurare la necessità di una ristrutturazione globale del Sud. la svolta da compiere è quella di inserire i problemi meridionali nella più ampia e complessa lista dei problemi di politica economica generale. Va, dunque, immediatamente corretta la logica dei due tempi, che vede, nell'ulteriore rinvio dell'impegno per il Mezzogiorno, un'azione giustificata dalla più pressante necessità di curare il disavanzo statale (come se bisogni e mali del Meridione fossero estranei agli equilibri strutturali del nostro sistema).
E va corretta anche la visione egoistica con cui il Nord rivendica al Sud competenze e poteri. Infatti, mentre è indiscutibile la necessità che l'intervento straordinario trovi ancora attuazione nel Mezzogiorno, da più parti si levano proteste: tale vincolo viene considerato una sottrazione di risorse finanziarie alle industrie del Nord, gravate anch'esse dalla crisi. Non si comprende, cioè, che, per poter unificare le esigenze di riconversione industriale del Settentrione con le esigenze di espansione delle basi produttive meridionali, è indispensabile un aiuto reciproco e un'integrazione delle due economie. Ma, com'è che si dice?... Non c'è peggior sordo di chi non vuoi sentire! E inutile negare che lo stato di arretratezza del Mezzogiorno ha portato molti vantaggi al Settentrione: da sempre il Nord ha sottratto al Sud materie prime e uomini, e ha offerto in cambio beni di consumo immediato. Per attuare un'integrazione delle due economie, invece, sarebbe necessario sia un profondo mutamento da parte del Nord nella sua offerta di beni al Sud sia una nuova qualità della domanda meridionale. la svolta da compiere sarebbe, dunque, quella di offrire al Mezzogiorno beni d'impianto, tecnologie.
Infine, va corretta la logica degli interventi di pura assistenza: nel Sud, infatti, gli investimenti non riusciranno mai ad avviare una effettiva crescita dell'accumulazione, se non saranno decentrati e collegati essenzialmente alle risorse locali. Tramite quegli investimenti, quindi, si dovrebbe recuperare l'agricoltura, come punto di forza dello sviluppo meridionale.
Purtroppo, se non si affrontano e risolvono questi punti, la realtà del Mezzogiorno offre ben poche speranze: nessuna illusione, per il Sud, sulle capacità miracolose del terziario avanzato. "Le aree del Nord - dice la Svimez - sono le più favorite nella prospettiva di sviluppo delle nuove funzioni terziarie, tendendo per questa via ad accrescere il loro vantaggio rispetto a quelle del Mezzogiorno, in cui lo sviluppo industriale è più limitato e recente". Dunque, solo nel Nord, dove c'è già stata una matura evoluzione industriale, le trasformazioni porteranno effettivi vantaggi. Il Sud, invece, rischia ancora una volta di restare isolato.
Nonostante la qualità diversa della disoccupazione, anche le altre nazioni europee vivono il nostro stesso dramma. Come in Italia, anche nel resto dell'Europa si affronta la crisi economica sperperando risorse in contributi a fondo perduto, per mantenere in vita imprese senza futuro e sull'orlo del fallimento. Politica, questa, che ha sottratto tali risorse alle imprese dinamiche, rendendo più costoso e difficile il loro processo di sviluppo. Si è giunti, così, ad un tragico stato di inerzia industriale e di inefficienza. Inoltre, si è investito poco e male, considerando ancora fondamentali i settori della chimica e dell'acciaio. Conseguenze: a fine settembre 1984, la CEE contava 12,7 milioni di disoccupati, con aumenti molto forti soprattutto in Francia, Lussemburgo e Gran Bretagna. le previsioni sono tristi. Anche se c'è una mobilitazione generale di politici, esperti, sindacati e industriali, non è facile recuperare anni di sprechi e di sbagli. L'occupazione resterà ancora paralizzata, nonostante si prospetti, per i prossimi cinque anni, un aumento del 2% del prodotto interno lordo e un assestamento dell'inflazione sul 5-6%.
E' chiaro che stiamo scontando i nostri errori. E il prezzo è troppo salato. Potrebbe sembrare una forma di giustizia, nell'ingiustizia, se a pagare non fossero uomini colpevoli solo d'essere di troppo. l'importante è capire la lezione. E capire soprattutto che soluzioni, in teoria giuste ed efficaci, perdono ogni valore una volta inserite nella nostra struttura sociale. Ma c'è anche un'ultima cosa da comprendere, più importante di tutto il resto: il mondo ha tanto, tanto bisogno di realpolitik.


Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000