Da
una parte il mondo della politica e dei partiti come buco nero: cioè,
uno di quei corpi celesti che, a forza di concentrarsi su se stessi,
finiscono per chiudersi all'universo circostante, diventano incapaci
di agire su di esso, e si perdono, inutili e incomprensibili, nello
spazio siderale. Dall'altra, la società "privata" (sulla
quale il buco nero del "pubblico" non fa più presa)
come mondo in via di creazione: animato da una vitalità "vulcanica",
e attraversato da brutali forze arcaiche e primordiali. è questo
lo scenario proposto per l'Italia nel diciottesimo "Rapporto Censis"
sulla situazione sociale del Paese. Uno scenario suggestivo, carico
di possibilità positive e negative, che vale la pena di illustrare
più a fondo.
Come mai il mondo politico sia diventato un buco nero, incapace di agire
sulla realtà, è noto: a forza di astrattezze ideologiche,
di concretissime faide interne, di ripetizioni estenuanti di problemi
sempre più irreali. l'ultimo tentativo di influire sul mondo
reale è stata, dice il Censis, la politica del decisionismo:
subito abortita perchè, com'è ormai consuetudine da noi,
i partiti possono soltanto impedirsi a vicenda di agire.
Così, il "politico" ha finito per non influire (anzi,
per non capire) sui fenomeni nuovi, che in questi ultimissimi anni si
sono creati nella società sottostante. Il mondo del "privato"
ha fatto da sé. Le imprese, per esempio: strette dalla necessità
di competere e di innovare sul mercato, che ormai è planetario,
sono uscite da sé dalla crisi. Oggi le imprese italiane hanno
meno debiti e più capitali propri; si sono internazionalizzate
(la presenza di capitali italiani all'estero è passata, dal 1979
al 1983, da 5.000 a 14.000 miliardi di lire); hanno una nuova struttura:
si approvvigionano del meglio (nella pubblicità, nel design,
nella commercializzazione), valendosi dei servizi "esterni"
forniti dal nuovo terziario avanzato. Per contro, hanno riaccentrato
all'interno la produzione (negli Anni Sessanta, invece, la decentravano
per eludere l'aggressione sindacale), razionalizzandola, robotizzando
ed espellendo lavoratori. Persino le aziende a partecipazione statale
(e l'Iri è l'esempio principale) non cercano più il proprio
senso nelle volontà politiche dettate dell'esterno, ma si affidano
in modo nuovo alla propria managerialità, al proprio orgoglio,
alle capacità intrinseche. Sono nati casi nuovi capitalisti,
grandi fortune "atipiche"; emergono i nuovi ceti del terziario,
i quadri direttivi; c'è un inedito rifiuto della mediocrità,
c'è più cultura, una cultura più raffinata, specialmente
industriale.
E "non si tratta di una ripresa congiunturale, ma di un vero e
proprio nuovo ciclo di evoluzione dell'economia e della società:
il laboratorio italiano ha innescato sul puro spontaneismo qualcosa
di più solido e complesso": così dice De Rita, e
ha ragione. Ma forse ha meno ragione quando aggiunge che queste novità
profonde sono nate dal "caos" vitale della società
abbandonata a se stessa, e tanto più quando mette sullo stesso
piano i fenomeni appena ricordati con le nostre piaghe sociali più
brucianti: la criminalità che si è organizzata in impresa,
i "capitalisti" della droga e dei traffici clandestini, l'aggressività
e la violenza, "il progressivo abbassamento della soglia dell'illecito",
le speculazioni e le malversazioni selvagge, giudicate anch'esse manifestazioni
"di vitalità".
Dove sta l'errore? Questo mettere alla pari i fenomeni normali di una
società che cresce e la nuova patologia criminale sembra un paragone
contagiato dall'ideologismo vigente l'altro ieri, e ancora non del tutto
fuori corso. Ricordate gli assunti della cultura radicale, rivoluzionaria,
venuta fuori dal '68? Criminalizzava il profitto, la proprietà
privata, il fare i propri leciti interessi; e, al contrario, dichiarava
leciti comportamenti aberranti. Uccidere un fascista non è reato;
la rapina era un esproprio proletario; si voleva legalizzare la droga.
Il 1968 non è stato solo questo, intendiamoci. Ma proprio questo
sembrava aver fatto più presa sulle coscienze più fragili.
E l'inversione dei valori è stata sancita con leggi e sentenze
da un Parlamento contagiato dall'estremismo e da magistrati rivoluzionari.
Oggi chi esporta rischia di essere sbattuto in galera per costituzione
di capitali all'estero. E chi gestisce una TV privata è perseguito
con accanimento. logico, dunque, che in questa situazione la società
naturale, che deve imprendere, produrre, reggere la concorrenza, si
sia data un profilo "sommerso" e quasi clandestino. D'altra
parte, è altrettanto inevitabile che i criminali veri, forti
della mentalità giustificatoria e delle loro complicità
politiche, si siano organizzati al modo degli imprenditori. Ciò
non significa che i due fatti nascano dallo stesso ceppo. Chi lo vede,
da segno di avere smarrito il senso di quel che è legittimo e
di quello che non lo è. Il Censis coglie il punto, quando dice
che ciò accade perchè da noi i canali il legittimazione
dei comportamenti sono pochissimi, soltanto tre. Nella politica il legittimatore
monopolistico è il Pci, il solo partito che può stabilire
chi è dentro e chi è fuori dal gioco democratico. Nella
finanza è Enrico Cuccia, il Padreterno di Mediobanca: solo le
operazioni finanziarie e i capitalisti da lui battezzati sono buoni;
tutti gli altri modi di finanziarsi e di imprendere sono atipici, vale
a dire sospetti. Nel costume, il canale di legittimazione è detenuto
dalla stampa radical-chic: è questa che stabilisce quali rapporti,
quali comportamenti, quali culture sono autentici e progressivi, e quali
no.
Ora la società, divenuta più ricca e complessa, comincia
ad autolegittimarsi al di fuori delle benedizioni e delle autorizzazioni
ufficiali. Il Rapporto sostiene che in queste nuove forme di autolegittimazione
"c'è una carica violentissima di ambivalenza, di energia
e di immoralità". Bella scoperto: lo Stato (ideologizzato
quanto inefficiente) che ha voluto vietare tutto, ha finito per non
poter vietare niente, ma riesce a tenere ognuno in condizione di semilegalità,
generando forti tentazioni verso l'illegalità vera e propria.
Il Censis nota, per esempio, che negli ultimi anni ècresciuto
(+ 53%) il numero di "imprenditori, dirigenti e impiegati arrestati".
Perchè? Un pò perchè queste categorie sono diventate
più immorali a forza di essere criminalizzate dal giudizio corrente;
ma certamente anche perchè tanti disgraziati sono incappati in
uno dei troppi lacciuoli predisposti dallo Stato giustizialista (compilare
un bilancio o una dichiarazione dei redditi senza commettere infrazioni
è quasi impossibile) e fatti scattare da qualche giudice d'assalto.
De Rita propone, per ovviare a questa situazione, una pluralità
di statuti che disciplinino la vitalità dei nuovi soggetti. Se
abbiamo capito bene, la proposta è di sfornare nuovi regolamenti,
di introdurre altre norme, che finirebbero per imbrigliare ancor più
la spontaneità del "privato". è esattamente
ciò di cui non abbiamo bisogno. La deregulation che oggi si invoca
esprime l'esigenza di tornare a quelle poche e chiare leggi che servono
da quadro, entro cui il cittadino può liberamente agire. Insomma,
torniamo ai codici: a quello civile e, ove occorra, a quello penale.
Ma senza le aggiunte che per anni hanno perseguitato e soffocato la
società.
Comportamenti
degli Anni '80
Gli anziani - Fra il 1971 e il 1981, il numero degli imprenditori
tra i 60 e i 64 anni è aumentato del 35%; quello degli imprenditori
tra i 65 e i 69 anni è cresciuto del 36%; e sono + 17% gli
imprenditori ultrasettantenni. Gli anziani: ecco i grandi protagonisti
degli Anni Ottanta. Nell'indagine nazionale condotta dal Censis tra
la popolazione dai 40 ai 64 anni, più della metà degli
intervistati vede nell'età della pensione un periodo di maggior
libertà personale, il 36% più tempo per la famiglia,
il 28% più riposo. Solo una minoranza evoca l'emarginazione
della vecchiaia (13%), i bisogni maggiori (11 %), la solitudine (3,5%).
Certo è che gli anziani sono poco disposti a lasciare il campo.
Il 59% dei sessantenni dichiara di voler continuare a lavorare anche
dopo la pensione; e di fatto sono sempre più numerosi i non
più giovani che, lasciato il posto di lavoro, si mettono in
proprio: quasi sei anziani su cento, per esempio, intraprendono una
professione (e si iscrivono agli albi professionali) dopo i 50. Alla
domanda: Su che cosa fondate le vostre certezze per la vecchiaia?
il 12,5% delle persone fra i 60 e i 65 risponde sul lavoro, e solo
l'8,33% risponde sulla pensione. Del resto, quelli che fanno affidamento
sui propri risparmi accumulati nel lavoro sono più numerosi
(28%) di quelli che sperano in qualche modo nell'aiuto dei figli (14,5%).
Il quadro non è tutto ugualmente roseo. Più di sei sessantenni
su cento, per esempio, vedono la vecchiaia come "solitudine"
(tra i quarantenni, solo due su cento), e tredici su cento la sentono
"come infelicità inoperosa", evidentemente, per esperienza
diretta. Ma, nel complesso, quella degli anziani non è solo
una categoria che diventa sempre più numerosa (quasi nove milioni
di persone nel Duemila); è anche più sana di prima,
più "coraggiosa" nell'intraprendere, più colta
(i laureati sopra i 60 sono aumentati del 45% in un decennio) e, naturalmente,
più attiva.
La famiglia
- Famiglia Spa: così intitola il Rapporto Censis uno dei suoi
capitoli più importanti. le famiglie italiane sono il principale
soggetto finanziario della società. Detengono un capitale-risparmio
di 570 mila miliardi di lire (48% in conti bancari; 13,2% in Bot;
4,5% in Cct; 7% in depositi postali; 5,9% in azioni) e il loro patrimonio
immobiliare è immenso: 1,3 milioni di miliardi, per metà
prime case d'abitazione. E questo "capitale" continua ad
elevarsi, perchè le famiglie si ostinano a risparmiare e a
investire: con un'attenzione e una professionalità consumata,
diversificando le scelte, spingendosi negli investimenti innovativi
e in quelli ad alto rischio: lo farebbero di più, se l'offerta
non fosse casi povera e timida.
Perchè investe e risparmia la famiglia Italiana? Perchè
non ha fiducia nel sistema previdenziale di Stato: ogni famiglia realizza
per la vecchiaia e per gli imprevisti un piccolo fondo privato, integrando
con forme di assicurazione spontanea i pochi e scarsi servizi pubblici.
Attiva ed efficiente come impresa, la famiglia italiana sta invece
perdendo la funzione di ambiente educativo, dove si trasmettono i
valori delle generazioni di ieri a quelle di oggi: i giovani hanno
meno fiducia nella famiglia d'origine.
La casa
- Il censimento ha portato alla luce una vera e propria edilizia sommersa,
di dimensioni colossali. Si credeva che dal 1971 al 1981 si fossero
costruite ogni anno 200 mila nuove abitazioni, e invece le cose tirate
su nel decennio sono risultate in quantità doppia: quasi cinque
milioni in tutto. Chi ha costruito questo immenso patrimonio? Soprattutto
le famiglie (il 40%), mentre è andata calando l'edificazione
degli Enti pubblici. Certo è che ormai 59 italiani su cento
vivono in case di proprietà (c'è stata una gran corsa
alla prima casa), il 29,9% ha anche una seconda cosa, un altro 10%
ha "altri immobili" (terreni, box, e così via).
Calano, invece, le abitazioni in affitto: più di 600 mila appartamenti
in affitto sono spariti dal mercato nel decennio, per l'evidente non
redditività dell'equo canone. I proprietari delle case in affitto
sono al 78,1% persone fisiche, all'11,8% Enti pubblici (Stato, Regioni,
Comuni, lacp), al 5,2% imprese (banche, assicurazioni). L'affitto
medio è di 155 mila lire al mese (177 mila nelle grandi città),
ma si può ammettere che esista una forte percentuale di affitto
sommerso, extra equo canone, che sfugge alle rilevazioni. Permane
il fenomeno della coabitazione (4%) in tutta la Penisola: il Censis
ipotizza che si tratti di coabitazioni volontarie, fondate su forti
legami familiari.
Negli ultimi tempi, i privati stanno disaffezionandosi all'investimento
immobiliare, che ormai fa registrare perdite secche in valore reale.
Questo fatto, unito alla diffusione della proprietà e alla
riduzione del mercato dell'affitto, ha una conseguenza curiosa: chi
deve cambiare caso si affida sempre più spesso al baratto,
immobile contro immobile (l'80% delle transazioni immobiliari tra
famiglie, a Roma, avvengono in questo modo).
Anche il mercato delle seconde case conosce una crisi: non si riesce
più a vendere quelle situate in località degradate.
Dieci anni fa, il Censis lo conferma, la gente cercava il mattone
al mare; ora cerca il mare, più del mattone.
I consumi
- Come consuma questa società Anni Ottanta, sicuramente un
pò più egoista (e un pò più crudele) che
in passato? Un'indagine Censis s'è presa la briga di chiedere
ai cittadini quale tipo di consumi sarebbero disposti a ridurre, e
a quale tipo non sono disposti a rinunciare.
Ebbene: chi ha i redditi più bassi (10 milioni annui) è
più disposto a restringere le spese alimentari piuttosto che
rinunciare all'automobile, alle vacanze e ai nuovi consumi. I nuovi
benestanti (solo un italiano su quattro può ormai considerarsi
nullatenente, cioè privo di risparmi, di caso propria, di oggetti
di volo-' re) sono attentissimi ai simboli di stato: lo prova la corsa
alla moda di massa, l'abbigliamento firmato un tempo esclusivo e ora
favorito da un mercato vastissimo.
Ma c'è di più. Per tutti, la mentalità consumistica
si è estesa ad aree esistenziali che prima ne erano esenti:
è la cosiddetta reversibilità nelle scelte, che investe
campi un tempo caratterizzati dalla stabilità e dai valori:
la vita affettiva (dal 1972, le separazioni sono aumentate dell'11,5%
e i divorzi del 14,7%); il lavoro (49 lavoratori su cento sono disposti
a cambiare azienda); la stessa scelta degli studi (il 18,7% dei giovani
tra i quindici e i ventiquattro anni ha interrotto il corso di studi
senza ottenere il titolo che si era prefisso; il 48,9% degli studenti
delle superiori non sa ancora se si iscriverà all'università;
e il 41,8% pensa comunque di affiancare allo studio un'attività
di lavoro).
Il salvagente
della piccola impresa
Qualcuno ha notato che siamo, nello stesso tempo, Dottor Jekyll e
Mister Hyde: abbiamo, cioè, una crescita del prodotto interno
lordo (Pil) del 2,8% (che è quasi un primato) e un debito pubblico
che si avvia a toccare il livello del Pil di un anno e a pagare più
del 10% dello stesso Pil annuo in interessi. E si è portati
naturalmente a chiedersi: ma stiamo bene o stiamo male, economicamente?
E se stiamo abbastanza bene, com'è di fatto, sotto svariati
punti di vista, dov'è il trucco?
I trucchi ci sono, tutto sommato si vedono, e sono più di uno.
Ma quello che forse più conta, almeno a livello di crescita
economica, è il profondo cambiamento che ha coinvolto negli
ultimi anni la piccola e media impresa, e soprattutto questa. Diamoci
un'occhiata, puntando l'attenzione sulle novità più
interessanti.
"La tecnologia - dice Alessandro Franchini, direttore del Censis
- si è incorporata nelle aziende, non riguarda più solo
il processo produttivo". E' accaduto che il rinnovamento (per
chi lo ha saputo fare) ha obbligato a mutare anche l'organizzazione
dell'impresa. In sostanza, è tutto il ciclo di produzione che
è cambiato, per esempio, per l'automazione: e questo ha portato
non solo ad un rinnovamento di tipo manageriale nella conduzione dell'azienda,
ma anche a strutture della stessa profondamente diverse.
"Poi - sottolinea Franchini - la nascita e la diffusione dell'imprenditorialità
di gruppo". La spinta viene dalla necessità di essere
più competitivi, superando le dimensioni limitate senza arrivare
ad ingrandirle, il che comporterebbe problemi enormi di investimenti,
sul piano delle relazioni industriali, ecc. Ed è stata facilitata,
negli ultimi anni, dal fatto che collaborazioni sul piano produttivo
(a livello di subforniture, ad esempio) sono in atto da sempre.
Una ricerca dell'Irer di Milano ha dimostrato che lo scorso anno il
36% delle imprese fra 50 e 500 addetti collaboravano strettamente
fra loro in settori diversi da quello produttivo: l'11,5% si accordava
nel fissare i prezzi dei prodotti; il 15% sceglieva la strada degli
accordi commerciali; il 14,5% quella della ricerca in comune; il 12%,
infine, facevano acquisti insieme, ottenendo ovviamente un maggior
potere contrattuale sul mercato, con vantaggio per tutti. Un terzo
punto: l'automazione. Si è diffusa nei grandi complessi, ma
è cresciuta rapidamente nei piccoli e nei piccolissimi. Un'indagine
del Cestc sulla robotizzazione dei processi produttivi conferma che
lo scorso anno si sono robotizzate l'11,5% delle imprese lombarde
fino a 50 addetti; il 25% di quelle fino a 200 addetti; e ben il 36,35%
di quelle oltre i 200. E il robot non solo aumenta l'efficienza della
produzione, ma comporta necessariamente cambiamenti strutturali nell'organizzazione
dell'azienda.
Punto quattro. La crescita dell'imprenditorialità. il lavoro
indipendente nell'industria è passato da 1,021 milioni di occupati
nel 1974 a 1,211 milioni nel 1982, con un aumento pari al 18,6%. Con
un processo di mobilità molto più vasto di quanto comunemente
si accetta. E si deve tener conto che il 38,9% di coloro che entrano
nel lavoro indipendente, viene dal lavoro dipendente, e solo il 19,4%
proviene dai non lavoratori. Il che conferma quanto ogni tanto si
dice: e cioè che piccolo è bello, ma che soprattutto,
in questo Paese in cui la ricerca del posto sicuro resta una religione,
c'è molta più gente di quanto si creda che, se costretta
a lasciare il posto dalla ristrutturazione industriale in atto, si
mette in proprio; e in molti casi lascia il posto che ha per fare
altrettanto.
Nel settore si creano figure nuove di imprenditore: per esempio, quella
dell'ex immigrato che è stato sospinto al paese d'origine da
una suo libera scelta o da difficoltà nuove incontrate nell'area
di adozione. Comunque sia, egli trasferisce a casa sua l'esperienza
fatta, diventando un piccolo imprenditore (con finanziamento che in
parte può derivare dai suoi risparmi) nel settore manifatturiero.
Questa è una delle riserve maggiori della nuova imprenditorialità.
Ci diceva Alberto Rossetti, diventato il giovane direttore generale
del Mediocredito della Regione Calabria dopo una serie di esperienze
finanziarie a Milano, che la rapida crescita dei finanziamenti concessi
dall'Istituto si spiega con il suo dinamismo, ma anche con le capacità
enormemente cresciute degli imprenditori (nuovi, specialmente) in
alcune zone della Calabria.
Un altro tipo di imprenditorialità nuova in netto aumento è
quella del quadro tecnico della grande impresa. Anche in questo, la
scelta del mettersi in proprio può essere libera oppure originata
dalla ristrutturazione che taglia posti di lavoro. Comunque, si esplica
nella creazione di strutture di ridotte dimensioni, di solito nel
terziario, con grande capacità di innovazione. E tutto ciò,
con una crescita dell'export nazionale significativa anche a livello
di imprese minori.
Un ultimo aspetto della nuova imprenditorialità è quello
che De Rita ha definito, con un brutto ma efficace neologismo, indario,
cioè industria e terziario insieme. Anche in questo caso, la
nuova imprenditorialità ha le origini più diverse: nasce
dalla maturazione degli imprenditori di secondo o di terza generazione;
da quadri o da dirigenti che si mettono da soli; insomma, da una mobilità
di cui, a livello statistico, si vedono solo tracce, ma che tuttavia
esiste ed è prorompente. E spiega in buona parte anche crescite
del Pil che hanno poco a che vedere, di primo acchito, con quelle
che dovrebbero essere le conseguenze dei mali economici del nostro
Paese: quelli, sì, molto evidenti, e contabilizzati in pieno.
I cambiamenti più significativi? Il Censis li riassume in questo
modo:
1) internazionalizzazione, anche per le aziende minori;
2) strategia discontinuo di innovazione continuata: cioè, si
all'innovazione, ma a quella che serve, e quando serve;
3) capacità crescente di trattare il prodotto-mercato, cioè
attenzione a quello che vuole il mercato e capacità di risposta;
4) reperire il meglio dov'è: pubblicità, design, consulenza
organizzativa, e via dicendo;
5) recupero della professionalità;
6) attenzione non ideologica, ma operativa, all'accumulazione di capitale;
7) capacità di ripiegare su segmenti più alti del mercato
- quindi attenzione alla qualità e rigetto della mediocrità
- quando su quelli medi e bassi la concorrenza di nazioni, in cui
il costo del lavoro è inferiore, si fa invincibile.
Una vera e propria rivoluzione, della quale vediamo fortunatamente
gli effetti positivi in termini di risultati economici; ma altri aspetti,
ancora, ci sfuggono.
Vedremo nell'immediato futuro.
Le due Italie
dell'innovazione
Il terziario avanzato suscita un interesse crescente non solo per
la nuova occupazione qualificata che esso è in grado di creare,
ma anche per il contributo offerto all'ammodernamento produttivo e
gestionale dell'intera economia nazionale. In questo settore emergente
si raggruppano quelle attività e quei servizi alle imprese
che producono innovazione e trasferiscono know-how, con alto contenuto
professionale e con elevata incidenza del fattore umano, dalle aziende
di ingegneria alle società di software e di servizi di informatica,
dalla consulenza direzionale alla formazione e al marketing. Le aziende
di ingegneria e di servizi di informatica, in particolare, costituiscono
sia il fenomeno quantitativamente più significativo sia il
veicolo maggiormente rilevante per l'introduzione di nuove tecnologie
nei processi produttivi e gestionali delle imprese.
Le imprese di ingegneria, secondo una recente indagine del Politecnico
di Milano, sono in Italia circa 100, con 18.900 addetti e con un fatturato
di 4.300 miliardi di lire, di cui il 75% rivolto all'esportazione.
Le società che forniscono servizi di informatica - dall'elaborazione
dati alla produzione dei software, dalla consulenza informatica ai
sistemi "chiavi in mano" - hanno a loro volta fatturato
1.400 miliardi di lire, con oltre 30.000 addetti, di cui il 60% dotati
di laurea o diploma. Ben il 65% del fatturato è costituito
da valore aggiunto, ma la quota destinata all'esportazione è
trascurabile (1,5%), a differenza delle società di ingegneria:
il mercato infatti, è essenzialmente a livello locale, e solo
le aziende maggiori operano in regioni differenti.
Questa situazione è simile a quella tedesca, ma lontana dalla
realtà francese e anche inglese: la bilancia dei pagamenti
del settore verso l'estero, nel caso della Francia, presenta infatti
un attivo di 300 miliardi di lire; ben nove delle prime diciotto società
di servizi di informatica operanti in Europa sono francesi (contro
una sola italiana), e le prime 27 società delle circa 500 censite
in Francia nel 1980 realizzavano il 75% del fatturato complessivo
del settore, che risulta più che doppio rispetto a quello italiano,
con un'occupazione di 50 mila persone.
Una caratteristica, dei servizi di informatica in Italia è
invece lo sviluppo di un gran numero di unità produttive di
piccola e piccolissima dimensione, spesso su base di occupazione indipendente:
il Censis ha rilevato ben 6.250 unità locali, e le aziende
specializzate in servizi informatici con un minimo di struttura sono
valutate in circa 2.400, con una dimensione media di 12,5 addetti,
livello molto basso in campo europeo. Il 60% delle imprese ha poi
meno di dieci addetti e un fatturato annuo inferiore a 500 milioni
di lire, mentre solo l'8% ha la forma di società per azioni,
con una consistenza media di 80 addetti. La dinamica di crescita italiana
è però assai effervescente, con un incremento di occupazione
dell'8% annuo, inferiore solo a quello registrato in Finlandia e in
Irlanda, e con una crescita media annuo del fatturato superiore al
20%. Da tener conto che il 68% delle imprese italiane di software
è nato dopo il 1977. Interessanti considerazioni, sia per le
società di ingegneria sia per quelle di servizi di informatica,
si possono trarre osservando la loro collocazione geografica nel Paese,
che rivela come lo sviluppo del terziario avanzato sia strettamente
connesso con la qualità del tessuto economico e con la cultura
industriale di una regione.
Per le società di ingegneria, il 35,8% delle imprese (con il
47,9% degli addetti e il 46,8% del fatturato) è sito in provincia
di Milano; il 38% (con il 13% del fatturato) in provincia di Roma;
il 7% (con il 3,2% del fatturato) in provincia di Torino. In tutte
le altre provincie italiane risulta presente solo il 18,3% delle imprese,
con il 37% del fatturato. Nel Mezzogiorno, in particolare, è
localizzato solo l'8,2% del totale delle unità locali di servizi
di ingegneria. Il dato è tratto da un'indagine di Unioncamere.
Per le società di servizi di informatica, il Censis ha stimato
che il 66,2% delle unità locali è operante nel Nord
(con il 26,7% in Lombardia e l'11,7% in Piemonte); il 21,3% nel Centro
(con l'8% in provincia di Roma); e solo il 12,6% nel Mezzogiorno.
Altre accreditate analisi assegnano alle aree lombarda e piemontese
un'incidenza ancora maggiore. Se si passa poi ad esaminare all'interno
dell'informatica un sottosettore altamente innovativo, qual'è
quello dei sistemi grafici computerizzati per la progettazione, per
la produzione e per la gestione, si vede che, delle 70 ditte italiane
specializzate, ben il 65% è localizzato in Lombardia e il 10%
in Piemonte, mentre nel Mezzogiorno risulta presente una sola azienda
(fonte: Politecnico di Milano).
Una analoga, seppur meno marcata distribuzione geografica, che ricalca
con impietosa fedeltà le distanze di cultura industriale, professionalità
e know-how esistenti fra le due diverse aree del Paese, è riscontrabile
anche considerando in modo generalizzato la globalità delle
attività di servizio per le imprese: la Lombardia copre il
24,1% del totale nazionale degli addetti di questo comparto (il 15,4%
in provincia di Milano); il Piemonte copre il 9,6% (il 6% a Torino),
con un totale per il Nord pari al 58,8%. Il Centro occupa il 23% (l'11%
nel Lazio); le regioni meridionali dividono il rimanente 18,2%
Cioè: si verifica nelle aree meno avanzate del Paese un circolo
vizioso riscontrabile anche in altri settori di elevata professionalità
nella nostra economia: un mercato della domanda immaturo, asfittico
e periferico rispetto ai centri di azione internazionali sostiene
un'offerta di servizi frammentato e non particolarmente innovativo,
che a sua volta contribuisce al ristagno delle caratteristiche della
domanda stessa. Le distanze di radicamento, professionalità
e know-how, che segnano il terziario avanzato di queste aree, sono
dunque interpretabili in termini di opportunità: minori occasioni
di misurarsi con le esigenze di un'utenza evoluta, e quindi minore
accumulazione di conoscenze; inferiore livello di sistema formativo
e quindi difficoltà nell'acquisizione di un "capitale
umano" con solida preparazione di base; carenza di imprese produttive
di punta che formino sul campo adeguate professionalità, e
quindi da un lato difficoltà nell'attivare nuove imprenditorialità
del terziario avanzato, e da un altro lato necessità di formare
all'interno e dal basso con elevati oneri il nuovo personale assunto,
per la difficile reperibilità di esperti già qualificati.
Ma quali sono allora le iniziative più opportune per far crescere
in modo meno asfittico il terziario avanzato delle aree meno innovative
e garantire nello stesso tempo una competitività a livello
anche internazionale per quello delle aree forti italiane, già
dotate dell'indispensabile tessuto industriale maturo? La più
opportuna iniziativa di job creation per il terziario avanzato, secondo
un recente studio dell'Isfol, sembra essere l'erogazione di incentivi
alla domanda (in linea con la recente proposta del Ministro dell'Industria);
per lo sviluppo e la qualificazione dei servizi innovativi è
infatti indispensabile un mercato sufficientemente ampio e occorre
un comportamento reattivo dell'imprenditoria.
Assai utili sembrano essere anche il sostegno nella fase di avvio
dell'impresa terziaria attraverso l'assistenza agli studi preliminari
(dimensione dell'impresa, struttura giuridica, mezzi tecnici, ecc.)
e la creazione di collegamenti fra domanda e offerta, mettendo a contatto
le piccole imprese industriali e con i soggetti più idonei
alla soluzione dei loro problemi. Un ruolo di qualificazione dell'offerta
potrebbe anche ricoprire l'istituzione di appositi "albi"
che garantiscano il livello dei servizi erogati dalle aziende, come
suggerisce un recente studio sull'area torinese (Oltre il pianeta
Fiat, redatto da Mondo Economico). Più a monte, per creare
un terreno fertile, è essenziale il perseguimento di più
alti livelli di insegnamento nell'Università, con la predisposizione
di corsi di specializzazione post-laurea e con la messa a disposizione
di borse di studio per stages presso imprese industriali e per la
specializzazione all'estero.
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