§ FRA POLITICA E SOCIETA'

LO STIVALE SUL CRATERE




M. C. Milo, L. Tartaro, D. Giustizieri



Da una parte il mondo della politica e dei partiti come buco nero: cioè, uno di quei corpi celesti che, a forza di concentrarsi su se stessi, finiscono per chiudersi all'universo circostante, diventano incapaci di agire su di esso, e si perdono, inutili e incomprensibili, nello spazio siderale. Dall'altra, la società "privata" (sulla quale il buco nero del "pubblico" non fa più presa) come mondo in via di creazione: animato da una vitalità "vulcanica", e attraversato da brutali forze arcaiche e primordiali. è questo lo scenario proposto per l'Italia nel diciottesimo "Rapporto Censis" sulla situazione sociale del Paese. Uno scenario suggestivo, carico di possibilità positive e negative, che vale la pena di illustrare più a fondo.
Come mai il mondo politico sia diventato un buco nero, incapace di agire sulla realtà, è noto: a forza di astrattezze ideologiche, di concretissime faide interne, di ripetizioni estenuanti di problemi sempre più irreali. l'ultimo tentativo di influire sul mondo reale è stata, dice il Censis, la politica del decisionismo: subito abortita perchè, com'è ormai consuetudine da noi, i partiti possono soltanto impedirsi a vicenda di agire.
Così, il "politico" ha finito per non influire (anzi, per non capire) sui fenomeni nuovi, che in questi ultimissimi anni si sono creati nella società sottostante. Il mondo del "privato" ha fatto da sé. Le imprese, per esempio: strette dalla necessità di competere e di innovare sul mercato, che ormai è planetario, sono uscite da sé dalla crisi. Oggi le imprese italiane hanno meno debiti e più capitali propri; si sono internazionalizzate (la presenza di capitali italiani all'estero è passata, dal 1979 al 1983, da 5.000 a 14.000 miliardi di lire); hanno una nuova struttura: si approvvigionano del meglio (nella pubblicità, nel design, nella commercializzazione), valendosi dei servizi "esterni" forniti dal nuovo terziario avanzato. Per contro, hanno riaccentrato all'interno la produzione (negli Anni Sessanta, invece, la decentravano per eludere l'aggressione sindacale), razionalizzandola, robotizzando ed espellendo lavoratori. Persino le aziende a partecipazione statale (e l'Iri è l'esempio principale) non cercano più il proprio senso nelle volontà politiche dettate dell'esterno, ma si affidano in modo nuovo alla propria managerialità, al proprio orgoglio, alle capacità intrinseche. Sono nati casi nuovi capitalisti, grandi fortune "atipiche"; emergono i nuovi ceti del terziario, i quadri direttivi; c'è un inedito rifiuto della mediocrità, c'è più cultura, una cultura più raffinata, specialmente industriale.
E "non si tratta di una ripresa congiunturale, ma di un vero e proprio nuovo ciclo di evoluzione dell'economia e della società: il laboratorio italiano ha innescato sul puro spontaneismo qualcosa di più solido e complesso": così dice De Rita, e ha ragione. Ma forse ha meno ragione quando aggiunge che queste novità profonde sono nate dal "caos" vitale della società abbandonata a se stessa, e tanto più quando mette sullo stesso piano i fenomeni appena ricordati con le nostre piaghe sociali più brucianti: la criminalità che si è organizzata in impresa, i "capitalisti" della droga e dei traffici clandestini, l'aggressività e la violenza, "il progressivo abbassamento della soglia dell'illecito", le speculazioni e le malversazioni selvagge, giudicate anch'esse manifestazioni "di vitalità".
Dove sta l'errore? Questo mettere alla pari i fenomeni normali di una società che cresce e la nuova patologia criminale sembra un paragone contagiato dall'ideologismo vigente l'altro ieri, e ancora non del tutto fuori corso. Ricordate gli assunti della cultura radicale, rivoluzionaria, venuta fuori dal '68? Criminalizzava il profitto, la proprietà privata, il fare i propri leciti interessi; e, al contrario, dichiarava leciti comportamenti aberranti. Uccidere un fascista non è reato; la rapina era un esproprio proletario; si voleva legalizzare la droga. Il 1968 non è stato solo questo, intendiamoci. Ma proprio questo sembrava aver fatto più presa sulle coscienze più fragili. E l'inversione dei valori è stata sancita con leggi e sentenze da un Parlamento contagiato dall'estremismo e da magistrati rivoluzionari. Oggi chi esporta rischia di essere sbattuto in galera per costituzione di capitali all'estero. E chi gestisce una TV privata è perseguito con accanimento. logico, dunque, che in questa situazione la società naturale, che deve imprendere, produrre, reggere la concorrenza, si sia data un profilo "sommerso" e quasi clandestino. D'altra parte, è altrettanto inevitabile che i criminali veri, forti della mentalità giustificatoria e delle loro complicità politiche, si siano organizzati al modo degli imprenditori. Ciò non significa che i due fatti nascano dallo stesso ceppo. Chi lo vede, da segno di avere smarrito il senso di quel che è legittimo e di quello che non lo è. Il Censis coglie il punto, quando dice che ciò accade perchè da noi i canali il legittimazione dei comportamenti sono pochissimi, soltanto tre. Nella politica il legittimatore monopolistico è il Pci, il solo partito che può stabilire chi è dentro e chi è fuori dal gioco democratico. Nella finanza è Enrico Cuccia, il Padreterno di Mediobanca: solo le operazioni finanziarie e i capitalisti da lui battezzati sono buoni; tutti gli altri modi di finanziarsi e di imprendere sono atipici, vale a dire sospetti. Nel costume, il canale di legittimazione è detenuto dalla stampa radical-chic: è questa che stabilisce quali rapporti, quali comportamenti, quali culture sono autentici e progressivi, e quali no.
Ora la società, divenuta più ricca e complessa, comincia ad autolegittimarsi al di fuori delle benedizioni e delle autorizzazioni ufficiali. Il Rapporto sostiene che in queste nuove forme di autolegittimazione "c'è una carica violentissima di ambivalenza, di energia e di immoralità". Bella scoperto: lo Stato (ideologizzato quanto inefficiente) che ha voluto vietare tutto, ha finito per non poter vietare niente, ma riesce a tenere ognuno in condizione di semilegalità, generando forti tentazioni verso l'illegalità vera e propria. Il Censis nota, per esempio, che negli ultimi anni ècresciuto (+ 53%) il numero di "imprenditori, dirigenti e impiegati arrestati". Perchè? Un pò perchè queste categorie sono diventate più immorali a forza di essere criminalizzate dal giudizio corrente; ma certamente anche perchè tanti disgraziati sono incappati in uno dei troppi lacciuoli predisposti dallo Stato giustizialista (compilare un bilancio o una dichiarazione dei redditi senza commettere infrazioni è quasi impossibile) e fatti scattare da qualche giudice d'assalto.
De Rita propone, per ovviare a questa situazione, una pluralità di statuti che disciplinino la vitalità dei nuovi soggetti. Se abbiamo capito bene, la proposta è di sfornare nuovi regolamenti, di introdurre altre norme, che finirebbero per imbrigliare ancor più la spontaneità del "privato". è esattamente ciò di cui non abbiamo bisogno. La deregulation che oggi si invoca esprime l'esigenza di tornare a quelle poche e chiare leggi che servono da quadro, entro cui il cittadino può liberamente agire. Insomma, torniamo ai codici: a quello civile e, ove occorra, a quello penale. Ma senza le aggiunte che per anni hanno perseguitato e soffocato la società.

Comportamenti degli Anni '80
Gli anziani - Fra il 1971 e il 1981, il numero degli imprenditori tra i 60 e i 64 anni è aumentato del 35%; quello degli imprenditori tra i 65 e i 69 anni è cresciuto del 36%; e sono + 17% gli imprenditori ultrasettantenni. Gli anziani: ecco i grandi protagonisti degli Anni Ottanta. Nell'indagine nazionale condotta dal Censis tra la popolazione dai 40 ai 64 anni, più della metà degli intervistati vede nell'età della pensione un periodo di maggior libertà personale, il 36% più tempo per la famiglia, il 28% più riposo. Solo una minoranza evoca l'emarginazione della vecchiaia (13%), i bisogni maggiori (11 %), la solitudine (3,5%).
Certo è che gli anziani sono poco disposti a lasciare il campo. Il 59% dei sessantenni dichiara di voler continuare a lavorare anche dopo la pensione; e di fatto sono sempre più numerosi i non più giovani che, lasciato il posto di lavoro, si mettono in proprio: quasi sei anziani su cento, per esempio, intraprendono una professione (e si iscrivono agli albi professionali) dopo i 50. Alla domanda: Su che cosa fondate le vostre certezze per la vecchiaia? il 12,5% delle persone fra i 60 e i 65 risponde sul lavoro, e solo l'8,33% risponde sulla pensione. Del resto, quelli che fanno affidamento sui propri risparmi accumulati nel lavoro sono più numerosi (28%) di quelli che sperano in qualche modo nell'aiuto dei figli (14,5%).
Il quadro non è tutto ugualmente roseo. Più di sei sessantenni su cento, per esempio, vedono la vecchiaia come "solitudine" (tra i quarantenni, solo due su cento), e tredici su cento la sentono "come infelicità inoperosa", evidentemente, per esperienza diretta. Ma, nel complesso, quella degli anziani non è solo una categoria che diventa sempre più numerosa (quasi nove milioni di persone nel Duemila); è anche più sana di prima, più "coraggiosa" nell'intraprendere, più colta (i laureati sopra i 60 sono aumentati del 45% in un decennio) e, naturalmente, più attiva.

La famiglia - Famiglia Spa: così intitola il Rapporto Censis uno dei suoi capitoli più importanti. le famiglie italiane sono il principale soggetto finanziario della società. Detengono un capitale-risparmio di 570 mila miliardi di lire (48% in conti bancari; 13,2% in Bot; 4,5% in Cct; 7% in depositi postali; 5,9% in azioni) e il loro patrimonio immobiliare è immenso: 1,3 milioni di miliardi, per metà prime case d'abitazione. E questo "capitale" continua ad elevarsi, perchè le famiglie si ostinano a risparmiare e a investire: con un'attenzione e una professionalità consumata, diversificando le scelte, spingendosi negli investimenti innovativi e in quelli ad alto rischio: lo farebbero di più, se l'offerta non fosse casi povera e timida.
Perchè investe e risparmia la famiglia Italiana? Perchè non ha fiducia nel sistema previdenziale di Stato: ogni famiglia realizza per la vecchiaia e per gli imprevisti un piccolo fondo privato, integrando con forme di assicurazione spontanea i pochi e scarsi servizi pubblici. Attiva ed efficiente come impresa, la famiglia italiana sta invece perdendo la funzione di ambiente educativo, dove si trasmettono i valori delle generazioni di ieri a quelle di oggi: i giovani hanno meno fiducia nella famiglia d'origine.

La casa - Il censimento ha portato alla luce una vera e propria edilizia sommersa, di dimensioni colossali. Si credeva che dal 1971 al 1981 si fossero costruite ogni anno 200 mila nuove abitazioni, e invece le cose tirate su nel decennio sono risultate in quantità doppia: quasi cinque milioni in tutto. Chi ha costruito questo immenso patrimonio? Soprattutto le famiglie (il 40%), mentre è andata calando l'edificazione degli Enti pubblici. Certo è che ormai 59 italiani su cento vivono in case di proprietà (c'è stata una gran corsa alla prima casa), il 29,9% ha anche una seconda cosa, un altro 10% ha "altri immobili" (terreni, box, e così via).
Calano, invece, le abitazioni in affitto: più di 600 mila appartamenti in affitto sono spariti dal mercato nel decennio, per l'evidente non redditività dell'equo canone. I proprietari delle case in affitto sono al 78,1% persone fisiche, all'11,8% Enti pubblici (Stato, Regioni, Comuni, lacp), al 5,2% imprese (banche, assicurazioni). L'affitto medio è di 155 mila lire al mese (177 mila nelle grandi città), ma si può ammettere che esista una forte percentuale di affitto sommerso, extra equo canone, che sfugge alle rilevazioni. Permane il fenomeno della coabitazione (4%) in tutta la Penisola: il Censis ipotizza che si tratti di coabitazioni volontarie, fondate su forti legami familiari.
Negli ultimi tempi, i privati stanno disaffezionandosi all'investimento immobiliare, che ormai fa registrare perdite secche in valore reale. Questo fatto, unito alla diffusione della proprietà e alla riduzione del mercato dell'affitto, ha una conseguenza curiosa: chi deve cambiare caso si affida sempre più spesso al baratto, immobile contro immobile (l'80% delle transazioni immobiliari tra famiglie, a Roma, avvengono in questo modo).
Anche il mercato delle seconde case conosce una crisi: non si riesce più a vendere quelle situate in località degradate. Dieci anni fa, il Censis lo conferma, la gente cercava il mattone al mare; ora cerca il mare, più del mattone.

I consumi - Come consuma questa società Anni Ottanta, sicuramente un pò più egoista (e un pò più crudele) che in passato? Un'indagine Censis s'è presa la briga di chiedere ai cittadini quale tipo di consumi sarebbero disposti a ridurre, e a quale tipo non sono disposti a rinunciare.
Ebbene: chi ha i redditi più bassi (10 milioni annui) è più disposto a restringere le spese alimentari piuttosto che rinunciare all'automobile, alle vacanze e ai nuovi consumi. I nuovi benestanti (solo un italiano su quattro può ormai considerarsi nullatenente, cioè privo di risparmi, di caso propria, di oggetti di volo-' re) sono attentissimi ai simboli di stato: lo prova la corsa alla moda di massa, l'abbigliamento firmato un tempo esclusivo e ora favorito da un mercato vastissimo.
Ma c'è di più. Per tutti, la mentalità consumistica si è estesa ad aree esistenziali che prima ne erano esenti: è la cosiddetta reversibilità nelle scelte, che investe campi un tempo caratterizzati dalla stabilità e dai valori: la vita affettiva (dal 1972, le separazioni sono aumentate dell'11,5% e i divorzi del 14,7%); il lavoro (49 lavoratori su cento sono disposti a cambiare azienda); la stessa scelta degli studi (il 18,7% dei giovani tra i quindici e i ventiquattro anni ha interrotto il corso di studi senza ottenere il titolo che si era prefisso; il 48,9% degli studenti delle superiori non sa ancora se si iscriverà all'università; e il 41,8% pensa comunque di affiancare allo studio un'attività di lavoro).

Il salvagente della piccola impresa
Qualcuno ha notato che siamo, nello stesso tempo, Dottor Jekyll e Mister Hyde: abbiamo, cioè, una crescita del prodotto interno lordo (Pil) del 2,8% (che è quasi un primato) e un debito pubblico che si avvia a toccare il livello del Pil di un anno e a pagare più del 10% dello stesso Pil annuo in interessi. E si è portati naturalmente a chiedersi: ma stiamo bene o stiamo male, economicamente? E se stiamo abbastanza bene, com'è di fatto, sotto svariati punti di vista, dov'è il trucco?
I trucchi ci sono, tutto sommato si vedono, e sono più di uno. Ma quello che forse più conta, almeno a livello di crescita economica, è il profondo cambiamento che ha coinvolto negli ultimi anni la piccola e media impresa, e soprattutto questa. Diamoci un'occhiata, puntando l'attenzione sulle novità più interessanti.
"La tecnologia - dice Alessandro Franchini, direttore del Censis - si è incorporata nelle aziende, non riguarda più solo il processo produttivo". E' accaduto che il rinnovamento (per chi lo ha saputo fare) ha obbligato a mutare anche l'organizzazione dell'impresa. In sostanza, è tutto il ciclo di produzione che è cambiato, per esempio, per l'automazione: e questo ha portato non solo ad un rinnovamento di tipo manageriale nella conduzione dell'azienda, ma anche a strutture della stessa profondamente diverse.
"Poi - sottolinea Franchini - la nascita e la diffusione dell'imprenditorialità di gruppo". La spinta viene dalla necessità di essere più competitivi, superando le dimensioni limitate senza arrivare ad ingrandirle, il che comporterebbe problemi enormi di investimenti, sul piano delle relazioni industriali, ecc. Ed è stata facilitata, negli ultimi anni, dal fatto che collaborazioni sul piano produttivo (a livello di subforniture, ad esempio) sono in atto da sempre.
Una ricerca dell'Irer di Milano ha dimostrato che lo scorso anno il 36% delle imprese fra 50 e 500 addetti collaboravano strettamente fra loro in settori diversi da quello produttivo: l'11,5% si accordava nel fissare i prezzi dei prodotti; il 15% sceglieva la strada degli accordi commerciali; il 14,5% quella della ricerca in comune; il 12%, infine, facevano acquisti insieme, ottenendo ovviamente un maggior potere contrattuale sul mercato, con vantaggio per tutti. Un terzo punto: l'automazione. Si è diffusa nei grandi complessi, ma è cresciuta rapidamente nei piccoli e nei piccolissimi. Un'indagine del Cestc sulla robotizzazione dei processi produttivi conferma che lo scorso anno si sono robotizzate l'11,5% delle imprese lombarde fino a 50 addetti; il 25% di quelle fino a 200 addetti; e ben il 36,35% di quelle oltre i 200. E il robot non solo aumenta l'efficienza della produzione, ma comporta necessariamente cambiamenti strutturali nell'organizzazione dell'azienda.
Punto quattro. La crescita dell'imprenditorialità. il lavoro indipendente nell'industria è passato da 1,021 milioni di occupati nel 1974 a 1,211 milioni nel 1982, con un aumento pari al 18,6%. Con un processo di mobilità molto più vasto di quanto comunemente si accetta. E si deve tener conto che il 38,9% di coloro che entrano nel lavoro indipendente, viene dal lavoro dipendente, e solo il 19,4% proviene dai non lavoratori. Il che conferma quanto ogni tanto si dice: e cioè che piccolo è bello, ma che soprattutto, in questo Paese in cui la ricerca del posto sicuro resta una religione, c'è molta più gente di quanto si creda che, se costretta a lasciare il posto dalla ristrutturazione industriale in atto, si mette in proprio; e in molti casi lascia il posto che ha per fare altrettanto.
Nel settore si creano figure nuove di imprenditore: per esempio, quella dell'ex immigrato che è stato sospinto al paese d'origine da una suo libera scelta o da difficoltà nuove incontrate nell'area di adozione. Comunque sia, egli trasferisce a casa sua l'esperienza fatta, diventando un piccolo imprenditore (con finanziamento che in parte può derivare dai suoi risparmi) nel settore manifatturiero. Questa è una delle riserve maggiori della nuova imprenditorialità.
Ci diceva Alberto Rossetti, diventato il giovane direttore generale del Mediocredito della Regione Calabria dopo una serie di esperienze finanziarie a Milano, che la rapida crescita dei finanziamenti concessi dall'Istituto si spiega con il suo dinamismo, ma anche con le capacità enormemente cresciute degli imprenditori (nuovi, specialmente) in alcune zone della Calabria.
Un altro tipo di imprenditorialità nuova in netto aumento è quella del quadro tecnico della grande impresa. Anche in questo, la scelta del mettersi in proprio può essere libera oppure originata dalla ristrutturazione che taglia posti di lavoro. Comunque, si esplica nella creazione di strutture di ridotte dimensioni, di solito nel terziario, con grande capacità di innovazione. E tutto ciò, con una crescita dell'export nazionale significativa anche a livello di imprese minori.
Un ultimo aspetto della nuova imprenditorialità è quello che De Rita ha definito, con un brutto ma efficace neologismo, indario, cioè industria e terziario insieme. Anche in questo caso, la nuova imprenditorialità ha le origini più diverse: nasce dalla maturazione degli imprenditori di secondo o di terza generazione; da quadri o da dirigenti che si mettono da soli; insomma, da una mobilità di cui, a livello statistico, si vedono solo tracce, ma che tuttavia esiste ed è prorompente. E spiega in buona parte anche crescite del Pil che hanno poco a che vedere, di primo acchito, con quelle che dovrebbero essere le conseguenze dei mali economici del nostro Paese: quelli, sì, molto evidenti, e contabilizzati in pieno.
I cambiamenti più significativi? Il Censis li riassume in questo modo:
1) internazionalizzazione, anche per le aziende minori;
2) strategia discontinuo di innovazione continuata: cioè, si all'innovazione, ma a quella che serve, e quando serve;
3) capacità crescente di trattare il prodotto-mercato, cioè attenzione a quello che vuole il mercato e capacità di risposta;
4) reperire il meglio dov'è: pubblicità, design, consulenza organizzativa, e via dicendo;
5) recupero della professionalità;
6) attenzione non ideologica, ma operativa, all'accumulazione di capitale;
7) capacità di ripiegare su segmenti più alti del mercato - quindi attenzione alla qualità e rigetto della mediocrità - quando su quelli medi e bassi la concorrenza di nazioni, in cui il costo del lavoro è inferiore, si fa invincibile.
Una vera e propria rivoluzione, della quale vediamo fortunatamente gli effetti positivi in termini di risultati economici; ma altri aspetti, ancora, ci sfuggono.
Vedremo nell'immediato futuro.

Le due Italie dell'innovazione
Il terziario avanzato suscita un interesse crescente non solo per la nuova occupazione qualificata che esso è in grado di creare, ma anche per il contributo offerto all'ammodernamento produttivo e gestionale dell'intera economia nazionale. In questo settore emergente si raggruppano quelle attività e quei servizi alle imprese che producono innovazione e trasferiscono know-how, con alto contenuto professionale e con elevata incidenza del fattore umano, dalle aziende di ingegneria alle società di software e di servizi di informatica, dalla consulenza direzionale alla formazione e al marketing. Le aziende di ingegneria e di servizi di informatica, in particolare, costituiscono sia il fenomeno quantitativamente più significativo sia il veicolo maggiormente rilevante per l'introduzione di nuove tecnologie nei processi produttivi e gestionali delle imprese.


Le imprese di ingegneria, secondo una recente indagine del Politecnico di Milano, sono in Italia circa 100, con 18.900 addetti e con un fatturato di 4.300 miliardi di lire, di cui il 75% rivolto all'esportazione. Le società che forniscono servizi di informatica - dall'elaborazione dati alla produzione dei software, dalla consulenza informatica ai sistemi "chiavi in mano" - hanno a loro volta fatturato 1.400 miliardi di lire, con oltre 30.000 addetti, di cui il 60% dotati di laurea o diploma. Ben il 65% del fatturato è costituito da valore aggiunto, ma la quota destinata all'esportazione è trascurabile (1,5%), a differenza delle società di ingegneria: il mercato infatti, è essenzialmente a livello locale, e solo le aziende maggiori operano in regioni differenti.
Questa situazione è simile a quella tedesca, ma lontana dalla realtà francese e anche inglese: la bilancia dei pagamenti del settore verso l'estero, nel caso della Francia, presenta infatti un attivo di 300 miliardi di lire; ben nove delle prime diciotto società di servizi di informatica operanti in Europa sono francesi (contro una sola italiana), e le prime 27 società delle circa 500 censite in Francia nel 1980 realizzavano il 75% del fatturato complessivo del settore, che risulta più che doppio rispetto a quello italiano, con un'occupazione di 50 mila persone.
Una caratteristica, dei servizi di informatica in Italia è invece lo sviluppo di un gran numero di unità produttive di piccola e piccolissima dimensione, spesso su base di occupazione indipendente: il Censis ha rilevato ben 6.250 unità locali, e le aziende specializzate in servizi informatici con un minimo di struttura sono valutate in circa 2.400, con una dimensione media di 12,5 addetti, livello molto basso in campo europeo. Il 60% delle imprese ha poi meno di dieci addetti e un fatturato annuo inferiore a 500 milioni di lire, mentre solo l'8% ha la forma di società per azioni, con una consistenza media di 80 addetti. La dinamica di crescita italiana è però assai effervescente, con un incremento di occupazione dell'8% annuo, inferiore solo a quello registrato in Finlandia e in Irlanda, e con una crescita media annuo del fatturato superiore al 20%. Da tener conto che il 68% delle imprese italiane di software è nato dopo il 1977. Interessanti considerazioni, sia per le società di ingegneria sia per quelle di servizi di informatica, si possono trarre osservando la loro collocazione geografica nel Paese, che rivela come lo sviluppo del terziario avanzato sia strettamente connesso con la qualità del tessuto economico e con la cultura industriale di una regione.


Per le società di ingegneria, il 35,8% delle imprese (con il 47,9% degli addetti e il 46,8% del fatturato) è sito in provincia di Milano; il 38% (con il 13% del fatturato) in provincia di Roma; il 7% (con il 3,2% del fatturato) in provincia di Torino. In tutte le altre provincie italiane risulta presente solo il 18,3% delle imprese, con il 37% del fatturato. Nel Mezzogiorno, in particolare, è localizzato solo l'8,2% del totale delle unità locali di servizi di ingegneria. Il dato è tratto da un'indagine di Unioncamere.
Per le società di servizi di informatica, il Censis ha stimato che il 66,2% delle unità locali è operante nel Nord (con il 26,7% in Lombardia e l'11,7% in Piemonte); il 21,3% nel Centro (con l'8% in provincia di Roma); e solo il 12,6% nel Mezzogiorno. Altre accreditate analisi assegnano alle aree lombarda e piemontese un'incidenza ancora maggiore. Se si passa poi ad esaminare all'interno dell'informatica un sottosettore altamente innovativo, qual'è quello dei sistemi grafici computerizzati per la progettazione, per la produzione e per la gestione, si vede che, delle 70 ditte italiane specializzate, ben il 65% è localizzato in Lombardia e il 10% in Piemonte, mentre nel Mezzogiorno risulta presente una sola azienda (fonte: Politecnico di Milano).
Una analoga, seppur meno marcata distribuzione geografica, che ricalca con impietosa fedeltà le distanze di cultura industriale, professionalità e know-how esistenti fra le due diverse aree del Paese, è riscontrabile anche considerando in modo generalizzato la globalità delle attività di servizio per le imprese: la Lombardia copre il 24,1% del totale nazionale degli addetti di questo comparto (il 15,4% in provincia di Milano); il Piemonte copre il 9,6% (il 6% a Torino), con un totale per il Nord pari al 58,8%. Il Centro occupa il 23% (l'11% nel Lazio); le regioni meridionali dividono il rimanente 18,2%
Cioè: si verifica nelle aree meno avanzate del Paese un circolo vizioso riscontrabile anche in altri settori di elevata professionalità nella nostra economia: un mercato della domanda immaturo, asfittico e periferico rispetto ai centri di azione internazionali sostiene un'offerta di servizi frammentato e non particolarmente innovativo, che a sua volta contribuisce al ristagno delle caratteristiche della domanda stessa. Le distanze di radicamento, professionalità e know-how, che segnano il terziario avanzato di queste aree, sono dunque interpretabili in termini di opportunità: minori occasioni di misurarsi con le esigenze di un'utenza evoluta, e quindi minore accumulazione di conoscenze; inferiore livello di sistema formativo e quindi difficoltà nell'acquisizione di un "capitale umano" con solida preparazione di base; carenza di imprese produttive di punta che formino sul campo adeguate professionalità, e quindi da un lato difficoltà nell'attivare nuove imprenditorialità del terziario avanzato, e da un altro lato necessità di formare all'interno e dal basso con elevati oneri il nuovo personale assunto, per la difficile reperibilità di esperti già qualificati. Ma quali sono allora le iniziative più opportune per far crescere in modo meno asfittico il terziario avanzato delle aree meno innovative e garantire nello stesso tempo una competitività a livello anche internazionale per quello delle aree forti italiane, già dotate dell'indispensabile tessuto industriale maturo? La più opportuna iniziativa di job creation per il terziario avanzato, secondo un recente studio dell'Isfol, sembra essere l'erogazione di incentivi alla domanda (in linea con la recente proposta del Ministro dell'Industria); per lo sviluppo e la qualificazione dei servizi innovativi è infatti indispensabile un mercato sufficientemente ampio e occorre un comportamento reattivo dell'imprenditoria.
Assai utili sembrano essere anche il sostegno nella fase di avvio dell'impresa terziaria attraverso l'assistenza agli studi preliminari (dimensione dell'impresa, struttura giuridica, mezzi tecnici, ecc.) e la creazione di collegamenti fra domanda e offerta, mettendo a contatto le piccole imprese industriali e con i soggetti più idonei alla soluzione dei loro problemi. Un ruolo di qualificazione dell'offerta potrebbe anche ricoprire l'istituzione di appositi "albi" che garantiscano il livello dei servizi erogati dalle aziende, come suggerisce un recente studio sull'area torinese (Oltre il pianeta Fiat, redatto da Mondo Economico). Più a monte, per creare un terreno fertile, è essenziale il perseguimento di più alti livelli di insegnamento nell'Università, con la predisposizione di corsi di specializzazione post-laurea e con la messa a disposizione di borse di studio per stages presso imprese industriali e per la specializzazione all'estero.


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