MELISSANO IN ALCUNI DOCUMENTI DELL'EPOCA DEL DOMINIO SPAGNOLO IN ITALIA




Quintino Scozzi



Avevo da poco pubblicato "Un paese del Sud, MELISSANO, Storia e tradizioni popolari", quando appresi dell'esistenza, in Spagna, di documenti riguardanti Melissano. Ne feci richiesta, il 20 maggio 1982, con scarso speranza di successo e secondo le indicazioni fornitemi, all'ARCHIVIO GENERAL DE SIMANCAS.
Due mesi dopo mi pervennero, quasi a fugare la mia diffidenza, in copia fotostatica, alcuni documenti riguardanti, appunto, Melissano nel 1600. Erano corredati della seguente nota:

"Simancas, 22 de Julio 1982 Muy Senor mio,
Me es grato adjuntarle las fotocopias que nos ha solicitado en su carta de 20 de majio, relativas al tema de su interés.
El importe del trabajio asciende...Le saluda atentamente Amando Represa".

(Gentilissimo Signore, mi è gradito spedirle le fotocopie che ha richiestro con lettera del 20 maggio, relative all'argomento di suo interesse. L'importo ascende a... La saluto cordialmente Amando Represa").

A mano a mano che sbucciavo quelle carte, mi pareva di respirare l'aria greve iberica (fatta di privilegi, oppressione, fame, ingiustizia) che la follia bellica aveva spinto nelle nostre regioni quattro secoli prima. Mi riferisco all'epoca del dominio spagnolo in Italia.
In aderenza a quanto stabilito col trattato di Château Cambrésis, stipulato nel 1559 tra Francia e Spagna, l'ex ducato di Milano, l'ex reame di Napoli, la Sardegna e lo Stato dei Presidi, divennero, infatti, domini spagnoli e, come tali, non poterono avere una politica autonoma. Non miglior sorte ebbero altri stati formalmente indipendenti, come il Granducato di Toscana, la Repubblica di Venezia e lo Stato della Chiesa, dove la Spagna esercitò un controllo estremamente rigoroso e stroncò iniziative di carattere politicoamministrativo. Il Governo dei possessi spagnoli in Italia faceva capo ad un Consiglio Suprerno, avente residenza a Madrid e composto di Ministri che, lontani dalle regioni soggette, non potevano avere alcuna autorità diretta su di esse. Grande autorità avevano, invece, i rappresentanti che il Re di Spagna teneva a capo di ciascun dominio.
In Sicilia, in Sardegna e a Napoli vi erano vicerè triennali; nella Lombardia, considerata terra di conquista, vi era un Governatore.
Questi rappresentanti erano dei piccoli sovrani, liberi di commettere ogni sorta di tirannìa purchè esercitassero il compito loro affidato, e cioè: impinguare il più possibile l'erario di Spagna, sempre esausto a causa delle guerre in cui essa si dibatteva. La boria e il fasto dei vicerè spagnoli avvilivano la dignità nazionale.
La giustizia era amministrata in forma arbitraria, le imposte crescevano, l'agricoltura decadeva. Le popolazioni che maggiormente subirono le angherìe della sbirraglia iberica furono quelle meridionali. Nei villaggi e nei paesi, chiamati allora Feudi e Casali, il sistema feudale fu applicato col rigore caro alla Corte di Spagna e ai vicerè preposti al controllo dell'economia locale. A Napoli non pochi dei vicerè che si avvicendarono, suscitarono la reazione e il disprezzo del popolo per l'estrosità, la megalomanìa, l'immoralità e la ferocia. Nel 1582, per fare qualche esempio, fu inviato quale vicerè il duca di Ossuna, don Pedro Tellez Giron. Questi dapprima si rese impopolare per aver ordinato la diminuzione della forma del pane e l'aumento del prezzo, e successivamente per avere fatto imprigionare alcuni membri del seggio di Capuana.
Ma l'ira del popolo napoletano si scatenò allorchè egli fece eseguire 31 pene capitali e 500 arresti in conseguenza dell'assassinio di un Eletto del popolo, certo Storace.
Il duca di Ossuna fu sostituito, per ordine del Re di Spagna, da un altro vicerè, il Conte di Miranda, Juan de Zunica. Durante il suo viceregno vi fu una terribile carestia. La fame e la miseria generarono vari tumulti, ma, come scrive Benedetto Croce (Cfr. Storia del Regno di Napoli, Bari, pag. 107) "per quanto la città diè di piglio più volte alle armi e ammazzò soldati spagnoli, si studiò sempre, guidata dai suoi giuristi e distinguendo fra Re e vicerè di non cadere in... ribellione". Essa fece, insomma, del suo meglio per evitare spargimento di sangue. E continuò a pagare ammende e gabelle e a soggiacere ai soprusi dei baroni, alla corruzione dei magistrati, agli abusi dei vicerè. Solo quando la situazione diveniva assolutamente insostenibile passava alla reazione. Successe allorchè un vicerè, in periodo di carnevale, ordinò festeggiamenti per le strade. Il popolo che soccombeva sotto il peso delle tasse, chiese, allora, sdegnato, l'allontanamento dei vicerè, anche per motivi d'immoralità. Il 37enne cicisbeo, infatti, aveva numerose amanti, ai mariti delle quali concedeva favori, cariche e ... onori. Fu sostituito da un altro vicerè, che provvide, alla meglio, qualche tempo dopo, alla sistemazione dell'annona. Ma avendo, in seguito, vietato l'insegnamento privato, si inimicò il clero e soprattutto l'arcivescovo di Napoli, card. Francesco Boncompagni, e fu sostituito a sua volta.
L'apice della tassazione fu raggiunto durante il viceregno dei duca d'Arcos. "La pressione fiscale e la continua richiesta di donativi - scrive Vittorio Gleijeses in LA STORIA DI NAPOLI, Napoli, 1977, pag. 598 - aveva sempre più indebolito l'indice di sopravvivenza dei napoletani ... ". Il momento della rivolta giunse allorchè il duca d'Arcos impose la gabella sulla frutta.
Un giovane pescatore, tal Tommaso Aniello, chiamata una banda di scugnizzi laceri e affamati, cui si accodò una moltitudine di gente, il 7 luglio 1647, diede inizio alla rivolta. Ma i movimenti di protesta si diffusero in quasi tutte le province del vicereame di Napoli e in altre parti d'Italia. A Palermo, per continuare con gli esempi, scoppiò una rivolta capeggiata da Nino della Pelosa, e una insurrezione si verificò a Messina, dove il popolo, vistosi alle corde, chiese aiuto al Re di Francia, Luigi XVI.
Ma anche nelle altre regioni le cose non andavano lisce se si tien presente il detto secondo cui gli spagnoli in Sicilia rosicchiavano, a Napoli mangiavano e a Milano divoravano.
Alle manifestazioni di protesta contro la bieca logica dell'oppressione e contro gli sfruttamenti perpetrati a danno delle masse popolari, facevano seguito fasi di quiescenza e momenti di rassegnazione. Si faceva, come suoi dirsi, buon viso a cattiva sorte. Sta di fatto che alla morte di Filippo II, figlio di Carlo V, avvenuta nel 1598, l'Italia, e maggiormente il meridione, partecipò al lutto della famiglia reale con funzioni religiose, preghiere e... oblazioni. Anche i Casali dell'estremo Salento, nonostante i rigori fiscali e la politica intransigente e assolutista di Re Filippo, chiusero bottega. A Specchia la sera del 15 novembre 1598, si recarono il vescovo di Ugento e "tutto il clero per officiare il Re con tutti l'altri della Diocesi...".
Ottenere una carica del Governo spagnolo in tempi così neri non era cosa facile. Significava non solo sottrarsi agli obblighi fiscali, ma ottenere privilegi e immunità ed incassare, addirittura, una parte delle entrate ricavate dal Feudo (estagli, none, decime ecc....), giacché l'altra parte finiva, o doveva finire, nelle casse dello Stato (spagnolo, s'intende).
Si spiega così il desiderio spasmodico di qualche notabile dell'epoca di ottenere dal sovrano un titolo nobiliare, se non un Feudo o Casale.
Molto ambito era il Casale di Melissano a causa, forse, dell'ubertosità dei terreni, della salubrità dell'aria, dell'indole semplice e della solvibilità dei suoi abitanti.
Nell'anno di grazia 1612 era al trono di Spagna Filippo III, uomo meno severo e meno guerraiolo del predecessore Filippo II.
Orbene, è a lui che rivolse istanza, diretta ad ottenere il titolo di marchese della "città di Melissano" Giacomo De Franchis, fratello del vescovo di Nardò, Luigi De Franchis. Ed ecco il testo della supplica, per usare un termine. dell'epoca, anche nella traduzione, ad litteram, da me eseguita:

"S. P. leg. 189-1
Al Preg.mo Signore
da Giacomo De Franchis del Consiglio Reale di Capuana di Vostra Maestà di Napoli Signore Giacomo De Franchis del Consiglio Reale di Vostra Maestà di Capuana di Napoli dice che suo padre Vincenzo De Franchis ha servito Vostra Maestà per 36 anni continui come Consigliere e Presidente dello stesso Consiglio e che i suoi servigi sono molto noti in detto Regno e in tutto il mondo per i suoi scritti, rivolti a Vostra Maestà. Ha servito, inoltre, Vostra Maestà Andrea De Franchis, fratello del supplicante, arcivescovo di Trani, come Cappellano di quella Cappella Reale e i due fratelli lo stanno servendo ancora, come Lorenzo De Franchis, in qualità di avvocato fiscale del Vicariato di Napoli e don Luigi, Vescovo di Nardò, tutti fratelli del supplicante; ha un figlio Paggio di Vostra Maestà e Cavaliere molto conosciuto nella città di Capua e Signore delle città di Melisano e Octaviano.
Supplica Vostra Maestà affinchè memore di dette qualità, gli faccia dono del titolo di MARCHESE della predetta città di MELISANO e si offre di servire Vostra Maestà con 8000 ducati castellani per offerta a VOSTRA MAESTA' e tutto ciò riceverà da Sua Grandezza Generale".

A vergare la "credenziale" all'aspirante al ... soglio marchesale fu probabilmente un Dignitario, il quale ebbe cura di elencarvi tutte le prerogative della famiglia del postulante ed i servigi resi dai suoi congiunti a Sua Maestà. E infatti riuscì a fargli ottenere, sia pure con una grossa manciata di ducati, il tanto agognato titolo di Marchese della città di Melissano. Come non bastasse che il figlio, Cavaliere, ne fosse il ... "Signore".
Ma tant'è. Tutti i Feudi e i Casali (come Casarano, Matino, Parabita, Tauro Sano, Uggento, Octaviano, Racle, liste, Fellino, Supplessano, Tre Case ecc.) ebbero per secoli il loro Conte, Barone, Duca, Principe o Marchese che fosse. Melissano, dunque, ebbe, prima di passare ad un Principe (Caracciolo), come Marchese Giacomo De Franchis che, per assurgere a tale dignità elargì, a titolo di LIMOSNA (offerta) 6000 ducati (somma ridotta) come risulta dalla ricevuta rilasciata dal LIMOSNERO, il 17 luglio 1612, che qui riporto in lingua spagnola e italiana:

"A. I. L. 1612 L'ELEMOSINIERE MAGGIORE al 17 di luglio,
Informa di essere soddisfatto dei 6000 ducati per il titolo di Marchese di Giacomo De Franchis".

Un altro secolo doveva attendere l'Italia per liberarsi dalla dominazione spagnola. Nel 1714, infatti, con la pace di Rastadt, quasi tutti gli Stati soggetti alla Spagna passarono alla Casa d'Austria e divennero teatro di non men tristi vicende.


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