In
principio, Dio diede a ogni popolo una tazza di argilla, e da quella
tazza essi bevvero la vita. Tutti la immersero nell'acqua, ma le loro
tazze erano diverse. E la nostra si è rotta. La nostra, ora,
non c'è più.
(Proverbio indiano. America Latina)
Gli anni, gli
uomini e i secoli sono passati su questa terra, terra di Salento,
con la forza contrastante e contraddittoria della Storia, con le sue
luci schermate, e le sue ombre nitide, le sue irragionevoli verità,
sempre cristalline. Sono passati e passano, oggi come ieri, uomini,
culti e politiche, nel tambureggiante bolero della conquista e della
riconquista, degli innesti culturali, delle stratificazioni societarie,
del colpevole elitarismo antropologico e razziale.
E sono passate anche le idee, scivolando sulle ferite, che qui sono
sempre aperte, scandendo imparzialmente i tempi e le stagioni, riducendo
le distanze geografiche con il futuro prossimo venturo, ma distruggendo
con il non-ricordo le impronte, i segni, le parole di un passato accidentale
e sospeso nel vuoto di un territorio che solo nominalmente, ancora,
ci appartiene. E sono passate, infine, con il misticismo dell'apodittico
e i territori escatologici, le religioni dell'uomo e le teologie dello
Stato, con le punizioni totalizzanti e le catastrofi a scelta: l'Anno
Mille e i quattro cavalieri dell'Apocalisse; l'Anno Duemila e "la
bombe plus le nombre" (1). Queste e altre cose, corpose ed irreali,
sono passate sulla pelle di questa terra, ultima proiezione peninsulare
di un'Italia arcaica che sopravvive con i manifesti laceranti delle
antiche idee, delle vecchie, ma gloriose, vampate rivoluzionarie.
Che si svendono, e si barattano, nelle fiere di paese e nei mercati
rionali, con la fredda convinzione (che è, poi, tardo autocompiacimento
vittoriano) che "gli dèi se ne vanno", e che i vènti
hanno ormai disperso le ultime tracce, e gli ultimi sparsi granelli
della creta biblica.
Sono caduti e precipitati gli stemmi e le torri, ma sono stati recisi
anche legami e affinità, vincoli materiali e radici culturali.
Il Salento, questa fuga di cielo di terra e di acqua, policromo e
poliedrico, ricondotto alla ragione, "civilizzato" e nuclearizzato:
mentre la sua povertà è ancora (e sarà sempre)
greca; il suo dolore, ellenistico; il suo concetto di morte totalmente
orientale e tribale, senza le accezioni dell'eternità occidentale
e le teorizzazioni trascendentali del postcapitalismo.
Consegnato, monocolore, all'Europa e alle sue venature filosofiche,
vive ancora il ritmo della terra e della pioggia (che crea e distrugge):
e, in questo, è più sudamericano, o sudafricano, di
ogni altro paese del Mediterraneo. Identità e permeabilità
di certi tratti culturali e cultuali lo confermano.
Ricondurre il tutto ad unità organica e sistematica (e coerente)
non è facile, in terra di Salento. Qui, e non altrove, l'Oriente
si è trasformato in Occidente. Qui, e solo qui, la tolleranza
tra popoli è stata anche tolleranza religiosa, sanando le fratture
della "diversità" sacrale: qui, il riassunto umano
di tre esperienze letterarie antitetiche: osca, latina e greca e il
suo rappresentante, primo nell'ancora ininterrotta diaspora: Quinto
Ennio (2). Qui, la cerniera tra Cristianesimo e Islamismo, tra arabismo
e latinità, tra Europa e Africa, tra razionale ed irrazionale.
Nei secoli, l'arroganza dei dominatori: Japigi, Greci, Romani, Bizantini,
Arabi, Veneziani, Normanni, Svevi, Angioini, Aragonesi, Spagnoli,
Francesi. Come in Levi, "nessuno ha toccato questa terra se non
come un conquistatore o un nemico o un visitatore distratto. Le stagioni
scorrono sulla fatica contadina oggi come tremila anni prima di Cristo:
nessun messaggio umano o divino si è rivolto a questa povertà
refrattaria". E' un dato che accomuna il Salento a ogni "meridione":
italiano, europeo, mondiale.
Sono passati i secoli e gli anni, dilavando la faccia degli uomini
e le facciate delle cattedrali, sgretolando gli ultimi spazi territoriali,
tutti vitali. il futuro è ancora una ipotesi (e non è
più presente, in ogni caso); il passato una 'pax germanica',
con i suoi esseri deboli e sconfitti, e la pietraia di una civiltà
rasa al suolo.
Ma il destino ha voluto che fosse qui, nel Salento, e non altrove,
il grande serbatoio della Storia e della Preistoria, e che qui si
concentrassero, nelle viscere della terra, i primi segni, i primissimi
passi dell'uomo darwiniano, o quelli, almeno, del suo diretto discendente.
Da Nord a Sud, dall'Adriatico allo Ionio, il Salento parla l'antica
'glossa' della prima notte e delle prime stelle, che ci hanno restituito,
misteriosi e solitari, menhir, dolmen, specchie, "pietrefitte"
di un'area archeologica, per questo, unica al mondo. Pietre che danzano
con le ombre del sole, che velano il mistero della morte, che nascondono
tesori fantastici, sanguinariamente cercati e mai trovati. Non rivelano
alcuna verità: raccontano, come le streghe del Macbeth, una
storia di nebbie e senza fili; un'intreccio approssimativo, appena
abbozzato, condizionato, alla fine, dal disincanto dell'ignoto, in
un imbarazzo poetico, quasi nerudiano: "Mi sentii infinitamente
piccolo al centro di quell'ombelico di pietra, ombelico di un mondo
disabitato, orgoglioso ed eminente, a cui in qualche modo 10 appartenevo.
Sentii che le mie stesse mani avevano lavorato lì in un'epoca
lontana, scavando solchi, levigando macigni, innalzando altari [ ...
] Avevo trovato tra quelle alture difficili, tra quelle rovine gloriose
e disperse, una professione di fede per la continuazione del mio canto"
(3).
Salento megalitico, con i suoi musei di pietra, e il suo sgomento
neolitico, ancora sconosciuto vent'anni fa agli specialisti della
"Piccola Guida della preistoria italiana" e al bassobretone
"men", "hir", "dol", "men".
Nel frattempo, più di sessanta menhir sono andati distrutti,
e con essi un pezzo della nostra memoria: abbattuti perchè
ritenuti inutili, sventrati dalle automobili, riutilizzati nelle costruzioni
delle case, "ingabbiati" di notte, trasportati e venduti
nel Nord o nei paesi freddi d'oltre frontiera.
Nessuno è mai intervenuto per frenare il massacro, nessuno
ha mai ritrovato, nei giganti eroi di pietra, le tracce di una comune
e solidale appartenenza.
Ma non solo pietrefitte. la lunga notte ha rivelato (e continua a
rivelare) anche un rosario paganeggiante di grotte e di caverne che
cicatrizzano antichi strappi, butterando il terreno e l'intestino
cavo di una terra che si apre e si chiude a ventaglio sul mare, sprofondando
per chilometri e affogando nel vuoto ancora inesplorato (4). Salento
carsico, con i suoi corridoi sotterranei e i suoi santuari naturali
di stalattiti e di stalagmiti che rapiscono la luce e la imprigionano
nei chiaroscuri di delicate rocce e di umide pareti. La vita del Salento
ha qui, e non altrove, né prima né dopo, le sue radici.
E' salentino, ancorchè paleolitico l'uomo dell'"amigdala"
(5) trovata nel 1969 sulle colline in prossimità di Casarano,
e del "chopper" (6) monofacciale di Matino, entrambi conservati
nel Museo Civico di Paleontologia di Maglie. E' di un salentino, e
per giunta neanderthaliano, il molare mandibolare destro rinvenuto
nei pressi di Maglie, così come era del periodo magdaleniano
la mano che graffiò, sulla parete nord della Grotta Romanelli
(7), a Castro, lo splendido esemplare di "Bos primigenius",
raggiunto e ucciso dalle zagaglie. E sono ancora di questo periodo,
VII miliennio a. C., le Veneri di Parabita, figure intagliate nell'osso,
e raffiguranti la donna prossima al parto, nel simbolismo della Grande
Madre, la Genitrix Universalis pindariana "che ha dato l'alito
della vita agli uomini e agli dèi".
E fu il Neolitico, nei millenni, e nel Salento. I cacciatori furono
affiancati da pastori e da agricoltori; si raffinò l'arte e
si perfezionò l'industria litica. Fu l'esplosione, in natura,
delle grandi grotte sul mare, e della pittura rupestre.
Dalla Zinzulusa, dai "panni appesi" (8) scoperta alla fine
del '700 da Francesco Del Duca, ultimo Vescovo di Castro (9), alla
Grotta del Diavolo presso Santa Maria di Leuca. Dalle grotte gemelle
dei laghi Alimini alla più sconcertante testimonianza dell'arte
neolitica italiana e mondiale: la Grotta dei Cervi, a Porto Badisco.
Scoperta casualmente da un gruppo di ricercatori dilettanti nel febbraio
del 1970, la grotta di rivelò subito come "il più
importante monumento sacrale della tarda preistoria, non paragonabile
con qualsiasi altro sin qui conosciuto in Europa" (10). Quattro
diramazioni sotterranee (ma molto resta ancora da riportare alla luce),
reperti litici e in ceramica disseminati nei corridoi e negli anfratti,
ma, soprattutto, pitture rupestri. Migliaia di pittogrammi, in rappresentazioni
antropomorfe e zoomorfe, dipinti con ocra rossa, alcuni, con l'impiego
di guano di pipistrello mineralizzato, gli altri. Dopo le cattedrali
buie di Lascaux, in Francia, e di Altamira, nella regione cantabrica
del Pirenei, l'affresco naturalistico e sacrale del neolitico otrantino.
Una teoria ininterrotta, in rapida progressione, di uomini con l'arco,
di animali, di scene di caccia, di cani e di cervi, di stregoni, di
"arabeschi" a mosaico, di capridi e di cinghiali, di organi
della fecondità, di criptogrammi misteriosi che catturano e
trasformano i segni del tempo e dello spazio.
Tutto si confonde, e si riappacifica, sotto la grande volta. Riti
e simboli, religione e magia. Passato e presente.
Salento neolitico, con l'unica grande cultura che non abbia conosciuto
conquistatori o dispensatori di civiltà distratti e frettolosi.
Nella pietra, e sotto la pietra, la terra parla esclusivamente l'unica
intelligibile lingua di questo estremo racconto orientale. Che ricorda
il fortunoso approdo del mitico Enea, la venerea rupe della bianca
Leuca, il suicidio della vergine Cesarea, l'amore arabo del sole con
la luna, su un letto di stelle fredde... D'allora, sono passati gli
uomini e gli anni, le idee e le religioni. Di quel passato, che tutto
riconduceva all'"ens" indivisibile e portentoso e alla coerenza
concettuale, rimangono timidi segni nella sibaritica immobilità
dei Musei Provinciali. Che sono "les prisons de l'art" (11),
soprattutto quando inghiottono, in cantine e depositi, le nuove grotte,
i materiali e i reperti di quella cultura, e di ogni età. Centinaia
di migliaia di pezzi, parcheggiati soprattutto a Taranto, che vivono
una seconda vita, umida e indocumentata, in attesa di essere riscoperti.
Sono, alla fine, brandelli della nostra memoria che non ritorneranno
più nel Salento. Saranno sbalestrati, nelle fughe organizzate,
in tutta l'Italia e all'estero. Quanti vasi della Grotta dei Cervi,
salentina, abbelliscono le sale del Museo di Basilea? Quante collezioni
private di fregiano della cultura meridionale?
E mentre continua, collaudato, il gioco al massacro, divampano sterili
polemiche. Si era parlato, nel novembre dello scorso anno, del degrado
ambientale delle Grotte di Porto Badisco. Le pitture si deteriorano,
l'azione indocile del tempo non conosce il sabato e i pittogrammi
sbiadiscono, perdono il colore del ricordo. Il problema non è
questo. I dipinti sono destinati a morte per una ragione interna,
quasi "fisica", alle stesse cose: variazioni climatiche
all'interno della stesso grotta, tassi di umidificazione e di ventilazione
alterati già nel momento stesso della scoperta, con le prime
correnti d'aria "pulita" provenienti dall'esterno, vapore
acqueo e bombardamento di luci durante le fasi di scavo e di studio.
Non si può salvare una grotta che sta morendo.
Lascaux è stata chiusa al pubblico, che può ammirarne
le decorazioni in una grotta artificiale, costruita a ridosso di quella
originale. Altamira consente la visita a non più di mille persone,
nell'arco di quindici giorni, per evitare che la temperatura superi
i 14 gradi, ma è destinata a divenire, in breve tempo, un museo
"chiuso", e sarà il canto del cigno dell'arte preistorica.
Badisco può essere solo chiusa, così come lo è
già da tre anni, e restituita alla sua cieca memoria.
Ma il problema, dicevo, non è questo. Non sono i Musei, non
sono le cieche Sovrintendenze, non sono, paradossalmente, le polemiche
pilotate e strumentali.
E' un problema di riassetto ambientale e artistico dell'intero territorio.
Osservava giustamente Luciano Milo: "Poi il mito del sole, del
mare, della villeggiatura ha fatto sorgere intere città, morte
per gran parte dell'anno, invadendo con architetture pseudo-mediterranee,
pseudo-moresche o addirittura con baite pseudo-alpine tante nostre
coste" (12), e proponeva la gestione diretta da parte dei cittadini
del patrimonio artistico e culturale del Salento. Senza la mediazione
di Musei e Sovrintendenze. Non è sufficiente. Perchè,
oltre a questo, non disporre l'imposizione di vincolo ambientale su
tutto il Salento (nell'agosto '84, nella Marsica, sono stati posti
sotto tutela, con questo procedimento, 630 Km di territorio, ai margini
del Parco Nazionale), facendo degli attuali quattordici siti archeologici
(13) un'unica area di lavoro e di "conservazione" in loco,
protetta dalla legge? E ancora: perchè non dotare ogni Comune
di un deposito archeologico aperto al pubblico, evitando il vagabondaggio
delle opere da una città all'altra? Infine: perchè non
istituire un unico, grande Parco, o riserva naturale, che comprenda
l'intera provincia di Lecce? I beni da tutelare non mancano: menhir,
dolmen, torri colombaie, grotte, castelli.... E poi la fauna, e poi
ancora il patrimonio paesaggistico.
Il Salento è uno dei serbatoi archeologici e artistici più
importanti ed imponenti del mondo. E molto ancora rimane nascosto
sotto la crosta e sotto la pietra.
La nostra tazza, oggi, è ancora intatta, e piena d'acqua. Una
letteratura folcloristica, e deteriore, ha stigmatizzato, di questa
terra, per secoli, gli ulivi, il mare e la fatica dei contadini. Troppo
poco per chi ha conosciuto la storia e la preistoria, nei formidabili
templi della natura e dell'uomo. Troppo poco per chi è stato
partorito dall'apostolico ventre delle Veneri salentine.
Passeranno ancora gli anni, gli uomini, e le cose. Ma la Grande Madre,
dalle viscere fumanti, resterà qui, in questa terra antica,
dolcemente arcigna, che chiameranno Salento.
NOTE
1) Demografia e fissione nucleare, in R. Aron, Trois essais sur l'âge
industriel, Paris, 1966, p. 237. Più radicale, la Storia del
mondo in epitome di Bertrand Russell: "Dal giorno che Adamo ed
Eva mangiarono la mela, l'uomo non si è mai astenuto da ogni
follia di cui fosse capace". Segue una fotografia del fungo atomico,
poi, su una pagina bianca, la parola "Fine". Il terrore
millenaristico della catastrofe è anche una scienza, oggi:
"Doomw - riting", rovinografia.
2) Gellio, 17, 17, 1: "Q. Ennius tria corda habere sese dicebat,
quod loqui graece et osce et latine sciret".
3) Pablo Neruda, Confieso que he vividi, Memorias, p. 209.
4) Più di 60 grotte, variamente disseminate sulla costa e nell'entroterra:
Poesia Grande, Sacara, Marisa, Mammino, dei Cervi, dei Diavoli, I.
Spagnolo, Gattula, Santa Cesarea, Sulfurea, C. Cosma, Madonna della
Serra, di Poggiardo, di Monteroni, Cardamone, Striare, Romanelli,
Zinzulusa, Palummara, Giustino, degli Angeli, dell'Acquaviva, Verde,
Madonna della Grotta, Matrona, della Madonna, Cipolliane, delle Prazziche,
dei Passeri, Grande del Ciolo, Galateggiu, li Giardini, dei libri,
le Due Pietre, Sciuncacchia, delle Vore, Guardosecchia, di Porrano,
Terradico, Cazzafri, del Diavolo, del Fiume, Tre Porte, dei Giganti,
del Drago, delle Fate, Madonna della Ruta, del Crocefisso, Focone,
Occhi Chiusi, S. di Mattina, delle Veneri, S. Mauro, del Passero,
del Fico, del Presepe, di Santa Caterina, di Uluzzu, S. Isidoro, di
Porto Cesareo, di Castiglione. Meno estese delle prime, ma di identico
valore archeologico e paletnologico, le caverne: dello Speziale, delle
Streghe, di Torre dell'Orso, dell'Acquadolce, del Pepe, Mbruficu,
Mafaro, Santo Stefano, Monaca, Bagno Marina, Rutunna, di Torre Suda,
Rizzello, di C. Cosma, del Cavallo.
5) (dal greco amygdàlé, mandorla). Utensile o arma preistorica
di pietra, generalmente rappresentata da ovuli di selce scheggiata
su entrambe le facce, a forma di grossa mandorla.
6) Rozzo ciottolo monofacciale. Rappresenta il primo tentativo, seppur
grossolano, di industria litica.
7) Fu la prima stazione archeologica italiana a fornire documentazione
dell'arte paleolitica, la nona in Europa, ponendo fine, tra l'altro,
alla convinzione degli scienziati che il Salento potesse offrire solo
materiali e testimonianze del Neolitico. La Grotta, infatti, risulta
essere stata abitata 65.000 anni fa, prima dei Neanderthaliani (Paleolitico
medio) e poi da genti Cro-magnonoidi (Paleolitico superiore).
8) Fu chiamata Zinzulusa "per gli zinzuli, cioè i brindelli,
i brendoli, i panneggiatori stalattitici che, come panni appesi, si
offrivano all'occhio del visitatore". (T. Pellegrino, La Zinzulusa,
Laterza, Bari 1951, p. 8).
9) Biblioteca Provinciale di Lecce, Sezione Manoscritti, n. 11.
10 ) Così P. Graziosi, al "XIV Congresso Internazionale
di Storia e Protostoria".
11) Biblioteca Provinciale di Lecce, Epistolario Degiorgiano, Vol.
164, pp. 41-44.
12) Luciano Milo, Rassegna Trimestrale Banca Agricola Popolare di
Matino e Lecce n. 2, giugno 1982, p. 108.
13) Cavallino, Rudiae, Lupiae, Soleto, Nardò, Roca Vecchia,
Otranto, Vaste, Vereto, Ugento, Castro, Alezio, Muro Leccese, Torre
San Giovanni.