§ PREISTORIA E STORIA

SALENTO MEGALITICO




Nello Wrona



In principio, Dio diede a ogni popolo una tazza di argilla, e da quella tazza essi bevvero la vita. Tutti la immersero nell'acqua, ma le loro tazze erano diverse. E la nostra si è rotta. La nostra, ora, non c'è più.
(Proverbio indiano. America Latina)

Gli anni, gli uomini e i secoli sono passati su questa terra, terra di Salento, con la forza contrastante e contraddittoria della Storia, con le sue luci schermate, e le sue ombre nitide, le sue irragionevoli verità, sempre cristalline. Sono passati e passano, oggi come ieri, uomini, culti e politiche, nel tambureggiante bolero della conquista e della riconquista, degli innesti culturali, delle stratificazioni societarie, del colpevole elitarismo antropologico e razziale.
E sono passate anche le idee, scivolando sulle ferite, che qui sono sempre aperte, scandendo imparzialmente i tempi e le stagioni, riducendo le distanze geografiche con il futuro prossimo venturo, ma distruggendo con il non-ricordo le impronte, i segni, le parole di un passato accidentale e sospeso nel vuoto di un territorio che solo nominalmente, ancora, ci appartiene. E sono passate, infine, con il misticismo dell'apodittico e i territori escatologici, le religioni dell'uomo e le teologie dello Stato, con le punizioni totalizzanti e le catastrofi a scelta: l'Anno Mille e i quattro cavalieri dell'Apocalisse; l'Anno Duemila e "la bombe plus le nombre" (1). Queste e altre cose, corpose ed irreali, sono passate sulla pelle di questa terra, ultima proiezione peninsulare di un'Italia arcaica che sopravvive con i manifesti laceranti delle antiche idee, delle vecchie, ma gloriose, vampate rivoluzionarie. Che si svendono, e si barattano, nelle fiere di paese e nei mercati rionali, con la fredda convinzione (che è, poi, tardo autocompiacimento vittoriano) che "gli dèi se ne vanno", e che i vènti hanno ormai disperso le ultime tracce, e gli ultimi sparsi granelli della creta biblica.
Sono caduti e precipitati gli stemmi e le torri, ma sono stati recisi anche legami e affinità, vincoli materiali e radici culturali. Il Salento, questa fuga di cielo di terra e di acqua, policromo e poliedrico, ricondotto alla ragione, "civilizzato" e nuclearizzato: mentre la sua povertà è ancora (e sarà sempre) greca; il suo dolore, ellenistico; il suo concetto di morte totalmente orientale e tribale, senza le accezioni dell'eternità occidentale e le teorizzazioni trascendentali del postcapitalismo.
Consegnato, monocolore, all'Europa e alle sue venature filosofiche, vive ancora il ritmo della terra e della pioggia (che crea e distrugge): e, in questo, è più sudamericano, o sudafricano, di ogni altro paese del Mediterraneo. Identità e permeabilità di certi tratti culturali e cultuali lo confermano.


Ricondurre il tutto ad unità organica e sistematica (e coerente) non è facile, in terra di Salento. Qui, e non altrove, l'Oriente si è trasformato in Occidente. Qui, e solo qui, la tolleranza tra popoli è stata anche tolleranza religiosa, sanando le fratture della "diversità" sacrale: qui, il riassunto umano di tre esperienze letterarie antitetiche: osca, latina e greca e il suo rappresentante, primo nell'ancora ininterrotta diaspora: Quinto Ennio (2). Qui, la cerniera tra Cristianesimo e Islamismo, tra arabismo e latinità, tra Europa e Africa, tra razionale ed irrazionale.
Nei secoli, l'arroganza dei dominatori: Japigi, Greci, Romani, Bizantini, Arabi, Veneziani, Normanni, Svevi, Angioini, Aragonesi, Spagnoli, Francesi. Come in Levi, "nessuno ha toccato questa terra se non come un conquistatore o un nemico o un visitatore distratto. Le stagioni scorrono sulla fatica contadina oggi come tremila anni prima di Cristo: nessun messaggio umano o divino si è rivolto a questa povertà refrattaria". E' un dato che accomuna il Salento a ogni "meridione": italiano, europeo, mondiale.
Sono passati i secoli e gli anni, dilavando la faccia degli uomini e le facciate delle cattedrali, sgretolando gli ultimi spazi territoriali, tutti vitali. il futuro è ancora una ipotesi (e non è più presente, in ogni caso); il passato una 'pax germanica', con i suoi esseri deboli e sconfitti, e la pietraia di una civiltà rasa al suolo.
Ma il destino ha voluto che fosse qui, nel Salento, e non altrove, il grande serbatoio della Storia e della Preistoria, e che qui si concentrassero, nelle viscere della terra, i primi segni, i primissimi passi dell'uomo darwiniano, o quelli, almeno, del suo diretto discendente.
Da Nord a Sud, dall'Adriatico allo Ionio, il Salento parla l'antica 'glossa' della prima notte e delle prime stelle, che ci hanno restituito, misteriosi e solitari, menhir, dolmen, specchie, "pietrefitte" di un'area archeologica, per questo, unica al mondo. Pietre che danzano con le ombre del sole, che velano il mistero della morte, che nascondono tesori fantastici, sanguinariamente cercati e mai trovati. Non rivelano alcuna verità: raccontano, come le streghe del Macbeth, una storia di nebbie e senza fili; un'intreccio approssimativo, appena abbozzato, condizionato, alla fine, dal disincanto dell'ignoto, in un imbarazzo poetico, quasi nerudiano: "Mi sentii infinitamente piccolo al centro di quell'ombelico di pietra, ombelico di un mondo disabitato, orgoglioso ed eminente, a cui in qualche modo 10 appartenevo. Sentii che le mie stesse mani avevano lavorato lì in un'epoca lontana, scavando solchi, levigando macigni, innalzando altari [ ... ] Avevo trovato tra quelle alture difficili, tra quelle rovine gloriose e disperse, una professione di fede per la continuazione del mio canto" (3).
Salento megalitico, con i suoi musei di pietra, e il suo sgomento neolitico, ancora sconosciuto vent'anni fa agli specialisti della "Piccola Guida della preistoria italiana" e al bassobretone "men", "hir", "dol", "men". Nel frattempo, più di sessanta menhir sono andati distrutti, e con essi un pezzo della nostra memoria: abbattuti perchè ritenuti inutili, sventrati dalle automobili, riutilizzati nelle costruzioni delle case, "ingabbiati" di notte, trasportati e venduti nel Nord o nei paesi freddi d'oltre frontiera.
Nessuno è mai intervenuto per frenare il massacro, nessuno ha mai ritrovato, nei giganti eroi di pietra, le tracce di una comune e solidale appartenenza.
Ma non solo pietrefitte. la lunga notte ha rivelato (e continua a rivelare) anche un rosario paganeggiante di grotte e di caverne che cicatrizzano antichi strappi, butterando il terreno e l'intestino cavo di una terra che si apre e si chiude a ventaglio sul mare, sprofondando per chilometri e affogando nel vuoto ancora inesplorato (4). Salento carsico, con i suoi corridoi sotterranei e i suoi santuari naturali di stalattiti e di stalagmiti che rapiscono la luce e la imprigionano nei chiaroscuri di delicate rocce e di umide pareti. La vita del Salento ha qui, e non altrove, né prima né dopo, le sue radici.
E' salentino, ancorchè paleolitico l'uomo dell'"amigdala" (5) trovata nel 1969 sulle colline in prossimità di Casarano, e del "chopper" (6) monofacciale di Matino, entrambi conservati nel Museo Civico di Paleontologia di Maglie. E' di un salentino, e per giunta neanderthaliano, il molare mandibolare destro rinvenuto nei pressi di Maglie, così come era del periodo magdaleniano la mano che graffiò, sulla parete nord della Grotta Romanelli (7), a Castro, lo splendido esemplare di "Bos primigenius", raggiunto e ucciso dalle zagaglie. E sono ancora di questo periodo, VII miliennio a. C., le Veneri di Parabita, figure intagliate nell'osso, e raffiguranti la donna prossima al parto, nel simbolismo della Grande Madre, la Genitrix Universalis pindariana "che ha dato l'alito della vita agli uomini e agli dèi".
E fu il Neolitico, nei millenni, e nel Salento. I cacciatori furono affiancati da pastori e da agricoltori; si raffinò l'arte e si perfezionò l'industria litica. Fu l'esplosione, in natura, delle grandi grotte sul mare, e della pittura rupestre.
Dalla Zinzulusa, dai "panni appesi" (8) scoperta alla fine del '700 da Francesco Del Duca, ultimo Vescovo di Castro (9), alla Grotta del Diavolo presso Santa Maria di Leuca. Dalle grotte gemelle dei laghi Alimini alla più sconcertante testimonianza dell'arte neolitica italiana e mondiale: la Grotta dei Cervi, a Porto Badisco. Scoperta casualmente da un gruppo di ricercatori dilettanti nel febbraio del 1970, la grotta di rivelò subito come "il più importante monumento sacrale della tarda preistoria, non paragonabile con qualsiasi altro sin qui conosciuto in Europa" (10). Quattro diramazioni sotterranee (ma molto resta ancora da riportare alla luce), reperti litici e in ceramica disseminati nei corridoi e negli anfratti, ma, soprattutto, pitture rupestri. Migliaia di pittogrammi, in rappresentazioni antropomorfe e zoomorfe, dipinti con ocra rossa, alcuni, con l'impiego di guano di pipistrello mineralizzato, gli altri. Dopo le cattedrali buie di Lascaux, in Francia, e di Altamira, nella regione cantabrica del Pirenei, l'affresco naturalistico e sacrale del neolitico otrantino. Una teoria ininterrotta, in rapida progressione, di uomini con l'arco, di animali, di scene di caccia, di cani e di cervi, di stregoni, di "arabeschi" a mosaico, di capridi e di cinghiali, di organi della fecondità, di criptogrammi misteriosi che catturano e trasformano i segni del tempo e dello spazio.
Tutto si confonde, e si riappacifica, sotto la grande volta. Riti e simboli, religione e magia. Passato e presente.
Salento neolitico, con l'unica grande cultura che non abbia conosciuto conquistatori o dispensatori di civiltà distratti e frettolosi. Nella pietra, e sotto la pietra, la terra parla esclusivamente l'unica intelligibile lingua di questo estremo racconto orientale. Che ricorda il fortunoso approdo del mitico Enea, la venerea rupe della bianca Leuca, il suicidio della vergine Cesarea, l'amore arabo del sole con la luna, su un letto di stelle fredde... D'allora, sono passati gli uomini e gli anni, le idee e le religioni. Di quel passato, che tutto riconduceva all'"ens" indivisibile e portentoso e alla coerenza concettuale, rimangono timidi segni nella sibaritica immobilità dei Musei Provinciali. Che sono "les prisons de l'art" (11), soprattutto quando inghiottono, in cantine e depositi, le nuove grotte, i materiali e i reperti di quella cultura, e di ogni età. Centinaia di migliaia di pezzi, parcheggiati soprattutto a Taranto, che vivono una seconda vita, umida e indocumentata, in attesa di essere riscoperti. Sono, alla fine, brandelli della nostra memoria che non ritorneranno più nel Salento. Saranno sbalestrati, nelle fughe organizzate, in tutta l'Italia e all'estero. Quanti vasi della Grotta dei Cervi, salentina, abbelliscono le sale del Museo di Basilea? Quante collezioni private di fregiano della cultura meridionale?
E mentre continua, collaudato, il gioco al massacro, divampano sterili polemiche. Si era parlato, nel novembre dello scorso anno, del degrado ambientale delle Grotte di Porto Badisco. Le pitture si deteriorano, l'azione indocile del tempo non conosce il sabato e i pittogrammi sbiadiscono, perdono il colore del ricordo. Il problema non è questo. I dipinti sono destinati a morte per una ragione interna, quasi "fisica", alle stesse cose: variazioni climatiche all'interno della stesso grotta, tassi di umidificazione e di ventilazione alterati già nel momento stesso della scoperta, con le prime correnti d'aria "pulita" provenienti dall'esterno, vapore acqueo e bombardamento di luci durante le fasi di scavo e di studio. Non si può salvare una grotta che sta morendo.
Lascaux è stata chiusa al pubblico, che può ammirarne le decorazioni in una grotta artificiale, costruita a ridosso di quella originale. Altamira consente la visita a non più di mille persone, nell'arco di quindici giorni, per evitare che la temperatura superi i 14 gradi, ma è destinata a divenire, in breve tempo, un museo "chiuso", e sarà il canto del cigno dell'arte preistorica.
Badisco può essere solo chiusa, così come lo è già da tre anni, e restituita alla sua cieca memoria.
Ma il problema, dicevo, non è questo. Non sono i Musei, non sono le cieche Sovrintendenze, non sono, paradossalmente, le polemiche pilotate e strumentali.
E' un problema di riassetto ambientale e artistico dell'intero territorio. Osservava giustamente Luciano Milo: "Poi il mito del sole, del mare, della villeggiatura ha fatto sorgere intere città, morte per gran parte dell'anno, invadendo con architetture pseudo-mediterranee, pseudo-moresche o addirittura con baite pseudo-alpine tante nostre coste" (12), e proponeva la gestione diretta da parte dei cittadini del patrimonio artistico e culturale del Salento. Senza la mediazione di Musei e Sovrintendenze. Non è sufficiente. Perchè, oltre a questo, non disporre l'imposizione di vincolo ambientale su tutto il Salento (nell'agosto '84, nella Marsica, sono stati posti sotto tutela, con questo procedimento, 630 Km di territorio, ai margini del Parco Nazionale), facendo degli attuali quattordici siti archeologici (13) un'unica area di lavoro e di "conservazione" in loco, protetta dalla legge? E ancora: perchè non dotare ogni Comune di un deposito archeologico aperto al pubblico, evitando il vagabondaggio delle opere da una città all'altra? Infine: perchè non istituire un unico, grande Parco, o riserva naturale, che comprenda l'intera provincia di Lecce? I beni da tutelare non mancano: menhir, dolmen, torri colombaie, grotte, castelli.... E poi la fauna, e poi ancora il patrimonio paesaggistico.
Il Salento è uno dei serbatoi archeologici e artistici più importanti ed imponenti del mondo. E molto ancora rimane nascosto sotto la crosta e sotto la pietra.
La nostra tazza, oggi, è ancora intatta, e piena d'acqua. Una letteratura folcloristica, e deteriore, ha stigmatizzato, di questa terra, per secoli, gli ulivi, il mare e la fatica dei contadini. Troppo poco per chi ha conosciuto la storia e la preistoria, nei formidabili templi della natura e dell'uomo. Troppo poco per chi è stato partorito dall'apostolico ventre delle Veneri salentine.
Passeranno ancora gli anni, gli uomini, e le cose. Ma la Grande Madre, dalle viscere fumanti, resterà qui, in questa terra antica, dolcemente arcigna, che chiameranno Salento.


NOTE
1) Demografia e fissione nucleare, in R. Aron, Trois essais sur l'âge industriel, Paris, 1966, p. 237. Più radicale, la Storia del mondo in epitome di Bertrand Russell: "Dal giorno che Adamo ed Eva mangiarono la mela, l'uomo non si è mai astenuto da ogni follia di cui fosse capace". Segue una fotografia del fungo atomico, poi, su una pagina bianca, la parola "Fine". Il terrore millenaristico della catastrofe è anche una scienza, oggi: "Doomw - riting", rovinografia.
2) Gellio, 17, 17, 1: "Q. Ennius tria corda habere sese dicebat, quod loqui graece et osce et latine sciret".
3) Pablo Neruda, Confieso que he vividi, Memorias, p. 209.
4) Più di 60 grotte, variamente disseminate sulla costa e nell'entroterra: Poesia Grande, Sacara, Marisa, Mammino, dei Cervi, dei Diavoli, I. Spagnolo, Gattula, Santa Cesarea, Sulfurea, C. Cosma, Madonna della Serra, di Poggiardo, di Monteroni, Cardamone, Striare, Romanelli, Zinzulusa, Palummara, Giustino, degli Angeli, dell'Acquaviva, Verde, Madonna della Grotta, Matrona, della Madonna, Cipolliane, delle Prazziche, dei Passeri, Grande del Ciolo, Galateggiu, li Giardini, dei libri, le Due Pietre, Sciuncacchia, delle Vore, Guardosecchia, di Porrano, Terradico, Cazzafri, del Diavolo, del Fiume, Tre Porte, dei Giganti, del Drago, delle Fate, Madonna della Ruta, del Crocefisso, Focone, Occhi Chiusi, S. di Mattina, delle Veneri, S. Mauro, del Passero, del Fico, del Presepe, di Santa Caterina, di Uluzzu, S. Isidoro, di Porto Cesareo, di Castiglione. Meno estese delle prime, ma di identico valore archeologico e paletnologico, le caverne: dello Speziale, delle Streghe, di Torre dell'Orso, dell'Acquadolce, del Pepe, Mbruficu, Mafaro, Santo Stefano, Monaca, Bagno Marina, Rutunna, di Torre Suda, Rizzello, di C. Cosma, del Cavallo.
5) (dal greco amygdàlé, mandorla). Utensile o arma preistorica di pietra, generalmente rappresentata da ovuli di selce scheggiata su entrambe le facce, a forma di grossa mandorla.
6) Rozzo ciottolo monofacciale. Rappresenta il primo tentativo, seppur grossolano, di industria litica.
7) Fu la prima stazione archeologica italiana a fornire documentazione dell'arte paleolitica, la nona in Europa, ponendo fine, tra l'altro, alla convinzione degli scienziati che il Salento potesse offrire solo materiali e testimonianze del Neolitico. La Grotta, infatti, risulta essere stata abitata 65.000 anni fa, prima dei Neanderthaliani (Paleolitico medio) e poi da genti Cro-magnonoidi (Paleolitico superiore).
8) Fu chiamata Zinzulusa "per gli zinzuli, cioè i brindelli, i brendoli, i panneggiatori stalattitici che, come panni appesi, si offrivano all'occhio del visitatore". (T. Pellegrino, La Zinzulusa, Laterza, Bari 1951, p. 8).
9) Biblioteca Provinciale di Lecce, Sezione Manoscritti, n. 11.
10 ) Così P. Graziosi, al "XIV Congresso Internazionale di Storia e Protostoria".
11) Biblioteca Provinciale di Lecce, Epistolario Degiorgiano, Vol. 164, pp. 41-44.
12) Luciano Milo, Rassegna Trimestrale Banca Agricola Popolare di Matino e Lecce n. 2, giugno 1982, p. 108.
13) Cavallino, Rudiae, Lupiae, Soleto, Nardò, Roca Vecchia, Otranto, Vaste, Vereto, Ugento, Castro, Alezio, Muro Leccese, Torre San Giovanni.


Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000