§ LA VIA DELLA LIBERTA'

MONUMENTO AL GABBIANO




Italo Mancini



San Benedetto del Tronto decide un monumento al gabbiano. C'è la dichiarata memoria del gabbiano Jonathan di Richard Bach, il best-seller di anni non lontani, ancora molto letto tra i giovani. Ipotizzando un discorso inaugurale per quello che per ora è soltanto un progetto di Mario lupo, stenderei una prosa con questo titolo: Il gabbiano Jonathan e la sua logica incompiuta. Per sottotitolo, metterei: perchè i gabbiani fuggono dai nostri mari? E direi così.
Per rendere chiaro questo titolo e per essere schietto fin dall'inizio indicherò subito la mappa di questo intervento attraverso l'indicazione dei temi che intendo svolgere e ringrazio il monumento dei Sambenedettesi di avermi fatto riflettere e di avermi spinto a parlare su un tema che abito su monti abbastanza lontani da quelli a me, filosofo, che maneggio concetti e non metafore o simboli, quotidianamente abituali. Non avrei mai pensato che, nella mia vita speculativa e di incontro con la gente, avrei dovuto un giorno occuparmi di gabbiani. Ma la linea suggestiva del monumento e l'arco di questo mare che mi ha visto leggere e scrivere non poche volte nelle solitudini soddisfatte sotto la fidata protezione delle palme, come mi è capitato in tante altre spiagge del sud, soprattutto nella terra del Salento, che è anche terra mia; e soprattutto il bel libro di Richard Bach, che ha ormai tre lustri sulle spalle, e si presenta tuttora pulito e utile come un frutto di cielo e di mare nello strano connubio tra la maestria del pilota e quella della gente di mare, non solo umano ma anche animale, e che nel suo genere letterario di parabola o simbolo o allegoria dice molto di più della fragile favolella che gli fa da pretesto. C'è anche da aggiungere che domenica 12 febbraio di quest'anno il "Corriere della Sera" ci offriva il ghiotto elzeviro dell'amico Paolo Volponi dal titolo Cosa insegnano questi gabbiani?, che non può solo servire a "salvare il territorio di Urbino", com'è detto ancora nel titolo, ma ogni territorio, soprattutto di costa e di mare, soprattutto delle coste e dei mari abbracciati dallo Ionio. Proprio con l'interrogativo di Paolo Volponi fisseremo, prima di chiudere, la nostra inquietudine, non solo ecologica, ma anche pacificamente umana e nel segno di una fraternità senza terrore, contro il troppo scialo di morte che ha lambito queste nostre terre.
La mappa, dunque, del nostro intervento è disegnata da questi interrogativi: primo, la morale imperfetta del gabbiano Jonathan; secondo, luci e ombre della morale del "branco"; e questa ghettizzazione del "branco" rappresenta, secondo me, il limite di questa avventura drammatica, per definizione solitaria, come chiarirò più avanti; e già la parola "branco" indica provocatoriamente una logica della esclusione degli altri dall'avventura redentiva, e indica l'esecuzione solitaria dell'ascesa, e comporta una sterilità assiologica nei confronti delle normali attività delle opere e dei giorni dell'uomo: l'ideale della sola libertà non è il tutto della liberazione, come la può intendere un cristiano, e anche un marxista; sembra troppo "americano", questo riassunto dell'impegno nella sola libertà. La fraternità senza terrore, l'ideale neogiacobino dell'estremo Sartre mi pare più completo. Terzo, perchè i gabbiani fuggono dalle coste, perchè i nostri mari sono diventati a loro invivibili, quale squartomento della storia e quale manipolazione della natura sta alle spalle di questo inaudito divorzio tra il gabbiano e il mare, tra l'uomo e la sua città?
La morale, del gabbiano Jonathan, dunque. Il suo destino straordinario era già nel nome. I gabbiani normali non hanno il nome biblico di Gionata. Questa incarnazione dell'amicizia leale, che permette di guardare in faccia l'altro senza paura, è stata rappresentata anche da Vittorio Alfieri nella sua tragedia a soggetto biblico, il Saul, con lo scopo di alleggerire il mondo tragico che si stringeva dannosamente nella maledetto e perduta esistenza del re d'Israele. Il primo dato, infatti, che possiamo annotare nella vicenda del gabbiano di Richard Bach èproprio la portata biblica.
E fa cenno in due direzioni. Dapprima nella direzione di una angelizzazione dell'uomo, secondo temi che, in modo indipendente, le correnti recenti del Nouveaux Philosophes hanno promosso e hanno riassunto nell'invocazione Que l'ange vienne!: e venga a districare l'uomo da una corporeità greve e soggetto alla legge della violenza dell'immediato che la sua plètora delle informazioni ci frantuma in ogni modo, decostruendoci nel nòcciolo più indispensabile della nostra realtà, quell'io personale e sussistente, che è la radice della libertà e della responsabilità, proprio nel senso del termine, rispondere di (quanto si fa, si dice, si pensa, che non può essere ridotto a irrazionali pulsioni dell'inconscio) e rispondere a (quei segni dei tempi e chiamate provvidenziali, il cui acre bisogno sembra appuntarsi ora soprattutto nel rifiuto di un rifugio nel privato e nella immediatezza di un corpo senza organi, fatto tutto e solo senso, ritrovando insieme la dignità del servizio nell'autorità e nella vita pubblica e politica). Il gabbiano Jonathan fa cenno nel senso dell'angelo non solo trasfigurandosi in essenza, in idea, in ideale (nel senso kantiano dell'idea fatta individuo), ma anche nel senso di risoluzione della vita del pensiero nella spiritualità, nella franchigia dalle barriere soprattutto spaziali, anche se la verticalizzazione sembra risultare eccessiva. Nel momento in cui la teologia, anche cattolica sembra aver svenduto l'angelo, ecco che il gabbiano ce lo ripropone, casi come lo riproponeva, con più alta intenzione filosofica e teologica, quello che può essere considerato la punta di diamante della rinascente cultura neoebraica, parlo di Walter Benjamin e del suo complesso motivo dell'angelus novus, che non può essere trattato qui, ma solo accennato.
La seconda direzione verso cui fa cenno la biblicità del gabbiano è quella verso l'alto, verso il regno, molto indicativa ora che il mondo, da qualche secolo, sembra non essere altro che una repubblica, e l'alto viene inteso come forma di classismo ontologico, si che lassù sarebbero gli enti soddisfatti, imperituri, al riparo e noi si starebbe qui destinati all'insignificanza, al dolore e alla morte. La biblicità del gabbiano fa cenno inoltre nel ritrovamento del padre esemplare e proteggente, e anche questo è importante, vista la rimozione psicanalitica verso il padre e la cancellazione di ogni residuo di identità, teologica ontologica e morale, che si riflette anche nel tema della deterritorializzazione, parola dell'ultimo Nietzsche per indicare il primo passo nella via del pensiero negativo e che significa la recisione anche della forma più umile di radice e di legame con la solidità spaziale, quella della famiglia, della città, delle proprie tradizioni, fino al raggiungimento di quell'idea proposta ancora da Nietzsche nella Genealogia della morale, che è la soppressione della memoria, soprattutto quella morale e della colpevolezza, onde la cifra suprema del suo superuomo che è l'innocenza del divenire e la soppressione di ogni forma di pena, un vero e proprio negativismo penale.
Infine, la biblicità del gabbiano Jonathan fa cenno, se non spaventa la parola, verso una escatologia della storia e della vita, dove c'è un fine, uno scopo, un'andare verso traguardi che vengono coperti dalla parola classica in questo campo, quella di paradiso, che non è utopia, ma frutto della dialettica di moralità e felicità, nel cui vincolo sta, secondo Kant, la pienezza morale che fa centro nel sommo bene. Quanto è lontano tutto questo da una concezione ripetitiva e ciclica del mondo, "che si nutre dei suoi escrementi", in preda allo "spreco di forze" e all'"usura dell'invano", secondo modelli nietzschiani che vengono riproposti anche dalla Nouvelle Droite.
La favolella del gabbiano Jonathan diventa istruttiva, anzi maxime pro nobis, nel suo stesso sviluppo, che non solo è ternario, ma indica anche tre aspetti classici della vita e della storia intesi non come cicli uguali a quelli dell'atomo, del cane e della scimmia, ma come un itinerario di libertà e di liberazione. Anche Jonathan sta nell'inferno della logica del branco, con la sua vita inautentica rivolta al satollarsi e alla chiacchera, senza progetti e senza svuotamenti, che accompagnano sempre, in senso ascetico e in senso politico, la vita dei rivoluzionari: sta nel purgatorio delle Scogliere Remote, a purgarsi della corporeità greve, a istruirsi nel volo senza peso, a raggiungere l'identità con il pensiero e con l'anima; e sta nella pienezza paradisiaca, quando lascia non solo il branco, ma anche i compagni di perfezione, e torna al "Gabbiano padre", nell'altissimo del cielo, dove starà eternamente nella vita angelicata.
La vita del gabbiano diventa, alfine, istruttiva per la tragicità della vita che gli è imposta a motivo di queste scelte. Tragedia qui io l'intendo secondo il saggio di György Lukacs del 1910 e intitolato appunto Metafisica della tragedia. Metterò in risalto solo due punti. Il primo. L'uomo è tragico quando si trova di fronte a Dio, ha solo Dio come spettatore. Lucien Goldmann, nelle sue analisi sul pensiero tragico di Pascal e di Racine, ricorda questo brano di lettera di Mère Angelique che va nel senso di Lukács. Dice Mère Angelique scrivendo al fratello Arnauld d'Antilly il 9 gennaio 1623: "Il buon Monsignore di Nantes mi ha insegnato una sentenza di Sant'Agostino che mi arreca grande consolazione: Che è troppo ambizioso colui al quale gli occhi di Dio spettatore non bastano". Brano che può essere commentato con le parole iniziali del testo di Lukács: "il dramma è un gioco; un gioco tra l'uomo e il destino; un gioco dove Dio è spettatore". La tragedia sta nel fatto che in questo esclusivo rapporto con l'eterno e con l'essenziale l'uomo viene sottratto alle cure e alle faccende del mondo; vien fatto ruotare intorno a ciò che è essenziale e non può essere sottratto a questa domanda cruciale: "può ancora vivere colui sul quale si è posato lo sguardo di Dio?". Come dire: chi ha bevuto alla fontana dell'eterno, può ancora bere alle fontane del mondo? E se Dio diventa così altissimus, e l'uomo così solitario, il servo non "rimane a bocca asciutta", e Dio non finisce per essere daltonico, incurante del colore della pelle umana, che tanto scatta quando è nera nelle strade di Harlem e nelle terre del Sud Africa?
L'altro tratto della tragicità in sé e nel nostro gabbiano è ancora la solitudine, che sarà soddisfatta in senso psicologico, ma non può esserlo in senso assiologico, di fronte agli altri. Dice ancora Lukács parlando dell'essenza del tragico: "Nude anime dialogano solitarie con nudi destini". Non hanno amici, non entrano in gruppi, hanno solo compagni di viaggio. La socialità va in crisi. La rottura con il normale avvia a una diversità che ha avuto, come per Sade, come per Nietzsche, per esito o la follia o il "gesto eroico" del suicidio (Cioran). Quello che mi fa paura nel gabbiano Jonathan è questa sua solitaria tragicità. Anche per lui vale quello che annota Lukács: "la tragedia ha una sola dimensione: quella dell'altezza". Unidimensionalità (Marcuse) quasi cerebrale che va corretta con l'amore, sia quello di servizio (diacronia) sia quello della partecipazione (coinonia). il cristianesimo pone questa logica del servizio e della partecipazione come momenti inprescindibili o, come si direbbe oggi, caratterizzanti, della conoscenza di Dio, che non è mai un fatto cosmologico, ma sempre morale e si santità (la lezione di Kant). Il taglio elitario, in definitiva borghese, del gabbiano di Richard Bach presenta solo una faccia della luna, un certo perfettismo sdegnoso della morale del "branco", o, per meglio dire, di quella ragione media e comune, che fu il vanto della cultura illuministica, di Rousseau e Kant, il primo quando parla del "cuore" e il secondo quando valorizza l'organo della conoscenza nel campo pratico della morale e della religione. Anche per la stessa ragion pura egli cerca l'accordo con la ragione comune e, per il tema di Dio, il consenso della gente. Va recuperata, pertanto, anche l'altra faccia della luna. La lezione di Bonhoeffer, punta di diamante della resistenza tedesca, impiccato dalla furia nazista dopo una sola notte di sommario processo, nelle ore antelucane del 7 aprile 1945, a qualche giorno dalla fine della guerra, è perentoria su questo punto. Dopo aver detto che astratta è la posizione di un Dio in sé, vede l'"arrovesciamento" di questa astrazione nel tema di Cristo, che è Dio in forma umana, e ne risolve il senso nel tremendo tema dell'esistere-per-gli-altri. Qui sta, per me, il compimento della morale del gabbiano. Nell'esistere per gli altri, prendere su di sé le miserie i limiti i misfatti di tutti: attuare quella logica della sostituzione, che è un nonsenso per la coscienza normale e per la morale naturale e invece sta al centro del paradosso cristiano.
Quando scoppiò l'ultimo conflitto, Bonhoeffer nel settembre 1939 era al riparo in America per un corso di perfezionamento; prese subito la prima nave, tornò in Germania, e si inserì in mezzo al suo popolo per viverne insieme la vergogna e la sconfitta. Fu lui a dire: "chi non urla per gli Ebrei, non può cantare il gregoriano". Nel carme La morte di Mosé, bello come un salmo antico, l'ultima strofe dice questa verità nel seguente modo:

Tu che punisci i peccati e perdoni volentieri,
Dio, questo popolo io l'ho amato.
Aver portato la sua vergogna e i suoi vizi
e aver scorto la sua salvezza: questo mi basta.
Reggimi, prendimi! Il mio bastone s'incurva,
preparami la tomba, o Dio fedele.

Gli occhi del gabbiano di Richard Bach sono occhi di gatto che vedono nella notte e traverso le durezze opache; sono occhi desiderabili, dilatano la coscienza; e possono essere invocati. Ma bastano per vedere quello che ha visto Tolstoj nei dormitori pubblici della Mosca fine Ottocento e che ha descritto con l'arte potente che fu sua nel Che fare? Bastano questi occhi per vedere la perversa litania degli zar come fu vista da Tolstoj in pagine del suo Cadzi-Muràt e che egli stesso ha soppresso tanto gli parevano spietate? Bastano questi occhi per vedere quello che sempre Tolstoj vide dopo un grande ballo in una notte festosa (Dopo il ballo, 1903): "la cosa che veniva avvicinandosi era un uomo denudato fino alla cintura, legato ai fucili di due soldati che lo trascinavano [ ... ]. Torcendosi con tutto il corpo, tonfando coi piedi tra la neve sciolta, il punito, sotto i colpi che da un lato e dall'altro gli grandinavano addosso, s'avanzava [ ... ]. A ogni colpo, il punito, in una specie di stupore, girava, aggrinzato dal dolore, la faccia verso quel lato, da cui era venuto il colpo: e, digrignando i denti bianchi, ripeteva sempre una frase, sempre la stessa. Soltanto quando mi fu vicinissimo, io distinsi quella parole. Non diceva, ma singhiozzava: "Fratelli, abbiate pietà. Fratelli, abbiate pietà". Ma i fratelli non avevano pietà: e quando il gruppo degli avanzanti fu arrivato ormai al mio livello, potei vedere con che risolutezza il soldato che mi stava di fronte uscì d'un passo dalla fila, e, facendo fischiare in aria la verga, di tutta forza picchiò sulla schiena del tartaro [ ... ]. Quando il gruppo ebbe oltrepassato il punto dove io mi trovavo, m'apparve in un lampo, tra le due file, la schiena del castigato. Era una cosa totalmente chiazzata, umida, rossa, innaturale, da sembrarmi impossibile che quello fosse un corpo umano".
Bastano forse - e ho finito su questo punto - gli occhi del gabbiano e il suo perfettismo elitario per vedere la verità di altre cose scritte sempre da Lev Tolstoj nel racconto incompiuto, degli ultimi mesi di vita, e intitolato Non ci sono colpevoli a questo mondo: "fra questa gente schiacciata, ingannata, che fu depredata del suo, e via via ne vien depredata, via via vien corrotta, via via, lentamente, vien uccisa dall'insufficienza del cibo e dall'eccesso del lavoro; fra questa gente, mischiati a essa a ogni passo, con la loro vita oziosa, vergognosa, direttamente, sfacciatamente approfittando dell'eccessiva, abbrutente fatica di questi schiavi (e non sto a parlare delle fatiche di quei milioni di schiavi dell'industria, del cui abbrutente lavoro: samovar, argenterie, carrozze da diporto, macchine, ecc. ecc., essi vengono ad approfittare); fra questa gente vivono tranquilli degli individui, i quali credono, gli uni, di essere cristiani, gli altri talmente evoluti, da non aver più bisogno del cristianesimo o di qualsivoglia altra religione, tanto superiori si reputano a queste cose. E vivono, costoro, frammezzo a simili orrori, e non s'accorgono, e tranquillamente trascorrono così i loro anni, persone spesso di buon cuore, vecchi, vecchie, giovanotti, madri, bambini: infelici bambini, pervertiti via via, preparati via via a diventare moralmente ciechi".
Che questi siano i temi del libro di Richard Bach e che tutto questo sia nella precomprensione di coloro che hanno pensato e creato il monumento al gabbiano, nella logica compiuta del circolo entro cui è scritto il monumento, logica che lega insonnemente l'ascesa del solitario allo spasimo dell'ascensione di tutti, perchè qui il gruppo non è manicheisticamente dannato all'appiattimento dell'inerte bassura, ma risulta abitatore della "fertile bassura" (Kant) che non perde di vista la differenza qualitativa del solitario dominato dalla logica del verticale; che questi, ripeto, siano i temi del libro che è stato detto il best-seller del secolo e che ogni mio alunno, interrogato, ha detto di avere letto, e lo ha detto sempre sorridendo, come ricordando un dilettoso gioco, basterà poco a provarlo attraverso analisi esegetiche, che vorrei ora proporre attraverso spunti rapidi, che servano a confermare quanto è fin qui risultato nell'interpretazione. In parte questa logica comunitaria vive nello stesso libro di Richard Bach, come sembra attestare l'epigrafe stessa dell'opera che viene dedicata "al vero gabbiano che vive nel profondo di tutti noi"; ecco, proprio tutti. Nessuno escluso, nessuno eccettuato, nessuno a priori dannato, magari per una divisione scellerata tra uomini e no, per effetto di ideologie diverse, mentre tutte le ideologie possono avere affinità con la verità assoluta, almeno nel senso dei due princìpi della Pacem in terris giovannea di vent'anni fa, il principio della distinzione tra errore e errante, che è sempre di più e meglio del suo errore, e il principio della bonificazione storica e politica di ideologie nate male e che la storia può levigare e talora correggere.
Importante è nella prima parte del libro e poi un po' dovunque il richiamo dall'acre disciplina, allo sforzo reiterato, a una specie di valorizzazione dei talenti, che il pilota scrittore Richard Bach conosceva sulla propria pelle. Oggi sono di moda i filosofi "irregolari" che hanno interrotto il discorso da sempre fatto in Occidente, hanno messo in crisi la via dell'unità, da sempre il valore agognato della speculazione, radicando un primato della diversità e della differenza che, frantumando tutto, Dio essere morale, sta producendo un vero masochismo logico attraverso un pensiero che dilania se stesso senza nessuna pietà e senza nessuna verità, mettendo il macchinico con i suoi simboli bestiari e botanici delle formiche e del rizoma (ne ho parlato a lungo nel mio libro Il pensiero negativo e la nuova destra, Mondadori, Milano, 1983) al posto di ciò che è Uno nella divinità, nell'essere e soprattutto nella responsabilità morale. Dietrich Bonhoeffer ha messo la disciplina nella prima delle Stazioni sulla via della libertà. E dice:

Se parti alla ricerca della libertà, impara anzitutto
disciplina dei sensi e dell'animo, affinchè i desideri
e le membra non ti portino a caso qua e là.
Casto sia lo spirito e il corpo, sottomessi
e obbedienti nel cercare la mèta assegnata.
Nessuno penetra il mistero della libertà, se non con disciplina.

La via della libertà è anche quella del gabbiano Jonathan. Non avrebbe accettato le spericolate discese dall'alto fino a superare le barriere del suono, non avrebbe accettato il duro esilio alle Remote Scogliere, se non ci fosse stato questo premio della libertà. Libertà come liberazione dal materialismo crasso dello Stormo. èdetto dei pensieri di Jonathan: "quando lo sapranno, quando sapranno delle Nuove Prospettive da me aperte, impazziranno di gioia. D'ora in poi vivere sarà più vario e interessante. Altro che far la spola tutto il giorno, altro che la monotonia dei tran-tran quotidiano sulla scia dei battelli da pesca! Noi avremo una nuova ragione di vita. Ci solleveremo dalle tenebre dell'ignoranza, ci accorgeremo di essere creature di grande intelligenza e abilità. Saremo liberi! Impareremo a volare!".
Avere uno scopo più alto per l'esistenza, è certo un dovere, ma quello di Jonathan rasenta un perfettismo che non è di questo mondo, quasi roussoianamente vagheggiato in una dimensione paradisiaca, che in realtà è perduta nell'attuale fase dell'uomo storico, che i teologi chiamano homo viator.
"Per ciascuno di loro (e si tratta dei gabbiani compagni di purificazioni nelle Remote Scogliere), la cosa più importante della vita era tendere alla perfezione" la perfezione del gabbiano, il volo.
E si chiarisce: "il paradiso non è mica un luogo. Non si trova nello spazio e neanche nel tempo. Il paradiso è essere perfetti". E ancora: "Jonathan doveva smettere di considerare se stesso prigioniero di un corpo limitato, un corpo avente un'apertura d'ali di centodieci centimetri e i cui itinerari potevano essere tracciati su una carta nautica. Il segreto [dei gabbiani diversi da cui Jonathan veniva iniziato] consisteva nel sapere che la sua vera natura viveva, perfetta come un numero non scritto, contemporaneamente dappertutto, nello spazio e nel tempo". Alla fine, e in conclusione, Jonathan "ormai sapeva bene di non essere in carne e ossa e penne, ma un'idea senza limiti nè limitazioni, una perfetta idea di libertà. Si noti come in ognuno di questi testi citati cada la parola perfetto: qui sta l'ideale dell'angelizzazione e questo mi pare un limite per la guida di quell'uomo che mangia beve e veste panni e che è più difficile sfamare che salvare, secondo un'espressione volutamente irriverente di Ernest Bloch.
Che ricorda pure lui un brano di lettera di Hegel (30 agosto 1807) dove questi afferma di aver posto come sua "stella polare" il detto biblico "cercate dapprima nutrimento e vestiario, il regno di Dio vi toccherà in sorte". A dire il vero il testo di Matteo 6,33 dice giusto l'opposto: "cercate anzitutto il regno di Dio e la sua giustizia, e il resto vi sarà dato in sovrappiù". Ma l'andatura globale del Vangelo tiene conto anche dell'aspetto hegeliano, se è vero che saremo giudicati per il pane e per l'acqua, per il vestito e per le carceri, per le malattie, ecc. Su queste cose sarà impostato l'ultimo e decisivo giudizio (Matt. 25, 31-46). Cristo si identifica con ogni affamato (esurivi), con ogni assetato (sitivi), con ogni denudato (nudus), con ogni pellegrino (hospes eram), con ogni malato (infirmus), con ogni carcerato (in carcere eram). Come le virtù cardinali, così le opere di misericordia corporale non debbono essere svendute su un malinteso altare soprannaturalistico: eppure sono scomparse dai catechismi e la gente ne ignora anche il nome.
Ma la questione più grave e che il libro affronta nelle ultime pagine è quella della intersoggettività, o della comunità, o dello stare con la realtà crassa dello stormo. Il gabbiano puro e perfetto non è solo quell'idea di libertà che non soddisfa, èanche amore. Jonathan torna allo stormo, ma in fondo quest'ultima fatica fallisce (pauci sunt electi). Lui e i suoi vengono demonizzati. E la cosa capitò anche a Cristo. Mi pare decisivo questo dialogo tra Flechter, un gabbiano della sua scuola, e lo stesso Jonathan, maestro più perfetto. Dice Flechter: "Ti ricordi che una volta mi dicesti, tu, Jonathan, che bisogna voler bene allo stormo, perdonarli, tornare tra loro, e aiutarli a capire, a imparare?". "Certo". "Ma, dì un po', come fai ad amare una tale marmaglia di uccelli che ha tentato addirittura di ammazzarti?". "Oh, Flecht, non è mica per questo che li ami. E' chiaro che non ami la cattiveria e l'odio, questo no. Ma bisogna esercitarsi a discernere il vero gabbiano, a vedere la bontà che c'è in ognuno, e aiutarli a scoprirla da se stessi, in se stessi. E' questo che io intendo per amore. E ci provi anche gusto, una volta afferrato lo spirito del gioco".
Ma il tratto finale, quasi messianico, indica che il discorso verte su un essere che non è più di questo mondo. Intanto è proclamato come "l'unico Figlio del Grande Gabbiano", scompare in alto dentro un alone diafano e "come lingua di fuoco" e lascia, prima di ascendere definitivamente, questo suo messaggio, che dice la totale trasfigurazione. "Innanzi tutto, vi dovete render conto che un gabbiano è fatto a immagine del Grande Gabbiano, è un'infinita idea di libertà, senza limite alcuno, e il vostro corpo, da una punta dell'ala a quell'altra, altro non è che un grumo di pensiero". Sembra più la greca immortalità dell'anima che la cristiana resurrezione dei corpi. Ma di questo basta, perchè potrebbe innescare un vero e proprio discorso teologico.
Torniamo, invece, al messaggio dei gabbiani, stavolta non quello di Richard Bach, ma quello più inquietante di Paolo Volponi. Da loro infatti e dal loro fuggire le coste e cercare nuove aree stanziali viene l'interrogativo dell'età che è nostra, dell'età che stiamo scontando oltre che vivendo. Mi sia permesso introdurre la questione con un ricordo personale. Quando traversai, un paio d'anni fa, la lunga assolata piana di Catania ascendendo su verso le fertili terre delle provincia iblea, ora provata dagli ordigni di morte a Comiso, fui colpito dallo spettacolo di branchi e branchi di bianchi volatili che gremivano gli infiniti mucchi di rifiuti e di calcinacci disseminati tra il falasco e le sècce. Mi fu detto che quegli uccelli erano gabbiani. Così lontani dal mare, così spaesati in quello squallido suolo di immondizie.
Analogo è il caso raccontato da Paolo Volponi. Nella seconda domenica di quest'anno chi si fosse trovato a passare fra le mura esterne della nostra città di Urbino avrebbe rischiato di essere travolto "da immensi branchi di piccioni che turbinavano in ogni senso e quota, scontrandosi tra loro eppure riuscendo a trapassare l'una massa l'altra secondo la propria furia". Questi branchi di piccioni, usciti dai loro luoghi consueti, che sono le calde piazze e gli ardenti tetti attorno al Palazzo Ducale, sembravano, nelle loro folli movenze, quasi preda di uno specie di presentimento di un cataclisma, di un grande turbamento ambientale, se non addirittura di un terremoto. "Solamente (e cito alla lettera) alcuni cittadini sapevano spiegare con precisione e con densità quale fosse il motivo di quella generale follia di piccioni. Poco più di un'ora prima era improvvisamente apparso sopra tutta la città, uno stormo compatto di gabbiani di mare; risalito alto e dritto esattamente dalla vallata più scoperta verso la marina. Avevano navigato in quel modo che è tipico del loro volo, con larghe vogate, sopra la città dirigendosi scopertamente in avanti verso ovest [ ... ]. Novità assoluta, questa dei gabbiani. Evento storico, segno di mutamenti e di ignote fatalità e anche di malattie I piccioni ne erano rimasti sopraffatti e sgomenti. Avevano cominciato a tremare, a svolazzare tra loro e poi a unirsi dentro un volo forsennato che sembrava impossibile [ ... ]. Vuoi dire che i gabbiani non trovano più niente da mangiare nel mare e luogo le coste. Non c'è più pesce e tutta la marina è sconvolta e continuamente indagata. Ma cosa possono trovare nell'entroterra? Non ci sono fiumi nè stagni e nemmeno grandi depositi di detriti. Che anche loro siano costretti a cercare tra le immondizie e gli scarichi?". Quest'ultime sono voci di cittadini, abituati alla piazza, che Paolo Volponi è solito ascoltare, e molto fedelmente amore.
Con non poca malizia Paolo Volponi chiede lumi alla Università per la spiegazione di questo fenomeno. Ma non si fida e chiude l'elzeviro con una domanda, con cui io stesso chiudo il mio immaginato discorso: "Allora chi ci salverà, la scienza o la storia?". Forse nè la scienza nè la storia, ma la fiducia in quell'hominem integrum (formula di Paolo VI, alla chiusura del Concilio), che mi pare, nonostante i limiti, il messaggio più vero del gabbiano Jonathan Linvingston.
Ecco, questo direi alla inaugurazione di un monumento al gabbiano. E mi piacerebbe vederlo sulle scogliere di Leuca, bianca e delicata fra la verde spinosità del fichidindia. In ogni modo in una terra del Salento, come Gallipoli, Otranto, Santa Cesarea. Terra del Salento e anche terra mia, su cui mi è capitato altra volta di scrivere sulle Nuove Opinioni di Tricase, così: Terra del Salento, anche terra mia, e ti conosco palmo a palmo, in cui mette radici l'irripetibile pianto della vita, della storia e della fede, che cresce a dismisura nei pavimenti irripetibili del Duomo di Otranto. Ci sono cose e luoghi che mi alimentano spesso, con nostalgie improvvise e tenere rimembranze la solitudine soddisfatta: le bianche scogliere di Leuca, dove si incontra l'azzurro di due mari; le opalescenti sinuosità della Zinzulusa; gli asfalti rapidi, e vitali come il sangue delle vene e delle arterie, dell'entroterra; i pesci rari del mercatino di Gallipoli, eternamente ripuliti dalle delicate purezze della Fontana Greco; le turgide vene di arcane acque che serpeggiano opulente tra gli anfratti di Santa Cesarea; le memorie basiliane, che s'abbracciano in continuità feconda con il trionfo del barocco, non solo leccese, e per nulla ridondante, proprio per l'incidenza dell'asciutta vena monastica, che riemerge nelle forme attuali della vita religiosa e civile, profonda e sorvegliata, come è raro altrove (qui la categoria del meridionale scoppia, non basta e fa cenno non solo all'autoctono, ma al diversamente civile); né posso dimenticare i miei incontri di cultura a Acquarica e Tricase, a Leuca; e infine gli ulivi, gli ulivi, gli ulivi, annosi o teneri, contorti o svelti, poveri o doviziosi, il cui verde onnipresente animo le terre pietrose completando la gamma dei colori tipici di questa provincia, voglio dire l'azzurro ininterrotto dei cieli e dei mari e il rosso acceso dei tramonti.


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