L'EREDITA' DEL 1984




M. C. M., F. A.



Lo snodo si è avuto nell'ottobre dello scorso anno, quando il mercato del lavoro ha registrato una serie di primati, e non tutti negativi. Allora, infatti, si è registrato un massimo "storico" per l'ammontare delle forze di lavoro e dell'occupazione (in complesso e nel settore terziario), mentre per l'industria si è giunti al più basso livello di addetti fatto segnare dal 1971 ad oggi. Sullo sfondo, resta il problema della disoccupazione, che pur non avendo fatto registrare punte da record, si è mantenuta su livelli molto sostenuti.
L'indagine Istat, che si avvale dal gennaio '84 di un nuovo questionario, più ampio del precedente e allineato agli standard della Comunità Economica Europea, ha stabilito che le forze di lavoro sono pari a 23 milioni 277 mila unità, mentre gli occupati sono risultati 20 milioni 902 mila: in entrambi i casi, si tratto delle cifre più elevate che si siano avute in Italia. I disoccupati sono due milioni e 375 mila, con un tasso di disoccupazione (percentuale delle persone in cerca di occupazione sulle forze di lavoro) che ha sfiorato il 10,2 per cento, con punte del 16,9 per cento per le donne (contro il 6,6 per cento degli uomini). Il tasso di attività (percentuale delle forze di lavoro sulla popolazione) è salito al 41,3 per cento, (54,9 per cento per gli uomini e 28,3 per cento per le donne); il tasso si eleva al 44,1 per cento nel Nord e al 42,6 per cento nel Centro, e scende al 37 per cento nelle regioni meridionali.
Strutturalmente, l'occupazione conferma ancora una volta, e addirittura la rafforza, la preminenza del settore terziario, che assorbe qualcosa come il 54,9 per cento degli occupati, pari a 11 milioni 473 mila addetti: anche in questo caso si tratta di un primato, perchè sia l'incidenza percentuale sia l'entità dell'occupazione nel terziario hanno raggiunto livelli mai registrati in passato. Come pure è record, ma stavolta negativo, il numero degli occupati nell'industria, scesi per la prima volta sotto i 7 milioni di unità (sono esattamente 6 milioni 952 mila, pari al 33,3 per cento del totale degli occupati). L'agricoltura, infine, dà lavoro a due milioni 478 mila persone, pari appena all'11,8 per cento dell'occupazione complessiva in Italia.
Il raffronto con il 1983 evidenzia un aumento degli occupati, (183 mila unità, pari a + 0,9 per cento), che deriva dalla notevole crescita del terziario, (737 mila unità, pari a + 6,9 per cento), parzialmente compensata dalla consueta contrazione nel settore agricolo, (180 mila unità, pari a - 6,8 per cento, hanno abbandonato le campagne) e in quello industriale, (373 mila unità, pari a - 5,1 per cento).
Leggerissimo è risultato invece l'aumento dei disoccupati, (17 mila unità, pari a 0,7 per cento), tra i quali si segnala un calo delle persone in cerca di prima occupazione. Come conseguenza di queste variazioni, il tasso complessivo di attività è salito dal 41 per cento al 41,3 per cento, mentre il tasso di disoccupazione é rimasto sostanzialmente invariato.
Per il settore agricolo, è stata senza dubbio un'annata difficile. le prime stime sull'andamento della produzione agricola erano state formulate ai primi di novembre dal Centro studi della Confagricoltura (Cestaat): calo globale del 2 per cento. Ora, abbiamo a disposizione il consuntivo dell'Irvam, (istituto per le ricerche e le informazioni di mercato), e le indicazioni non si scostano molto: meno 2,2 per cento.
In sostanza, si deve soprattutto alla seconda metà dell'anno se i conti sono in rosso. Intorno al mese di giugno, infatti, l'Irvam, utilizzando il proprio modello econometrico sulla base dei dati allora disponibili, riteneva possibile, a fine '84, un aumento della produzione lorda vendibile dello 0,4 per cento in termini reali. Non era granché, ma il segno e la tendenza erano positivi.
Poi è venuta l'estate, con un andamento climatico del tutto anomalo. Peggio ancora l'autunno, che ha largamente compromesso le colture che entravano in produzione nella seconda parte dell'annata. In particolare, sono state colpite quasi tutte le colture arboree.
Il panorama, per grandi aggregati, offre comunque un bilancio favorevole solo per i cereali, una sostanziale stazionarietà per le colture industriali, e grossi cali produttivi per le arboree, soprattutto per le colture che riguardano le produzioni del Mezzogiorno: ulivo e vite. E ancora: caduta della produzione per gli ortaggi, qualche lieve incremento per la zootecnia, con cospicui aumenti per la carne suina.
I segni di un andamento negativo del settore sono anche altri, e strettamente legati a problemi strutturali. Si è registrata una flessione della domanda di mezzi tecnici, (dai fertilizzanti ai carburanti, dai mangimi alle sementi). E tutto questo preoccupa ancora oggi il mondo agricolo. Anche l'occupazione ha registrato una flessione, che ha riguardato in particolare i lavoratori dipendenti, la cui quota sul totale è in fase di progressiva contrazione. I lavoratori dipendenti rappresentano tuttora il 30 per cento degli occupati complessivi nel settore primario.
Ma vediamo qual è stato l'andamento, settore per settore.

Cereali. Sotto l'aspetto produttivo, il bilancio è favorevole, anche se va tenuto conto del fatto che la precedente annata registrò alcune carenze di resa, dovute alla siccità. Nell'84 sono state ottenute produzioni-record per il grano duro (intorno a 43 milioni di quintali) e per l'orzo (14,6 milioni di quintali), mentre sono risultati medio-buoni i raccolti di frumento, di mais e di risone.

Vino. La produzione '84-85 è valutata in 72 milioni di ettolitri, vale a dire circa 10 milioni in meno di quelli ottenuti nella precedente campagna. Questo basso livello dovrebbe contribuire ad attenuare il problema delle eccedenze. Malgrado l'opera di "scrematura" effettuata con le varie distillazioni, infatti, il mercato è stato improntato nell'84 a un tono pesante, con prezzi inferiori mediamente del 7 per cento rispetto a quelli dell'annata precedente. Anche le esportazioni si sono mantenute su volumi bassi, ma dall'estate si è cominciata a delineare la tendenza a una netta ripresa, collegata al fatto che in tutta l'area comunitaria la vendemmia si profilava medio-bassa. Anche il mercato sta assumendo un andamento migliore, con prezzi in recupero. Da segnalare, comunque, i vasti svellimenti nelle regioni meridionali, determinati dalla non remunerazione della coltura per l'eccesso dei costi di lavoro, per le pressioni tributarie, per l'inefficienza dei trasporti e la scarsità di sbocchi commerciali all'estero.
La distruzione della vite nel Sud, inoltre, è dovuta anche alle contraddizioni della politica comunitaria, e alle fragili difese opposte dai responsabili del settore a Bruxelles. Ma c'è, in prospettiva, una altro prezzo elevato che il Mezzogiorno dovrà pagare: sarà dovuto all'ingresso nella Cee di Spagna e Portogallo, che hanno produzioni "mediterranee" come le nostre, già sopraffatte dalle "produzioni continentali" di Germania, Francia e Benelux. L'Europa Verde, dunque, continua a penalizzare le aree meno protette, come il Mezzogiorno.

Olio d'Oliva. Anche questo bilancio è deludente. Dopo l'abbondante produzione del 1983, nell'84 la raccolta delle olive da olio è stato scarsissima, fino a risultare difficilmente qualificabile. Per di più, si tratta di un prodotto di mediocre qualità. le preoccupazioni dei produttori sono rivolte alle importazioni dalla Grecia, dal Nord-Africa e dalla penisola iberica, aree dalle quali introduciamo olio che, tagliato con il nostro, riprende poi le vie del mondo, in Occidente e in Oriente. Se questa tendenza diverrà costante, sarà difficile smaltire le giacenze, e, soprattutto, valorizzare il nostro prodotto.

Colture Industriali. Nell'insieme, si rileva una situazione stazionaria. Ma va notato che in alcuni casi, (ad esempio, il girasole), i risultati produttivi sono stati inferiori rispetto a quel che facevano ritenere gli investimenti, poichè il maltempo ha sensibilmente danneggiato i raccolti. La produzione di tabacco è diminuita di circa il 4 per cento, passando da un milione 560 mila a un milione 474 mila quintali, mentre ancora scarso è stato il raccolto della barbabietola. Confermata, invece, la rapida crescita delle oleaginose, in modo particolare della soia.

Prodotti zootecnici. La spinta espansiva in atto da qualche anno è proseguita a ritmi abbastanza significativi, grazie alla crescita del patrimonio zootecnico, al miglioramento delle tecniche produttive e alla diminuita pressione dell'offerta estera. In questo settore, le importazioni sono state ridotte in quantità di almeno il 15 per cento rispetto all'83. L'incremento produttivo più notevole si è verificato per le carni suine: ne sono state prodotte per 9,3 milioni di quintali, circa il 5 per cento in più rispetto al 1983. L'offerta nazionale di carni bovine ha superato i 9 milioni di quintali (+ 2 per cento), quella di carni avicole è solita a 11,5 milioni di quintali, (contro gli 11, 3 dell'83). Leggeri aumenti per le uova e per le corni prodotte dagli allevamenti zootecnici minori, (ovini-caprini, conigli, selvaggina, ecc.). Ancora in espansione la produzione di latte: gli effetti delle misure nazionali e comunitarie si faranno sentire probabilmente nella prossima campagna.

Ortofrutticoli. Produzione complessivamente inferiore rispetto a quella dell'83. Per frutta e agrumi, si è avuta una diminuzione da circa 118 a 102,3 milioni di quintali. I danni provocati dal maltempo si sono cumulati alla consueta alternanza produttiva che si verifica sempre dopo annate di "carica", com'era stata quella dell'83. Hanno tenuto solo le mele (20,8 milioni di quintali), e le pesche (16,8 milioni di quintali), mentre sono calati i raccolti di tutte le altre principali specie. Molto sensibile soprattutto la riduzione per gli agrumi.

Costi di produzione. Anche nell'84 l'evoluzione dei costi di produzione è risultata più accentuato di quella registrata dai prezzi di vendita conseguiti dai produttori. L'indice Irvam dei prezzi d'acquisto dei mezzi correnti di produzione è aumentato dell'11,4 per cento, più del doppio della variazione segnalata dall'indicatore relativo alle quotazioni all'origine. L'ascesa dei costi è stata un pò più evidente nel settore delle produzioni vegetali, e un pò meno in quello della zootecnia: quest'ultimo ha potuto beneficiare del relativo rallentamento della crescita dei prezzi di acquisto dei mangimi e degli alimenti per il bestiame.

Il 1984 è stato anche un anno molto positivo per i risparmiatori, che hanno ricavato dai loro investimenti guadagni reali significativi, che li hanno messi bene al riparo dagli effetti dell'inflazione.
Del resto, il risparmiatore italiano - come testimonia il Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese - ora si è fatto più scaltro che nel passato, mostrando una mobilità fra i diversi tipi di investimento, in modo da cogliere al volo tutte le opportunità di maggiore redditività, con una prontezza di riflessi "inusitata - dice il Censis - per un soggetto che tradizionalmente possedeva riflessi lenti".
Il mercato, dunque, ha premiato il risparmiatore: l'investimento in Borsa in titoli pubblici, in obbligazioni e nei fondi comuni mobiliari ha fruttato rendimenti consistenti. Anche il deposito in banca ha consentito di mantenere intatto il valore del capitale, nonostante l'inflazione.
A fronte della crisi di Europrogramme, è rimasto inattivo il mercato dei fondi e dei Certificati immobiliari. Chi, infine, ha preferito ancorare i propri risparmi al lingotto d'oro, è riuscito a limitare le perdite solo grazie al rialzo del dollaro, che nel nostro Paese ha attutito gli effetti del crollo dei prezzi del metallo giallo sui mercati internazionali.
Fondi comuni mobiliari. E' stato comunque l'anno dei fondi comuni ai quali, secondo l'amministratore delegato degli studi finanziari della Fideuram, Polladino, si sono avvicinati, solo negli ultimi sei mesi, circa cinquantamila risparmiatori. Benché l'investimento nei Fondi, per fruttar bene, debba protrarsi per quattro-cinque anni, i gestori dei fondi calcolano che nel 1984 il rendimento medio abbia raggiunto il 22 per cento, con un 11 -12 per cento di guadagno reale. Questo risultato positivo si fonda soprattutto sull'expIoit di un gruppo di titoli azionari, che nel corso dell'anno hanno fatto registrare un 20 per cento di incremento di valore. Secondo Palladino, il 1984 è stato l'anno boom dei dividendi; le società quotate hanno presentato bilanci buoni e hanno ripreso a "flirtare con gli azionisti". Il riavvicinamento alla Borsa dei risparmiatori italiani è dovuto in parte proprio ai Fondi comuni che hanno permesso anche al risparmiatore meno accorto di avvicinarsi alla Borsa.

Titoli pubblici. Benchè il rendimento di questi titoli si mantenga sempre a livelli sostenuti, nell'84 c'è stata una lieve discesa. Quelli di vecchia emissione, (in particolare, quelli emessi nel 1982), sono stati rivalutati anche per quel che attiene il capitale, e si confermano quindi come investimenti più redditizi. In base all'indice calcolato dalla Fideuram, il rendimento medio ottenuto nell'84 per i Bot e i Cct è stato rispettivamente di circa il 16 per cento e il 17,10 per cento, con un guadagno netto - depurata l'inflazione - del 5-7 per cento.

Depositi bancari. Secondo il Rapporto del Censis, il 17,2 per cento dei risparmiatori italiani ha disinvestito da depositi bancari, passando ai titoli pubblici. La crescita dei depositi, comunque, denuncia rispetto all'anno precedente un rallentamento. A fine '84, il tasso di crescita si è situato poco al di sotto dell'11 per cento, contro il 14 per cento del 1983. Il deposito bancario, però, per la prima volta dopo molto tempo, ha consentito anch'esso di ottenere un rendimento reale se non proprio positivo, quantomeno non negativo, ma al passo con l'inflazione. Il rendimento medio dei depositi bancari, misurato da Fideuram, è stato pari nell'84 al 9,88 per cento, al netto delle imposte: un tasso, quindi, di poco al di sotto dell'inflazione media, calcolata al 10,6 per cento.

Obbligazioni. L'84 ha riservato le maggiori positive sorprese ai risparmiatori che si sono rivolti a questo tipo di investimento. La discesa del tasso d'inflazione ha provocato una grande domanda di obbligazioni a tasso fisso: i rendimenti sono diminuiti, ma il valore capitale è balzato in alto. Chi ha acquistato questi titoli all'inizio dell'anno ha potuto conseguire un guadagno in termini nominali superiore al 23 per cento, con un tasso reale positivo di oltre Vi i per cento. Ancora meglio è andata a chi si è avvicinato alle obbligazioni convertibili, che hanno beneficiato del positivo andamento delle azioni alle quali sono legate. Secondo i calcoli Fideuram, il loro rendimento medio nell'84 si è aggirato (tra cedola e incremento di valore capitale) sul 35 per cento, con un guadagno reale del 19 per cento.

Immobili. Il mercato immobiliare è in crisi: le disavventure del Fondo Europrogramme e della Gedeco hanno frenato l'attività dei Fondi comuni immobiliari e dei Certificati immobiliari, il cui mercato ormai è pressochè paralizzato. Quanto all'immobile (come tradizionale bene-rifugio per i risparmiatori) il suo valore, stando ai dati diffusi dall'Ance, è rimasto immutato rispetto all'anno precedente, quindi con una perdita di valore reale pari al tasso dell'inflazione. Alcuni operatori, però, rilevano una ripresa di fine anno del mercato, che consentirebbe ai proprietari di immobili di veder garantito nel complesso il valore del loro investimento.

Oro e monete d'oro. Per gli italiani che hanno investito nel metallo giallo,l'84 è stato negativo. Non solo non hanno ricavato reddito da questo investimento, ma hanno subìto una perdita in termini monetari reali. Dalle 20.738 lire al grammo dell'inizio dell'anno, il prezzo dell'oro è sceso a fine '84 a 19.500 lire. In realtà, si è trattato di una perdita contenuta, dato che il rialzo del dollaro ha consentito nel nostro Paese di contrastare il crollo del prezzo del metallo sui mercati internazionali. La discesa del prezzo dell'oro, accompagnata da quella delle pietre preziose, ha in ogni caso provocato un ritorno del consumatore ai prodotti dell'oreficeria, che ha potuto offrire oggetti a prezzi più contenuti.

Da più anni, ormai, negli scenari socio-economici disegnati dai futurologi, l'Europa occupa uno spiacevole ruolo marginale. Si parla spesso di "declino" e di "deriva" dell'Europa, in rapporto non solo ai grandi sistemi industriali americano e giapponese, ma anche all'irresistibile ascesa del Nic (Paesi di nuova industrializzazione). Eppure, l'Europa rimane una grande realtà socioeconomica, con i suoi 270 milioni di abitanti ad elevato livello culturale, una produzione industriale pari a quella statunitense e doppia di quella giapponese, una capacità di finanziamento superiore a quella dei due grandi concorrenti mondiali.
Il declino non è quindi un fatto di risorse o di potenziali, ma di tendenze, come dimostra un recente, documentato studio della Société Générale de Banque, di Bruxelles. Il declino europeo, afferma lo studio belga, è essenzialmente ed eminentemente un problema industriale: dal 1970 ad oggi, la crescita della produzione industriale negli Stati Uniti e in Giappone è stata rispettivamente pari al doppio e al triplo di quella europea. L'indebolimento industriale europeo si riflette in una perdita di presenza sui mercati internazionali: la quota dell'Europa nelle esportazioni mondiali è diminuita di sei punti percentuali, il che equivale ad una perdita di oltre dieci miliardi di dollari all'anno. Perdita non solo nei confronti dei paesi leaders, ma anche di quelli emergenti. Basti pensare che l'Egitto esporta già aerei, il Brasile e il Cile vendono armi sofisticate, -la Spagna esporta reattori nucleari, e via dicendo. Il risultato di questo indebolimento industriale è un tasso di disoccupazione del 12 per cento (1984), contro il 7 per cento degli Stati Uniti e il 2 per cento del Giappone.
Quali sono gli aspetti più evidenti della decadenza del vecchio continente? La tabella che segue descrive efficacemente un quadro che potrebbe essere sintetizzato con l'espressione "sclerosi della società e dell'economia".

Popolazione. L'handicap dell'Europa è evidente: combinato con un sistema di sicurezza sociale troppo generoso, il problema demografico determina (e ancor più determinerà) gravi impasses finanziarie, soprattutto, nell'area delle pensioni.

Mercato del lavoro. La rigidità del sistema europeo è particolarmente evidente: l'europeo cambia troppo raramente il posto di lavoro, sia all'interno della stessa impresa sia all'esterno. Ne deriva una bassa utilizzazione delle competenze individuali, e il disoccupato rischia di restar tale molto più a lungo.

Tessuto industriale. La nascita di nuove imprese avviene ad un ritmo inferiore della metà rispetto a quello americano e di un terzo rispetto a quello giapponese. Il numero di brevetti depositati e il persistente disavanzo della bilancia tecnologica mostra che l'Europa "crea" troppo poco.

Imprese. I dati che le riguardano segnalano i ben noti divari tra solari reali e produttività ed evidenziano la situazione estremamente insoddisfacente dei livelli di redditività europei, soprattutto riferiti ai mezzi propri, anche delle società di maggiori dimensioni.

Poichè l'Italia (e l'economia italiana) fa parte del sistema europeo, al quale è strettamente connessa, è lecito chiedersi quali sono le cause di questo generale declino, che condiziona tutti e noi insieme con tutti, per poter impostare strategie di recupero. L'analisi condotta dallo studio belga ha il pregio di portare ad alcune conclusioni. rilevanti, che si rifanno alle motivazioni di fondo del comportamento umano: da un lato la necessità, dall'altro l'ambizione. Ora, è indubbio che le democrazie europee, da molti anni, hanno scelto progressivamente una forma di società che ostacola o quanto meno penalizza questi due fattori motivazionali.
Da un lato, il cittadino europeo gode di un sistema di sicurezza sociale molto ampio e generoso: la gran parte dei rischi "personali" (malattia, disoccupazione, vecchiaia, ecc.) è a carico dello Stato; la stabilità dell'occupazione e la garanzia di un reddito, combinate con il numero molto elevato di servizi ricevuti dallo Stato, tolgono all'individuo lo stimolo ad intraprendere, a creare. lo scarso orientamento al rischio è provato dal fatto che solo il 5 per cento dei cittadini europei detiene azioni di società, contro percentuali del 14,5 per cento negli Stati Uniti e dell'8,5 per cento nel Giappone.
Dall'altro lato, il cittadino europeo è limitato nelle sue ambizioni: non solo la pressione fiscale ha tolto ogni velleità di arricchimento (il prelievo complessivo arriva al 40 per cento in Europa, contro il 30 per cento degli Stati Uniti e il 27 per cento del Giappone), ma l'elevatissima progressività costituisce un grosso freno allo spirito d'impresa. Tutto questo è dominato da una concezione quanto meno abusiva della riduzione delle disuguaglianze, concezione comunque economicamente nociva perchè impedisce che vi siano, in un'economia di mercato, risorse disponibili per accrescere gli investimenti e l'occupazione.
Infine, è evidente che il sistema sociale europeo determina un utilizzo inefficace delle risorse: la dilatazione oltre ogni limite delle spese dello Stato va a detrimento di quelle del settore privato. In Belgio, per esempio, il numero dei cittadini che beneficiano di un reddito pubblico è salito dal 28,3 per cento della popolazione nel '71 al 45,5 nell'81; i redditi familiari sono cresciuti a spese di quelli delle imprese; per sostenere le imprese in difficoltà sono stati sovratassati i redditi delle imprese in buona salute. In Italia, per esempio, sussidi governativi al settore siderurgico sono pari ogni anno al capitale proprio delle imprese del settore.
L'uso inefficiente delle risorse è particolarmente grave nei settori strategici, primo fra tutti quello dell'educazione e della ricerca: non si può dire, in realtà, che l'Europa spenda poco in queste aree, ma la pessima distribuzione dei mezzi disponibili spiega il ritardo tecnologico cronico del vecchio continente nei confronti degli altri due grandi blocchi concorrenti.
L'insieme di queste analisi porto ad alcune logiche (e fondamentali) indicazioni che confluiscono in un obiettivo: indurre un profondo cambiamento di mentalità e quindi di comportamenti nell'uomo europeo, per renderlo più motivato all'iniziativa e al rischio. Per ottenere ciò, è certo basilare una profonda revisione dei sistemi di sicurezza sociale, dei regimi fiscali, delle regulations, finalizzata alla riduzione da un lato dei garantismi, e dall'altro degli ostacoli burocratici all'intraprendere. Una svolta di mentalità e di comportamento individuali di questo tipo consentirebbe grandi speranze, perchè il ritardo tecnologico, tanto per citare un fattore critico fondamentale, può essere rapidamente colmato in periodi, come l'attuale, di intensa diffusione del progresso tecnico. D'altro canto, questa svolta non può significare un abbandono delle responsabilità sociali in quanto tali. Il vecchio continente ha, nei confronti della società americano, più disoccupati, ma meno poveri. Occorre trovare equilibri che tengano contemporaneamente conto delle possibilità finanziarie delle nostre, economie, del dinamismo economico, che non può essere frenato senza compromettere il futuro, ma anche di una solidarietà sociale senza la quale la vita comunitaria sarebbe impossibile.


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