UNA GRANDE BORSA PER L'EUROPA




Nino Andreatta



L'avvio della ripresa economica e il bisogno di nuovi investimenti hanno accresciuto in tutto il mondo la necessità per le imprese di raccogliere capitale di rischio. In Italia questo problema si pone con una evidenza drammatica: il sistema industriale versa infatti in un grave stato di sottocapitalizzazione che incontra nell'inefficienza di mercato dei capitali, derivata da molte cause le cui analisi qui tralascio, un'obiettiva difficoltà ad essere superato.
Tuttavia, spesso si dimentica, e questo mi pare valido non solo per il mercato italiano, che non può esistere un mercato primario efficiente ed elastico, sul quale gli emittenti possano recuperare il capitale di rischio necessario, se non esiste un mercato secondario che abbia queste stesse caratteristiche. Verrebbe infatti a mancare il luogo di scambio in cui l'investimento può essere contrattato e movimentato riducendo quindi pericolosamente per l'utenza l'affidabilità del mercato. Diventa allora impossibile soddisfare la domanda degli emittenti e degli investitori.
Per avere un'idea sul ruolo della Borsa nei singoli sistemi economici nazionali possiamo confrontare, con riferimento al 1983 la capitalizzazione del mercato col Pnl: abbiamo percentuali che vanno dal 51,6 della Gran Bretagna all'8,7 della Francia, dal 6,4 dell'Italia al 47,7 degli Usa e al 46,1 del Giappone. Globalmente, l'Europa si presenta nel contesto di un mercato dei capitali mondiale in grande effervescenza, in maniera assai frammentata. La principale Borsa europea, Londra, capitalizza 225 miliardi di dollari, una cifra pari a poco più di 1/8 della capitalizzazione del New York Stock Exchange; d'altra parte, tutte le Borse europee insieme considerate hanno una capitalizzazione (pari a quasi 200 miliardi) inferiore a quella di Londra. Si consideri che le due Borse giapponesi di Tokyo e di Osaka hanno una capitalizzazione complessiva di 1.012 miliardi di dollari. Se si stila una graduatoria delle Borse con capitalizzazione superiore a cento miliardi di dollari abbiamo, in ordine di grandezza, New York, Tokyo, Osaka, Londra, Toronto: una sola piazza europea contro quattro extraeuropee.
Questi dati segnalano in quale direzione guardare per raccogliere indicazioni sulla via da percorrere. Tra le molte cause dell'impetuosa crescita del mercato americano, di non poco conto è stato il ruolo della "deregulation" introdotta dall'amministrazione Reagan, che, applicata in anticipo rispetto ad ogni altro mercato finanziario, ha innescato nel volgere di breve tempo profonde trasformazioni sia quantitative che qualitative. Sulla piazza di New York nel 1983 la media giornaliera dei quantitativi di azioni trattate è stata di 85,3 milioni; nel novembre '83 si è arrivati a 149 milioni; nell'agosto '84 si è toccata la punta di 263 milioni. Per poter sostenere quotidianamente questo ritmo di lavoro il New York Stock Exchange ha sostenuto dal 1979 al 1983 investimenti in automazione per 70 milioni di dollari.
Il controvalore delle azioni scambiate è stato nell'83 di 765 miliardi di dollari, contro una cifra di 115 miliardi di dollari (1/7) da parte del totale delle Borse europee. Consideriamo che la sola Borsa di Tokyo ha avuto scambi per un controvalore di 231 miliardi di dollari. Attualmente, Wall Street detiene il 66,5% del controvalore degli scambi mondiali in azioni, contro il 18,9% di Tokyo e il 9,3% delle Borse europee (nel 1973 New York aveva il 54%, mentre le Borse europee raggiungevano il 17,6%).
L'introduzione sempre più massiccia dell'informatica consentirà di sopportare in futuro carichi di lavoro sempre maggiori senza che venga meno l'efficienza; la Borsa americana progetta ormai l'apertura 24 ore su 24, in una dimensione veramente mondiale, per consentire di operare con e da tutte le piazze. Il mercato ormai non è definibile più in modo giuridico-istituzionale; è legato alla capacità degli operatori di farlo funzionare a condizioni e costi competitivi. Si spiega in questo modo la crescita di organizzazioni parallele (over-the counter) come la National Association Of Security Dealers Automated Quotation (Nasdaq), sulla quale si arrivano a trattare quotidianamente quantitativi superiori a 100 milioni di azioni. Si tratta di un mercato sorto negli Stati Uniti nel 1974, che oggi ha abbonati in 34 paesi stranieri. Alla Nasdaq sono quotate oltre 3.500 società, tanto che oggi questo mercato sta assumendo sempre più una dimensione di rilievo mondiale. Del resto, anche in Europa esiste una forte presenza di mercato fuori Borsa, che rimane tale per ragioni di costo e di convenienza operativa. Mentre le statistiche ufficiali attribuiscono alla piazza di Londra una contrattazione su titoli esteri pari solo al 7% del totale degli scambi, stime ufficiose parlano di cifre 7-8 volte superiori.
Dinamiche di mercato così complesse impongono un cambiamento negli intermediari. L'attività di intermediazione richiede maggior capacità di rischio e maggior esposizione di capitali; in questa direzione vanno per esempio i provvedimenti in via di introduzione allo Stock Exchange londinese. Il mercato dei capitali è nel pieno di una trasformazione di portata storica: il passaggio ad una dimensione mondiale. E quindi a mercati altamente concentrati, efficienti e competitivi.
Non a caso molte grandi imprese europee si rivolgono ormai al mercato dei capitali americano. Tanto da arrivare al paradosso di titoli per i quali i volumi di scambio sulla piazza di New York hanno consistenza e significato superiori ai volumi conseguiti nella Borsa nazionale. Il mercato americano garantisce infatti un migliore accesso ai fondi; per esempio, recentemente alcune grandi offerte di azioni europee sono state lanciate contemporaneamente sui due mercati di Londra e Wall Street. Nel 1983 sono stati scambiati a Wall Street titoli esteri per un controvalore di circa 30 miliardi di dollari; un importo superiore al controvalore annuo degli scambi svoltisi su molte Borse europee.
Indubbiamente, questi fenomeni concorrono a marginalizzare in modo preoccupante il ruolo delle Borse Europee. Una sfida si pone all'Europa. I mercati europei rischiano di essere sempre più provinciali se non saranno in grado di elaborare nuovi meccanismi di funzionamento: soprattutto se non saranno in grado di studiare forme di concentrazione a livello europeo. Il problema non è tanto quello di arrivare ex novo alla creazione di un unico mercato, un "supermercato" sovranazionale: un processo positivo sarebbe quello di una amalgamazione effettiva e rapida di tutti i mercati esistenti.
I motivi a favore di un'integrazione dei mercati europei mi paiono in larga misura già emersi dal confronto con la situazione americana. Un mercato concentrato consentirebbe più elevati volumi di scambio, permettendo il rigiro di pacchetti anche consistenti, senza creare intralci: nel 1983 al Nyse vi sono state ben 127 transazioni unitariamente superiori a un milione di azioni. Se consideriamo per esempio il mercato italiano, possiamo constatare quali e quanti problemi creano all'andamento delle quotazioni gli scambi di pacchetti anche modesti di azioni. Un mercato concentrato, oltre che più profondo, garantisce migliori condizioni di liquidità. La certezza di scambi vivaci ed attivi conferisce all'investimento maggior affidabilità: è infatti minore il rischio che la sua liquidità generi secche perdite o ritardi onerosi.
Negli ultimi due anni, negli Usa l'incremento annuo dei possessori di azioni è stato del 31%, contro una crescita della popolazione del 2%. Nel 1982 la consistenza degli investimenti all'estero da parte degli investitori istituzionali Usa era stimata in 6 miliardi di dollari, ed è destinata a salire per il 1985 a 20 miliardi di dollari. Disponibilità che molto difficilmente si rivolgerà al Vecchio Continente senza precise garanzie. Nel contempo, la preferenza che molte imprese europee sembrano assegnare nella loro strategia futura alla Borsa americana suona conferma della maggiore affidabilità di un mercato concentrato.
D'altro canto, simili mercati richiedono intermediari assai più solidi e imprenditoriali degli attuali. Concorrono in questa direzione due fatti: anzitutto, in un mercato dalle dimensioni così elevate il ruolo dell'intermediario sarà quello del market maker, quindi con strutture patrimonialmente assai sicure; secondariamente, le stesse tariffe di negoziazioni sono destinate ad essere oggetto di contrattazione delle parti, inserendo quindi un ulteriore elemento concorrenziale nel sistema. Per dare un'idea di questa trasformazione, cito le stime secondo le quali le società di agenti di cambio alla Borsa di Londra hanno in corso di attuazione investimenti per 500 milioni di sterline, cioè circa 1.150 miliardi di lire. In sostanza, l'ipotesi di un'integrazione dei mercati europei garantisce agli utenti un'affidabilità ed una continuità che altrimenti saranno inevitabilmente cercate altrove, con conseguenze che tutti possono immaginare.
La dimensione continentale-europea di un mercato concentrato sembrerebbe poi quella che per motivi tecnico-funzionali ed economici, ma anche politico-strategici, è più adeguata a costruire una risposta alle esigenze di imprese ed investitori, non solo europei. Quanto mai preziosa sarà la fattiva collaborazione delle autorità politiche nazionali che, nel caso dell'Italia e della Francia, dovranno per esempio mettere mano alla disciplina valutaria vigente, che rende sconveniente l'investimento in titoli esteri.
Vi sono di fronte, comunque, talune scelte da compiere su questioni assai delicate. In estrema sintesi: anzitutto, la necessità di denominare in un'unica unità di conto le transazioni operate sulle varie piazze collegate: ancora, la necessità di regolamenti comuni che fissino in modo univoco i requisiti e gli standards indispensabili per la quotazione ; inoltre, modalità comuni di contrattazione e di liquidazione, mettendo ordine nella disparità di regolamenti che caratterizza oggi le Borse del nostro continente; una integrazione tecnologica che porti all'adozione di sistemi compatibili ed interconnessi, (questo indica anche la necessità di realizzare investimenti per potenziare le infrastrutture del mercato).
Infine, sarà necessario arrivare ad una stanza di compensazione comune; si tratta di un fondamentale requisito per consentire una facilitazione degli scambi ed un mercato efficiente. Qualche cifra ci può dare le misure del peso che queste strutture possono assumere: il controvalore dei titoli depositati nel DTC (Depository Trust Company) americano era nel 1983 di 1.240 miliardi di dollari; per la Sicovam francese di 118,7; per l'Euroclear di 120,5; per Cedel, di 56,6. Anche in Europa vi sono quindi strutture efficienti, l'importante è che vengano armonizzate e integrate secondo modalità e finalità comuni.
Ciascuno di questi problemi ha bisogno di soluzioni specifiche perchè si arrivi ad un mercato concentrato e competitivo su scala mondiale. Ciò su cui mi sembra ci sia assai poco da discutere è che la rinuncia a questo obiettivo costituirebbe un ulteriore aggravamento del processo di emarginazione del nostro continente dai gangli vitali del sistema economico mondiale. Ma questa sfida è difficile perchè i tempi sono ristretti, e il conservatorismo della professione, che ha i suoi aspetti suggestivi, legata come essa è all'antico spirito di Ghilda, può farci svegliare un giorno non lontano con una Borsa globale, unificata dall'intraprendenza e dalle dimensioni degli intermediari americani, forti di un mercato domestico.

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