§ L'OCCIDENTE DI FRONTE ALLA SFIDA DEGLI SQUILIBRI

EGOISMO NELL'ECONOMIA




Henry Kissinger



Nell'assemblea annuale di Washington, il Fondo monetario internazionale e la Banca Mondiale hanno affrontato una serie di problemi urgenti, imperniati sul debito internazionale. Si è registrato un certo ottimismo, ma la causa più profonda dell'attuale disordine è stata affrontata solo di sfuggita. Il fatto è che, mentre l'economia del mondo è per sua natura un tutt'uno, le decisioni prese sono adottate dalle politiche nazionali.
Nel XIX secolo, quando ci fu il primo sviluppo industriale, le regole del gioco erano decise da un numero ristretto di Paesi che si ispiravano a filosofie simili e che erano governati sulla base del suffragio ristretto. I governi si comportavano come se la sfera economica fosse al di là del loro potere o addirittura della loro competenza. l'accumulazione di capitale era lasciata ai meccanismi del mercato. il tallone aureo, riconosciuto da tutte le maggiori nazioni esportatrici, era il meccanismo di aggiustamento. il sistema aveva il vantaggio dell'automaticità. I politici potevano accettare o respingere il tallone aureo.
Ma una volta presa la decisione, erano costretti ad adeguarvi la spesa, il sistema fiscale e la politica monetaria.
Oggi tutto è cambiato. Il Giappone si è da tempo aggiunto alle maggiori potenze economiche. Cina, Brasile, India, Corea, Messico e Indonesia, solo per citare alcuni Paesi, vogliono partecipare alla ridefinizione del loro futuro economico.
I Paesi economicamente più importanti si reggono sul suffragio universale, e gli elettori ovunque vogliono che i governi si impegnino a migliorare la qualità della vita. Perciò oggi i governanti, a differenza dei loro predecessori del secolo scorso, chiedono il controllo diretto della politica economica per ottenere risultati politici immediati.
Per la prima volta l'economia del mondo è diventata veramente internazionale. Ma nello stesso tempo i sistemi fiscali, le spese, l'occupazione, le politiche commerciali e industriali sono confinati entro le frontiere nazionali, anche se le decisioni in merito hanno conseguenze globali. Il pericolo è, ovviamente, che -prima o poi - alcune crisi sommergeranno i deboli sforzi nazionali per controllarle. Il mondo quindi si troverà di fronte a un disastro che sarà reso inevitabile dall'assenza di una politica globale a lungo termine.
Il caso del commercio internazionale in questo senso è illuminante. L'obiettivo esplicito di tutte le nazioni protagoniste degli scambi è di rimuovere gli ostacoli ai commerci, come le barriere tariffarie, i sussidi all'export ed altre pratiche sleali, perchè in teoria la libertà degli scambi è a vantaggio di tutti. In realtà, molti Paesi si dichiarano a favore di essa, ma in pratica la boicottano sistematicamente. E' chiaro che hanno peso determinante importanti realtà politiche.
La teoria della liberalizzazione degli scambi si sviluppò quando l'Inghilterra aveva l'effettivo monopolio dell'industrializzazione e un ampio vantaggio nel campo dell'energia da carbone. Non c'è dubbio che la libertà degli scambi privilegia un Paese che gode di vantaggi del genere. Questa situazione rimase sostanzialmente la stessa dopo che altri Paesi europei si erano industrializzati.
Nella nostra epoca esistono più di venti grossi protagonisti delle esportazioni, con parametri retributivi e contesti culturali nazionali tra essi dissimili. Alcune nazioni, specialmente in Europa, non riescono a competere con altre che hanno standard di vita sostanzialmente inferiori. Così interi settori industriali si spostano da un Paese all'altro, spesso da un continente all'altro.
Anche la gestione della crisi dei debiti minaccia i liberi scambi. Una ricetta chiave di ogni programma di riassestamento del Fondo monetario internazionale esige che il Paese debitore limiti le importazioni e incoraggi le esportazioni. E questo sa di protezionismo, deplorato dalla teoria della libertà degli scambi. Inoltre, è impossibile per definizione ad ogni nazione perseguire una siffatta strategia. La limitazione delle importazioni avviene per forza a spese di qualcuno, specie se associata alla sistematica promozione dell'export.
Due risultati sono probabili: che la struttura collassi semplicemente perchè non c'è sufficiente domanda in rapporto al livello di export necessario ai Paesi in via di sviluppo; oppure, che gli attivi delle esportazioni si reggano sulla labile base di bilance commerciali sfavorevoli di alcuni Paesi. Per quanto riguarda in. particolare gli Stati Uniti, il previsto deficit commerciale superiore a 120 miliardi di dollari per l'84 è un livello fino a tempi recenti inimmaginabile. E' una situazione che prima o poi indurrà il governo ad adottare misure protezionistiche. In breve, ovunque si affacciano e avanzano protezionismo, limitazioni degli scambi e politiche restrittive.
I due poli opposti del comportamento internazionale sono rappresentati rispettivamente dagli Stati Uniti e dal Giappone. Gli Usa rimangono formalmente impegnati alla libertà degli scambi, ma manca una strategia coerente per far fronte alle misure protezionistiche e mercantilistiche di altri Paesi. Di conseguenza, la politica commerciale americana consiste in una serie di sconnesse misure ad hoc prese su sollecitazione dei potenti interessi politici più colpiti. Il Giappone ha scelto la strada opposta. Non pretende che la sua politica economica estera sia guidata dal libero gioco delle forze di mercato. Al contrario, l'economia giapponese è impostata per trarre il massimo vantaggio nazionale dagli scambi. I ministeri giapponesi suggeriscono le priorità all'industria, negoziano termini favorevoli per le esportazioni giapponesi e manovrano i tassi di cambio dello yen per favorire l'export nipponico. Il Giappone è molto criticato per il fatto di agire in spregio delle teorie economiche esistenti. In realtà, è facile convincersi che semplicemente i giapponesi conducono il gioco in modo più sistematico, e con maggior coerenza, di tutti gli altri.
Se ne deduce che gli Stati Uniti, e il mondo, hanno due scelte fondamentali in alternativa. La mia preferenza sarebbe decisamente per un sistema di scambi liberalizzati, fondati solidamente sugli impegni nazionali a lunga scadenza di porre fine alle pratiche sleali e a mantenere la logica di mercato. Ma ciò richiederebbe una importante decisione da parte della leadership americana. Nel 1944 gli Stati Uniti gettarono il loro peso sulla bilancia per la costruzione delle istituzioni internazionali che avrebbero promosso la crescita del mondo per una generazione. Lo spirito degli accordi di Bretton Woods rifletteva la coscienza del fatto che, a lungo termine, il benessere nazionale poteva essere mantenuto soltanto nell'ambito del benessere generale.
Bisognerebbe rivitalizzare ciò che di Bretton Woods è ancora valido. Occorrerebbe poter agire contro le restrizioni ai commerci e agli investimenti e contro i comportamenti sleali negli scambi. Le nazioni di recente industrializzazione, come Brasile o Messico, dovrebbero partecipare in modo più attivo a tutto questo processo.
Una siffatta politica dovrebbe essere condotta con convinzione, ma pure senza facili illusioni. Perchè, malgrado la migliore volontà degli uomini di Stato, il tentativo può fallire. In questo deprecabile caso, gli Stati Uniti potrebbero, sia pure a malincuore, darsi al gioco delle iniziative commerciali unilaterali e agli accordi bilaterali. In un mondo di blocchi commerciali, gli Usa potrebbero costruire un loro blocco commerciale insieme con i più importanti Paesi latino-americani, il Canada e, probabilmente, l'Australia e la Nuova Zelanda. La costituzione di questo blocco avrebbe conseguenze soprattutto nei confronti dell'emisfero occidentale. Ad un certo punto, il semplice peso della gestione statunitense, in collaborazione con i Paesi orientati allo stesso modo, e la loro determinazione, convincerebbero probabilmente il resto del mondo della necessità di politiche economiche e di scambi più coordinati. In tal modo, gli Stati Uniti avrebbero ottenuto un sistema più coerente di scambi internazionali passando per la porta di servizio.
La maggior parte degli americani crede ancora che il loro Paese sia relativamente poco influenzato dagli sviluppi economici internazionali. Gli Stati Uniti, invece, devono rendersi conto dell'urgente necessità di una precisa strategia. Altrimenti la cronica instabilità internazionale, col tempo, minaccerà la prosperità americana. E' necessario che ci sia una leadership americana decisa a realizzare un mondo fondato sulla libertà degli scambi, ma, se questo si dimostrasse inattuabile, ad organizzarsi per un mondo costituito da blocchi commerciali.

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