OCCUPAZIONE: COME CAMBIARE




Napoleone Colajanni



Mi pare che nessuno possa contestare il fatto che, quali che siano le opinioni sulla ripresa, sulle sue dimensioni, sulle sue cause e le sue prospettive, l'occupazione resta la preoccupazione dominante per i prossimi anni. Le dimensioni di questo problema devono essere valutate, per così dire, a sangue freddo. Si tratta di sapere che la pressione ha raggiunto nel presente periodo il suo punto più alto, che l'offerto di forza-lavoro si manterrà alta fino al 1992; dopo di che comincerà a declinare sempre più rapidamente, finchè nel 1996 la nuova leva di lavoro sarà circa la metà di quella del 1981.
La disoccupazione non è quindi uno dei nuovi flagelli contro i quali non è possibile riparo. Si tratta di vedere: a) se è possibile produrre attorno alla metà degli anni Novanta una richiesta di lavoro capace di assorbire le nuove leve; b) come deve essere gestito il periodo di tempo che ci separa da questa data; c) quali possono essere le caratteristiche strutturali dell'occupazione possibile. E' in questo quadro che, con realismo e senza allarmismi, deve essere collocato l'impatto del progresso tecnico sull'occupazione.
Alla prima questione può essere data una risposta ormai abbastanza precisa. La domanda per le nuove professioni aumenta costantemente e si può ragionevolmente prevedere che tra dieci anni non solo potrà essere assicurato l'assorbimento della nuova leva di lavoro, ma si potrà anche ridurre sensibilmente l'arretrato, con la conseguenza di una riduzione del prezzo globale di disoccupazione. Vorrei ricordare che il peso delle nuove professioni deve inevitabilmente aumentare. Tra il '71 e l'81 il numero dei professori e insegnanti è aumentato di 312 mila unità, quello degli impiegati amministrativi pubblici di 650 mila, quello dei medici, farmacisti e paramedici (tutti insieme) di 225 mila. Nel prossimo decennio queste cifre non potranno essere mantenute: la popolazione scolastica diminuisce, il numero dei medici per abitante è il più alto d'Europa, il problema dell'amministrazione è di riqualificare il personale, non di aumentarlo, perché la macchina burocratica italiana possa assomigliare di più a uno strumento di qualche efficienza.
Questo ci porta subito al secondo ordine di problemi. Se il peso delle nuove professioni aumenta, la formazione deve gradualmente spostarsi verso di queste. Facoltà di medicina e magistero, istituti per ragionieri e per geometri, corsi per lavoratori meccanici serviranno sempre di meno rispetto alla formazione degli informatici, degli specialisti di vendite, degli specialisti in management assistito dai computers, del personale professionale qualificato per l'assistenza agli anziani. il problema di fondo, se vogliamo cogliere i massimi confini occupazionali della rivoluzione tecnologica in atto, sta nella qualificazione.
Le tendenze in atto confermano la validità di questo ragionamento. La ripresa, moderata ma reale, dell'occupazione all'Olivetti dimostra che non è difendendo lo status quo che l'occupazione può tornare ad espandersi. Invece di arroccarsi sul passato, si tratta di saper gestire l'avvenire. E qui certo occorre liberarsi di alcuni pregiudizi e aver molto coraggio, se non si vuole arrivare impreparati all'appuntamento della metà degli anni Novanta, quando la piena occupazione potrebbe essere un obiettivo alla portata della società italiana. Non serve a niente cercare di impedire che le imprese tentino di assumere il personale più qualificato che a loro serve, aggirando in tutti i modi la chiamata numerica delle liste di collocamento. Si rischia solo di ritardare la possibilità di occupazione stabile. La formazione professionale e il contratto di formazione e lavoro sono i due strumenti che possono rispondere alle esigenze di personale qualificato e di espansione dell'occupazione. Non serve nemmeno, a ben vedere, la politica dei prepensionamento. Quando c'è una crisi di settore, la riduzione del personale è un espediente del tutto temporaneo. Mantenere formalmente un collegamento con l'impresa, come si fa attraverso la Cassa Integrazione protratta per anni e anni, serve solo a creare illusioni. Col prepensionamento si allontanano dall'impresa, a carico dello Stato, i più anziani, cioè quella parte di lavoratori meno suscettibile di riqualificazione; mentre restano in un'impresa che il più delle volte appartiene a un settore che va arretrando i lavoratori più giovani, che più facilmente potrebbero essere riqualificati. Il danno è doppio: chi potrebbe essere impiegato nel lavoro che già conosce viene mantenuto dalla spesa pubblica.
Su altri aspetti del problema, come quello della flessibilità dell'occupazione, converrà certamente tornare. La questione che però deve essere in ogni momento tenuta presente appartiene al terzo ordine di problemi, quelli strutturali, ed è quella della distribuzione territoriale dell'occupazione. Con le tendenze in atto, nel 1990 i quattro quinti della disoccupazione saranno concentrati nell'Italia meridionale, mentre al Nord ci sarà addirittura scarsezza di manodopera. Dobbiamo sapere che oggi un nuovo trasferimento di masse da Sud a Nord, come quello che negli anni Sessanta interessò tre milioni e mezzo di meridionali, avrebbe un costo tale da renderlo praticamente impossibile. Una politica del lavoro che quindi non sia strettamente collegata con una politica economica che sposti verso il Sud l'asse dello sviluppo non avrebbe senso; o meglio, sarebbe una politica subalterna pericolosamente corporativa.

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