§ L'INEDITO

I FIBBIA




Salvatore Paolo



Recandomi a casa della signora Rosa, sapevo di trovare una vecchia signora di stampo antico, appartenente alla buona società paesana, dignitosa e ritiratissima, e me ne costruivo l'immagine tenendo presente questo particolare aspetto della sua personalità, che era appunto la sua appartenenza alla buona società paesana: una società chiusa nel suo orgoglio di casta, ricca di pregiudizi nati dalla coscienza del proprio passato e che magari la presente modestia di mezzi economici, non che umiliare, rende più orgogliosa per quel naturale senso della liberalità che spesso la caratterizza e l'allontana sdegnosamente da tutte le vili arti dell'arricchimento. In una simile società, rimasta ferma nel tempo, rancore e invidia sono virtù dominanti, rivolte non solo contro i nuovi arrivati ma anche e più spesso contro chi, come me, appartenendo alla stessa classe sociale, non si è lasciato tirare giù nella sorte comune. Ciò non m'impediva tuttavia di attendermi dalla signora Rosa una favorevole accoglienza e una buona disposizione ad ascoltarmi e perfino a esagerare nelle sue confidenze e nelle sue manifestazioni di simpatia, che è un modo di nascondere i propri sentimenti abbastanza consueto in chi sa di non poter fare altro, e in ogni caso serve a dimostrare le proprie origini non volgari. Devo ammettere che, nel momento in cui mi accingevo a conoscere questa signora, mi sforzavo di raffigurarmela più secondo i miei desideri che secondo i suggerimenti di una realtà che allo stato delle cose era presumibile, siccome nei dubbio l'animo umano si afferra sempre alle ipotesi meno pessimistiche; il che, se è vero in linea generale, tanto più lo era per me che ero vissuto fino allora completamente isolato e incline perciò a costruirmi una vita dal di dentro, vedendo tutto con gli occhi del l'immaginazione.
Trattandosi però di una persona che apparteneva al mio stesso ceto, la mia immaginazione veniva suffragata da una certa esperienza, sia pure molto vaga e lontana negli anni, ricavata dai ricordi della fanciullezza, quando la mia vita non si era ancora chiusa nella solitudine. A quell'epoca infatti avevo avuto modo di conoscere più di una persona di condizioni uguali a quelle in cui si trovava oggi la signora Rosa, le quali, in circostanze analoghe, avevano tenuto un comportamento non dissimile da quello che prevedevo avrebbe tenuto la signora Rosa verso di me. Da ciò dipendeva anche il fatto che io riuscivo a indovinare perfino i particolari fisici della signora Rosa: bassa di statura e molto adiposa, con la pelle bianca e rugosa e le mani gonfie e flosce che fanno senso a stringerle. Dei resto sapevo che aveva sessant'anni e questo facilitava il mio compito. Intanto bisognava cercare una giustificazione di quella mia visito, e, tenuto conto ch'essa avveniva in un momento particolarmente doloroso per la vecchia signora che aveva visto sparire suo figlio il giorno stesso in cui doveva sposare, non si poteva proprio dire che fosse una ricerca facile. Mi dissi che il vero motivo dell'incontro tra gli uomini è sempre un bisogno di compagnia, essendo ogni altro motivo che abbia natura e origine diverse in realtà soltanto il pretesto e l'occasione per il manifestarsi di quel bisogno. Ma un simile argomento presupponeva necessariamente che il bisogno di compagnia tra me e la signora Rosa fosse reciproco, mentre io non avevo nessun elemento di giudizio per stabilire se questa supposizione fosse legittima. Si trattava in definitiva di affidarsi al caso o, nella migliore delle ipotesi, alla speranza, cioè alla più infida delle attese, e con questo stato d'animo mi presentai dinanzi alla porta della signora Rosa.
Per scrupolo di precisione dirò che non era propriamente una porta, ma un portoncino lucido quale si conveniva alla casa di una signora Rosa. Benché fosse un particolare di scarso rilievo, fu esso che m'incoraggiò a bussare perché, concordando con quanto mi ero atteso riguardo alla casa, mi faceva fede che anche per il resto non sarei andato incontro a delusioni.
Dopo qualche minuto vidi il battente aprirsi quasi in virtù della lieve spinta della mia mano e muoversi lentamente e senza il minimo cigolio verso l'interno, offrendo al mio sguardo una zona d'ombra da cui fece capolino un volto che m'invitò a entrare con un circospetto "avanti" soffiatomi in faccia. Detti un passo indietro, impressionato da quel volto così stranamente uguale a quello che mi ero immaginato, ma dovetti subito ammettere che esso mi era già noto e che solo una puerile illusione mi aveva fatto credere che l'avessi inventato io. Come poi avessi ottenuto così esatta cognizione di un volto fiorito e appassito (ma mi chiedevo se era mai fiorito) dentro quattro mura, io che non mi ero mai interessato del mio prossimo, era un dubbio che non riuscivo a risolvere e che del resto non aveva nessuna attinenza con l'oggetto della mia ricerca. Eppure esso mi tenne incerto per qualche tempo sulla soglia, nonostante l'insistente invito di quella voce melliflua che mi sollecitava: "Avanti, perché non entrate?".
Ormai dovevo entrare. Non si bussa a un portoncino lucido per non entrare, e poi la signora Rosa si era incomodata di persona per venire ad aprirmi. Non era più nemmeno necessario richiamare alla mente i motivi per cui ero venuto, perché la signora Rosa non mi aveva chiesto né chi ero né che volevo, aveva solo detto "avanti", e ciò avvalorava la mia supposizione che il bisogno di compagnia da me avvertito fosse anche suo. Il fatto stesso che mi avesse aperto era già motivo sufficiente per sperare in questo senso. Solo temevo che la signora Rosa, mettendo la mia visita in relazione col momento in cui avveniva, si sentisse autorizzata a trarne delle conclusioni troppo affrettate. Ma d'altra parte, quale mezzo avevo ormai io per impedirglielo se avesse voluto farlo, all'infuori del tornare indietro prima ancora che fossi entrato o del dirle in faccia, contravvenendo non solo alle normali regole della correttezza ma anche al particolare dovere di cortesia a cui la sua accoglienza mi obbligava: "Signora Rosa, vi prego di non farvi illusioni su questa mia visita"?
E quand'anche l'avessi detto, la signora Rosa poteva ugualmente non dar nessun credito alle mie parole. Queste riflessioni mi resero ancora più perplesso ed entrai senza aprir bocca, seguendo solo la signora Rosa che mi faceva strada attraverso un ingressino buio, in cui si distinguevano un portaombrelli in ceramica allato e una cappottiera sullo sfondo. Alla cappottiera era appesa una giacca che pendeva tutta da un lato; la signora Rosa, passando, la prese e la riattaccò in modo più corretto. Poi m'indicò un uscio a destra, lei stessa l'aprì e m'introdusse in un salottino odorante di vecchio, semibuio anche quello, ma non tanto da non lasciare intravedere in ogni angolo un ordine e un pulito mummificati. Aprì un poco di più un'imposta della finestra perché entrasse più luce e sistemò un portafiori più al centro del tondino borbottando contro la domestica. lo mi accomodai nella poltrona che guardava l'ingresso, un poco sgangherata ma ancora abbastanza soffice, accanto a un grande abat-jour col piede di legno e il paralume di seta. la signora Rosa occupò la poltrona di fronte e disse con voce spenta: "Voi siete don Gegè, evvero?" Questa domanda m'imbarazzò perché mise in rilievo il fatto che non mi fossi presentato e cercai di scusarmi, ma lei protestò subito, mostrando di avere un assoluto bisogno di parlare: "Non è il caso, don Gegè, prego" e aggiunse: "Indovino perché siete venuto. è per via di Emilio, per quello ch'è successo, lo so. Voi infatti siete molto amico di mio figlio".
Il mio stupore fu enorme per la disinvoltura con cui la signora Rosa si lasciava andare a simili affermazioni. lei, con l'aria di chi non s'accorge di nulla, continuò imperturbata e monotona: "Io sono contenta di questo e che abbiate voluto darmi in questo momento la prova della vostra stima. Voi sapete che io sono sola da vent'anni, da quando perdetti mio marito, e che Emilio è l'unico affetto che mi è rimasto. Sono invecchiata per lui, voi che gli siete amico e lo conoscete bene potete giudicare se dico la verità. Mi ha procurato affanni da non dire, perché cresceva delicato, è stato sempre così delicato; io avevo paura che perfino un soffio di vento potesse portarmelo via. Finché fu vivo mio marito, almeno sapevo che Emilio poteva contare su una protezione molto più sicura di quella di una povera donna come me. Ma dopo la sua morte ho trascorso venti anni di calvario, e quello che c'è nel mio cuore lo so soltanto io ... ".
Le venne il pianto, un pianto sommesso e dignitoso come tutto in quella casa. Abbandonata sulla poltrona, aveva piegato la testa sul petto e nascosto la faccia tra le mani, mentre io non provavo nessuna commozione, fosse per naturale ripugnanza a immedesimarmi nelle sofferenze altrui o più verisimilmente perché le confidenze delle quali la signora Rosa mi onorava erano così gratuite che diventavano sospette. Più di ogni altra cosa non mandavo giù il vedermi gratificare di un'amicizia a cui non tenevo e che poteva giovare solo alla signora Rosa. In linea generale io non ho amici, ma Emilio non lo era stato mai in senso assoluto, e se mi ero indotto a occuparmi di lui, ciò era dovuto solo alla strano notizia della sua scomparsa. Confesso che quest'avvenimento aveva turbato la mia tranquillità fino al punto di costringermi a uscire dalla lunga solitudine. Che cosa aveva potuto spingere Emilio a scomparire in un modo così insolito nel giorno del suo matrimonio? Questa domanda mi aveva assillato sin dal primo momento in cui avevo appreso il fatto e continuava ad assillarmi ora di fronte alla signora Rosa. lo non conoscevo la sposa di Emilio, ma conoscevo il padre, il vecchio papà Donato che era stato amministratore del beni della mia famiglia quand'io ero bambino, e il mio interessamento al caso traeva la sua origine solo da questa circostanza.
Mentre ero immerso in questi pensieri, venne a distrarmi la vista di una donna nell'ingresso che, alle spalle della signora Rosa, faceva dei segni con le mani verso di me. Dapprima, dato l'ambiente semibuio in cui eravamo benché fosse giorno pieno, scorgevo solo una confusa figura che si agitava; poi, schiarendomi la vista, distinsi la donna e la sua strana mimica e credetti che parlasse con qualcuno dietro la finestra che le stava di fronte. Ma prima che mi voltassi per accertarmene, mi ricordai che ciò era impossibile perché la finestra era chiusa con appena aperto uno spiraglio dell'imposta che non permetteva in nessun modo di comunicare a mezzo di gesti con l'esterno. Soltanto allora fui certo che la donna parlava a me, proprio a me, e si spazientiva perché non la capivo o non le prestavo attenzione. Fu un momento molto difficile per me, sospeso com'ero tra il desiderio di sapere che cosa quella donna volesse e la coscienza dei miei doveri di ospite che m'imponevano di non darle retta. la signora Rosa mi fissava in un modo che tradiva il suo stupore per lo stato di agitazione che non riuscivo a nascondere, e seguiva incuriosita gli sguardi che lanciavo al di sopra del suo capo verso l'ingresso. Si voltò per rendersi conto di quel che accadeva alle sue spalle, ma non vide nulla perché la donna, che s'aspettava quella mossa e stava all'erta, si nascose prontamente dietro l'uscio. La signora Rosa ritornò a guardare verso di me, non convinta e palesemente nervosa, e io sentii di essermi fatto rosso, il che accrebbe i suoi sospetti. Ma finse di non notare nulla e si dispose a riprendere il suo discorso asciugandosi gli occhi col fazzoletto, mentre io vivevo sotto l'incubo di quell'apparizione che mi suscitava dei conturbanti dubbi. Chi era quella donna? E che cosa voleva da me? Confesso che arrivai a pensare cose che mi vergogno di riferire, sembrandomi ora, a distanza di tempo e viste alla luce dei fatti che si sono svolti, del tutto ridicole. Ma in quel momento erano cose per lo meno sospettabili, e io mi dicevo: "Possibile? In questa casa? E' una donna che non conosco nemmeno di vista?" Improvvisamente la signora Rosa si levò dalla poltrona, si affacciò nell'ingresso e, sorpresa la donna dietro l'uscio, le fece un tal rabbuffo che io stesso ne rimasi turbato. Poi si ricompose e mi disse dolce e affabile come prima:
"Dovete scusare, don Gegè. Le donne di servizio purtroppo sono così, tutte ineducate e indiscrete".
Io accondiscesi a un forzato gesto di consenso nel tentativo di dissimulare l'umiliazione che avevo dovuto subire nel sentirmi sia pure indirettamente coinvolto in quell'ambiguo rimprovero, e da quel momento la vecchia signora che mi stava di fronte fu per me oggetto, oltre che di diffidenza, di rancore. Lei disse: "Chissà che cosa dice la gente. Avete parlato con nessuno? Che cosa dicono?"
"Di che?" chiesi io ancora distratto.
"Di Emilio, di me, di quello ch'è successo".
"Ah - feci. - Niente. Almeno a me non hanno detto niente" e, ripreso il controllo dei miei pensieri, le riferii come, prima di risolvermi a venire a disturbarla...
"Niente disturbo - protestò lei. - Anzi piacere" e subito aggiunse: "Sempre gentile il nostro don Gegè!" a cui io non apposi alcun commento, meno che mai a quel "nostro" pronunziato con tanto tono confidenziale. Le riferii dunque che avevo sì cercato di raccogliere notizie dalla bocca della gente, ma che tutti erano stati estremamente cauti e riservati, per cui la mia visito aveva ora lo scopo appunto di sapere da lei perché la gente si comportasse a quel modo. "Con chi avete parlato?" mi chiese la signora Rosa arricciando le ciglia.
"Ma con tutti quelli che ho incontrato" risposi.
"E chi avete incontrato?"
"Non ve lo so dire perché non conosco la gente". "Non avete per caso incontrato i Fibbia?"
Io non avevo mai sentito questo nome. "Chi sono i Fibbia?" chiesi. "Come! Non li conoscete?" "Vi ho detto che non conosco nessuno, signora". Rimase un momento pensosa, poi disse:
"Ma i Fibbia ... Mi meraviglia che non conosciate i Fibbia e che non abbiate avuto mai a che fare con loro".
"Invece - risposi - non dovreste meravigliarvene conoscendo la mia vita ritirata".
La signora Rosa sollevò la testa, liberata dai pensieri, ed esclamò: "Oh sì, capisco".
E soggiunse: "Be' vedete: è gente pericolosa, che ha per mestiere quello di spargere notizie false e pettegolezzi. Io li temo per questo, e li temerete anche voi quando li conoscerete".
"Se son da temere perché spargono notizie false e pettegolezzi - osservai devo dire che c'è molta gente di cui bisognerebbe temere".
Ella allargò le braccia sospirando e rispose: "Ma c'è un'altra cosa che non sapete, ed è che i Fibbia avrebbero dovuto essere i compari d'anello al matrimonio che non s'è fatto".
"I compari d'anello!" esclamai sorpreso.
"Naturalmente era stato papà Donato che li aveva invitati - precisò lei intuendo la ragione della mia sorpresa - perché sono suoi amici intimi. lo li subivo e basta. Ora è accaduto che anche loro si sono ritenuti offesi, insieme con papà Donato, dall'atto di Emilio, ed è per quello che li temo in modo particolare".
"Ma qual è stato in conclusione il motivo della rottura del matrimonio?" chiesi io senza timore di parere indiscreto dal momento che la stessa signora Rosa si era indotta a parlarne.
Lei si turbò, si passò di nuovo il fazzoletto sugli occhi e rispose: "Quando mio figlio m'informò del suo fidanzamento con Elena di papà Donato, volli subito conoscere la ragazza. Siccome io non esco di casa da quando è morto mio marito, pregai Emilio che me la portasse lui stesso e scrissi anche un biglietto a Elena pregandola che volesse scusarmi se non andavo io da lei come sarebbe stato mio dovere. Per quella volta venne. Venne con le due sorelle e con papà Donato, e io fui contenta di vederla. lo non sono molto divertente nei miei discorsi, questo si sa, ma in quell'occasione feci di tutto per rendermi simpatica. Poi non so Più cos'è successo. Elena mi è stata molto cara e io non ho nulla da rimproverarmi sotto quest'aspetto. Ma è certo che ogni volta che pregavo mio figlio di condurmela di nuovo, egli s'innervosiva. Da quando Emilio è entrato in quella casa, devo dire che non è più quello d'una volta. E' diventato segreto, taciturno, scontroso, lui ch'era sempre così aperto con me... Ecco il mio dolore, don Gegè, e io non perdonerò mai a chi è stato la causa di tutto questo ... ". Un violento sbattere di usci troncò il suo discorso. la signora Rosa sembrava preoccupata e io, ricollegando questo incidente con la scena della domestica di poco prima, capii che mi conveniva ormai andar via. La signora Rosa si levò e disse: "Scusatemi", infilando l'uscio dell'ingresso. Ma anch'io mi levai subito dopo e dissi trattenendola: "Tolgo il disturbo, signora".
"Ve ne andate?" fece lei fermandosi ma più con aria di soddisfazione che di rammarico.
"Sì - risposi. - E' tardi".
"Allora vi faccio strada" disse lei precedendomi verso la porta.
Prima di uscire, gettai un rapido sguardo intorno in cerca della domestica, ma non vidi nessuno.

II
Quella visito non aveva dato nessun risultato, siccome le contraddittorie manifestazioni della signora Rosa autorizzavano ogni conclusione a suo carico: che fosse una donna ipocrita o sincera, cattiva o buona, degna di condanno o di pietà. La sua irriflessivo paura dei Fibbia e il morboso attaccamento al figlio erano elementi che militavano a favore della pietà nella stessa misura in cui le sue ultime parole che indicavano in Elena la causa del cambiamento di Emilio militavano a favore della condanna. D'altra parte il suo discorso conteneva una preciso dichiarazione di affetto per Elena, e questo rivelava una signora Rosa d'animo buono; così il riconoscimento della sua scarsa attitudine a rendere piacevole la sua compagnia aveva una innegabile impronta di sincerità, mentre quel sornione "sempre gentile il nostro don Gegè" sapeva d'ipocrisia. Se a tutto questo si aggiungeva lo sconcertamento che mi aveva lasciato la scena della domestica, rimasta senza una spiegazione, si può immaginare come uscissi deluso da quella casa. Mi rimaneva tuttavia ancora papà Donato dal quale mi ripromettevo di ottenere informazioni più precise sul caso di Emilio, siccome la sua antica professione di amministratore e i dati fisici che io ricordavo molto bene - statura imponente, larghe spalle, largo petto, i due più robusti polsi che avessi mai visti e lo sguardo aggrondato da due folte sopracciglia: proprio come dev'essere, a mio parere, un buon amministratore - si adattavano perfettamente all'idea di un uomo di poche parole, ma preciso: tutto l'opposto della signora Rosa. Benché dopo la morte del miei genitori avessi perduto ogni sua traccia, non ebbi difficoltà a trovare la sua casa. Era una comune casa di gente né ricca né povera, una tra le tante, addossata alle altre e da queste in nulla diversa. L'unico segno di distinzione era l'aspetto che mostrava di una casa a lutto, ma questo mi lasciò del tutto indifferente: credo che vi contribuissero la strada polverosa e deserta e i muri pieni di sole. Bussai. Venne ad aprirmi una ragazza al di sotto, credo, dei vent'anni, la quale al primo vedermi fu piena di cortesie e si presentò col nome di Carla. Era la seconda di tre sorelle, me lo spiegò lei stessa mentre m'invitava ad accomodarmi. lo ammirai la stanza grande con un tavolo in mezzo, un buffè e un controbuffè addossati ai muri e molte sedie intorno. Poi mi presentai, ma Carla mi disse che non ce n'era bisogno perché mi conosceva, e questo mi fece piacere. Ora bisognava ottenere che la mia visita non apparisse incomprensibile dopo la brusca interruzione di contatti avvenuta tra le due famiglie in seguito alla morte dei miei genitori, e a tal fine la presenza di papà Donato si rivelava indispensabile. Carla dovette intuire il mio pensiero se disse, senza altre domande: "Suppongo, che desideriate parlare con papà".
"Infatti" risposi io non trovando nulla di meglio per uscire da quello stato d'incertezza.
"Papà è in cucina - soggiunse Carla indicandomi la porta della cucina. - Se volete favorire".
A dire il vero, non notavo nulla in quella casa che si intonasse al lutto che il suo aspetto esterno mi aveva preannunciato, all'infuori della veste nera di Carla e del silenzio che vi regnava. Ma il nero della veste era del tutto improbabile che fosse in rapporto con l'attuale circostanza, e in quanto al silenzio, esso non è per se stesso indizio di lutto.
Ciò valse a disorientarmi allo stesso modo che mi era capitato entrando in casa della signora Rosa, e Carla, interpretando la mia titubanza come disappunto per essere stato invitato a favorire in cucina, disse: "Dovete scusare, ma papà s'è chiuso lì dentro, e dopo quello ch'è successo, capite ... ".
"Capisco, capisco - la interruppi io. - Ma non è il caso di preoccuparvi per questo, signorina. Io sto pensando piuttosto se non sia meglio rimandare tutto a un altro momento".
"Perché? - disse lei mostrandosi dispiaciuta che volessi andarmene - Credo invece che papà avrà molto piacere di rivedervi".
A questo punto si aprì la porta di un'altra stanza e comparve un'altra ragazza dalla cera cupa, che squadrandomi da capo a piedi con uno sguardo aggrottato e ostile chiese a Carla:
"Chi è?".
"E' don Gegè" rispose Carla mentre io abbozzavo un inchino.
Ma l'altra non si curò del mio inchino e disse aspra e sgarbata: "Non voglio visite. Di' che non voglio visite".
"E' Elena" mi dissi subito, senza attendere che me lo spiegasse altri. Ero curioso di osservarla e, senza nemmeno badare alle sue parole, me la immaginai in abito da sposa, abbandonata dallo sposo con velo e tutto tra la sorpresa e i commenti della gente.
Io non avevo pensato prima d'ora che era proprio lei la persona di maggiore interesse di quella famiglia, forse perché il ricordo di suo padre - ancora vivo in me -aveva attirato talmente la mia attenzione sin dal primo momento da lasciare in ombra tutto il resto. Ma adesso mi accorgevo che l'averla trascurata nei miei pensieri contribuiva a rendere piú immediata l'impressione che me ne dava la conoscenza diretta. Perciò la guardavo tutto preso dal fascino che emanava dal mistero della sua avventura e che si dissolveva in sentimenti contrastanti - di commiserazione e di diffidenza nello stesso tempo - attraverso i quali la sua figura mi appariva sfaccettata e, di conseguenza, sconcertante. Il suo stesso atteggiamento prevenuto non poteva che confermare i miei sentimenti. E forse fu questa prima impressione che, scavando profondamente nel mio animo, mi impedì sempre in seguito e per tutto il tempo che mantenni rapporti con la sua famiglia di nutrire per lei, non che simpatia, neppure una vera e propria pietà umana.
Carla stringeva nervosa i denti e si torceva le mani per dominarsi. Alla fine disse, persuasiva:
"Ma è don Gegè, vuole parlare con papà".
"Scuse. Sono tutte scuse. Ma io non voglio vedere nessuno" fu la replica secca di Elena che, com'era da prevedersi, scatenò un litigio tra le due sorelle. Poi Elena ebbe uno scatto di pianto e andò via sbattendosi dietro irosamente la porta.
Io e Carla rimanemmo di nuovo soli. Eravamo entrambi mortificati, lei per l'umiliazione subita e io per avervi assistito.
Per me che stento sempre a trovare le parole adatte alle circostanze, parlare in quel momento comportava il rischio di dire qualche sproposito, ma non parlare era peggio, perché equivaleva a confessare il mio disgusto: io, come sempre, scelsi il peggio, e credo che Carla me ne volle. Divenne improvvisamente fredda da così cordiale che s'era mostrato prima, e senza nemmeno tentare di scusarsi per l'increscioso incidente come sarebbe stato suo dovere, aprì la porta della cucina e disse: "Prego".
Allora dovetti entrare, sebbene fossi dubbioso e riluttante, e in un angolo scorsi un uomo seduto su uno sgabello, con i gomiti sui ginocchi e la faccia tra le mani. Che fosse papà Donato lo indovinai, ma non mi fu facile riconoscerlo per il modo in cui era seduto.
"Chi è?" chiese voltando leggermente la testa verso di noi.
"E' don Gegè" rispose Carla, e papa Donato fu scosso dalla notizia e si alzò. Era una logora figura di vecchio che solo con uno sforzo d'immaginazione potei ricollegare al mio papà Donato d'un tempo. Rimaneva solo la forte aggrondatura delle sopracciglia, più forte ancora rispetto al viso smagrito, che metteva in risalto la severità dello sguardo. Attesi che venisse avanti per osservarlo meglio. Quando mi fu di fronte, mi fissò a lungo col suo sguardo severo ed esclamò:
"Oh è proprio don Gegè! ".
Gli lessi negli occhi il desiderio di abbracciarmi e non ebbi l'animo di deluderlo. Mentre mi baciava, lo sentii piangere contro la mia guancia. Poi mi condusse verso il suo sgabello e Carla rimase con noi. Ci sedemmo, io su una sedia e papà Donato sullo sgabello. Lui, con la schiena appoggiata al muro, mi sorrideva triste e Carla si gettava vento in faccia agitando un cartone, rimasta in piedi un po' più dietro di me. lo godevo di quel vento che arrivava fino a me sfiorandomi il collo; sentivo papà Donato mandare prolungati sospiri; guardavo la stanza, troppo ampia per una cucina, il camino basso pieno di cenere davanti a me, la porta di servizio che dava nel giardino, aperta a sghembo per riparare dal sole, e tutti gli oggetti casalinghi distribuiti un po' dovunque con bell'ordine e senza ingombro: la madia, la dispensa, una sveglia sulla dispenso, due piccole botti, un barile, una stadera, i quadri e le fotografie pendenti dai muri. La presenza di questi oggetti rendeva più accogliente la stanza, e io ne ero soddisfatto e cominciavo ad aver piacere a starci. A un tratto notai che non avvertivo più il vento sulla nuca. Mi ricordai che Carla stava dietro di me e agitava un cartone, ma se il vento non c'era più, ciò era segno che il cartone si era fermato. Mi voltai per sapere perché si era fermato e non trovai Carla: era scomparso senza che io me ne fossi accorto, andandosene zitta zitta in punta di piedi. Papà Donato aveva smesso di sospirare e aveva piegato la testa sui petto: dal respiro rumoroso e profondo mi parve che dormisse. Guardai intorno per tutta la stanza quant'era ampia, in cerca di Carla, e rividi i soliti oggetti: la madia, la dispensa, le botti, il barile, i quadri e le fotografie. Mi sentii solo, completamente solo e estraneo a tutti quegli oggetti. Ebbi paura. Attesi ancora un poco, poi mi levai e mi diressi anch'io in punta di piedi verso la porta. Mi chiedevo dove fosse andata Carla. Era possibile che fosse tornata da Elena per dirle male di me, che ero stato io la causa dei loro litigio, e ora aspettasse che me ne andassi per fare la pace con lei. Oppure che le due sorelle, fatta già la pace, si nascondessero tutt'e due insieme dietro qualche uscio e di lì spiassero i miei movimenti. In ogni caso l'improvvisa scomparsa di Carla e il contemporaneo assopimento di papà Donato erano dei fatti assai sconcertanti che sconsigliavano una mia ulteriore permanenza in quella casa. Aprii con cautela la porta e scappai via. la gente che incontrai per strada mi vide camminare in un modo insolito, come se fuggissi; notai sguardi curiosi e maligni sopra di me. Allora mi controllai e rallentai il posso. Giunto a casa, risalii in fretta le scale sfuggendo alla vista della mia governante per evitare che si accorgesse della mia agitazione e m'importunasse con inutili domande. Mi chiusi in camera mia e mi abbandonai sulla poltrona, aspettando trepidante che papà Donato venisse a cercarmi. In quel momento pensai a Emilio. Forse anche lui era fuggito nello stesso modo, e io sentivo ora come mia la sua vergogna. Quando udii picchiare giù al portone, mi contrassi tutto nella poltrona fino a scomparire in essa e gridai alla governante che non ero in casa per nessuno. Ero certo che si trattava di papà Donato il quale, svegliatosi e non avendomi veduto, veniva a chiedermi conto d'ella mia fuga, ma io temevo la sua vista ed ero deciso a non riceverlo. Mi ripetetti per tre volte questa decisione per confermarmi in essa e non volli spiare dalla finestra per non essere scoperto. H picchio al portone si fece insistente e si ripercuoteva nella mia testa dolorante. Dio come picchiavano forte! Picchiavano così forte che sembrava non volessero andar via. E io mi prendevo la testa tra le mani e chiudevo gli occhi e vedevo papà Donato impazzare col battente contro il portone. Avevo paura anche di gridare e me ne stavo rannicchiato nella poltrona in un'attesa angosciosa che il battente facesse. la governante mi gridò da giù: "Son sette beccamorti che vogliono entrare per forza".
"Beccamorti! - esclamai io tirandomi un poco su dalla poltrona - Chi sono i beccamorti?"
"Li ho visti dallo spioncino, vogliono entrare per forza" ripeté lei.
Ripresi animo, respirai. Se non era papà Donato, non m'importava che fossero anche i beccamorti. Levatomi dalla poltrona, mi accostai piano alla finestra, guardai giù evitando di sporgere troppo la testa in fuori e scorsi un gruppo di persone. La governante diceva: "Via! Via! Via! Oh quanti conti bisogna dare!" e quelli ribattevano: "Vi diciamo che c'è, l'abbiamo visto noi entrare poco fa".
Mi affacciai sul pianerottolo delle scale e vidi la governante che, di spalla contro il portone e puntando i piedi per terra, resisteva alla loro pressione. Ma benché fosse alta e robusta, non ce la faceva da sola. Uno di loro, spiando dallo spiraglio che s'era formato tra un battente e l'altro dei portone, gridò: "Eccolo lì don Gegè, lo vedete?"
La governante guardò su verso di me e io le feci segno di aprire. Lei si mise da parte, rassegnata ma non convinta, e lasciò il passo ai sette "beccamorti" che vennero su ordinatamente e in fila indiano. Nonostante la stagione inoltrata, indossavano un vestito nero, con cappelli neri, cravatte nere, scarpe nere. Avevano la stessa testa grossa, gli stessi capelli, le stesse mascelle larghe, lo stesso sguardo cruccioso, e dimostravano una calma ostinata.
Entrarono, si tolsero il cappello, compiti ma senza affettazione, e fecero tutto da sé: presero le sedie, si sedettero e poggiarono i cappelli sulle gambe. Poi, uno, forse il più anziano e il più autorevole tra loro, parlando a nome di tutti, mentre gli altri si limitavano ad approvare con un lieve e sincronico movimento dei capo, disse: "Voi forse non ci conoscete".
Io risposi con un timido cenno della testa che non avevo questo piacere.
"Infatti non ci siamo mai incontrati finora" confermò lui e aggiunse: "Noi siamo i Fibbia".
"Oh!" esclamai io dalla sorpresa.
Egli si affrettò a scusarsi con me per avere insistito perché fossero ricevuti, ma ne addossò la responsabilità alla mia governante che si era ostinata a negare che io fossi in casa. Loro ammettevano che io potessi non essere disposto a riceverli, nel qual caso non avrebbero avuto difficoltà ad andar via per ritornare in un altro momento; ma non comprendevano come la governante, per ottenere questo, avesse avuto bisogno di ricorrere a una bugia che tra l'altro non ingannava nessuno, dal momento che essi sapevano con certezza che io ero in casa.
Accusai il colpo arrossendo e, o per viltà o per l'irritazione, non dissi nulla a discarico della governante che avevo io stesso costretta a quella bugia. Di fronte al mio silenzio essi si irrigidirono e mi fissarono in un modo che mi turbò, come se mi avessero letto dentro.
Il portavoce aggiunse: "Abbiamo inoltre sentito in quali termini la vostra governante si è espressa nei nostri confronti, e avremmo francamente preferito non sentirla per non essere costretti a parlarne. Ma adesso voi capite che non sarebbe bello da parte nostra fingere di niente, impostando sin dall'inizio i nostri rapporti su una finzione".
Questa volta risposi che ero mortificatissimo per il comportamento scorretto della mia governante, ma che tuttavia avevo piacere che essi l'avessero udita, perché questo mi offriva l'occasione di riparare l'offesa.
Il mio interlocutore, di cui ora scoprivo un tic nervoso alla palpebra sinistra, scosse il capo e disse: "Noi riteniamo più semplicemente che, se non avessimo sentito nulla, non ci sarebbe stata offesa, e ora non staremmo qui a discuterne".
"Comunque - rilevai io innervosito dal suo insistere su un concetto che, anche se fosse stato giusto, era in ogni caso ozioso - il fatto ormai è avvenuto e non giova rammaricarsi che sia avvenuto. Spetta a me piuttosto di punire la mia governante come si merita".
"Vogliamo precisare - disse allora il Fibbia - che non è alla punizione che teniamo, ma piuttosto a far capire alla governante che non si dicono certe cose senza una ragione. Resta infatti da sapere che cosa mai l'abbia indotta a usare quel termine".
Anch'io per la verità ero convinto che non esistesse una ragione da addurre all'infuori della sconsideratezza, a me dei resto ben nota, della mia governante. Ma non era men vero che nel caso presente la sua sconsideratezza era stata incoraggiata dall'ordine che io stesso le avevo dato di non aprire, sicché mi ritenevo in parte responsabile della sua colpa, e covavo un rancore sordo contro i Fibbia che mi avevano messo in queste angustie.
"Si può chiamarla - soggiunse quello del tic. - Dei resto è bene sempre dare a chiunque la possibilità di difendersi".
Chiamai la governante, non per darle, come diceva lui, la possibilità di difendersi - possibilità che risultava allo stato dei fatti praticamente inesistente - ma piuttosto per rimproverarla davanti a loro stessi.
"Perché hai chiamato questi signori in quel modo sconveniente che sai?" le chiesi in tono severo quando mi fu davanti.
"Beccamorti?" fece lei con un'aria innocente mentre io sogguardavo allibito i Fibbia. "Be'- soggiunse. - Sapete com'è: io ho visto quelle loro divise e mi è venuta in mente quell'idea".
I Fibbia spalancarono gli occhi, tutti nello stesso modo, spingendo il busto rigido contro lo schienale della sedia, e si lanciarono delle occhiate interrogative guardandosi simultaneamente i vestiti. Mi aspettavo che se ne andassero via indignati, invece il portavoce si rivolse a me e si limitò a dire: "E' una ragione veramente singolare".
Mi fissò a lungo e soggiunse: "Riconosciamo però che è pur sempre una ragione ... Sta bene. Per parte nostra l'incidente si può considerare ormai chiuso". Tornò a guardare gli altri, soddisfatto e - mi sembrò - anche orgoglioso della sua risposta che, a quanto potei arguire, doveva a sua volta aver messo l'animo in pace a tutti, se tutti si batterono contemporaneamente la gamba col palmo della mano e l'espressione del foro volti divenne più distesa. lo, per parte mia, incantato da un simile comportamento che non sapevo se prendere sotto l'aspetto del serio o del faceto, mi chiedevo in quale razza mai di gente mi fossi imbattuto; ma data la scarsa pratica che avevo degli uomini, ritenni prudente astenermi da ogni giudizio. Semai dovevo essere contento che una disputa dall'esito imprevedibile si fosse conclusa pacificamente, e volli perciò manifestare la mia simpatia al Fibbia che si era dimostrato cosí comprensivo. Gli sorrisi, ma né lui né alcun altro dei suoi compagni rispose al mio sorriso. Mi guardarono impassibili, passando senza altri preamboli a spiegarmi il motivo della loro visita. Dissero che mi avevano visto andare a casa della signora Rosa e di papà Donato, che avevano preso atto con soddisfazione del mio interessamento allo scandalo di Emilio e avevano ritenuto opportuno di venire a chiedermi quale sarebbe stato il mio atteggiamento in caso di una foro azione contro Emilio.
Rimasi interdetto. Innanzitutto mi meravigliava che le mie visite - compiute peraltro nel massimo riserbo - alla signora Rosa e a papà Donato fossero state segnalate e prese in tanta considerazione. In secondo luogo non avevo nulla da rispondere alla loro domanda che era, tra l'altro, di non facile interpretazione. Allora chiesi, per chiarirmi le idee:
"Ma voi come c'entrate in questa faccenda?"
"Come! - esclamò il Fibbia, appoggiato da tutti gli altri con un corrugamento della fronte - Non ve l'ha detto papà Donato? Noi credevamo che ve l'avesse detto. Allora perché ci siete andato?"
E come io esitavo, subito aggiunse: "Bene, vuoi dire che ve lo spiegheremo noi. Dovete dunque sapere che noi eravamo i compari d'anello al matrimonio che non s'è fatto".
"Questo lo sapevo" risposi.
"Ed è giusto quindi che ci riteniamo offesi insieme con papà Donato dall'indegno comportamento di Emilio".
"Ma non tanto da sostituirvi a papà Donato".
"Papà Donato non è più lui purtroppo - disse il Fibbia. - Dorme sempre adesso".
"Questo è vero" sottolineai io per dimostrare che il fatto mi aveva particolarmente colpito.
"E dunque dobbiamo pensare noi a far riparare a Emilio l'offesa, perché a papà Donato ci lega un'intima amicizia".
"Capisco - dissi. - Ma in che modo intendete fargli riparare l'offesa?"
"Costringendolo a fare il suo dovere. Si è sempre in tempo per questo, ed è anche giusto".
Io per parte mia non indovinavo con quali mezzi avrebbero convinto Emilio a fare il suo dovere. In ogni caso era una faccenda che non mi riguardava, e risposi freddamente: "Ho il dovere di informarvi che le mie visite alla signora Rosa e a papà Donato, che voi avete interpretato come segno di un mio interessamento allo scandalo di Emilio, avevano uno scopo dei tutto diverso e personale".
Rimasero delusi. Si guardarono per concordare una decisione e si levarono subito in piedi. Quello dei tic disse: "Ci sembra molto strana la vostra dichiarazione, perché una visita a quelle persone in questo momento non può non avere il significato da noi già detto. Ad ogni modo non ci resta che stare alle vostre parole e considerare chiuso il nostro colloquio, lasciando naturalmente a ognuno la responsabilità delle proprie decisioni".
Si rimisero tutti insieme il cappello in testa e andarono via. Discesero le scale in fila indiana così com'erano saliti, mentre io mi limitavo a osservarli senza avvertire un preciso bisogno né di richiamarli né di lasciarli andare. Quando furono giù, mi affacciai dalla finestra e li vidi uscire dal portone nella strada e allontanarsi in truppa, sollevando una nuvola di polvere.
Seguii con gli occhi la scia della polvere fino in fondo alla strada finché non scomparvero, poi richiusi la finestra e mi sdraiai di nuovo nella poltrona. Sentivo il vuoto della mia esistenza, e come tutto mi venisse dagli altri e niente fosse mio: pensieri, volontà, passioni. Mi ripugnava sentir vivere gli altri dentro di me, e tuttavia era una realtà di cui non potevo liberarmi, essa mi veniva sempre davanti e s'immetteva nella mia vita. Invocavo il mio passato e la libertà perduta, ribellandomi ai Fibbia che facevano violenza al mio cervello e alla mia volontà; volevo scacciarli da me come li avevo scacciati da casa mia, ma ero come un pazzo che vuole scacciare di caso se stesso. Allora mi levai e mi recai di nuovo dalla signora Rosa. Bussai di nuovo al portoncino lucido, ma questa volta non mi fu aperto subito, mi fu chiesto chi è. lo non risposi, tornai a bussare. Era giorno pieno, c'era gente per la strada, non si comprendeva tanta pignoleria da parte della signora Rosa che era stato così sollecita ad aprirmi la prima volta. Di nuovo la voce dall'interno: "Chi è?"
Non era però la voce della signora Rosa, la conoscevo bene; doveva essere semmai la domestica, allora dissi: "Sono don Gegè" sperando che il ricordo del mio nome la inducesse ad aprirmi. lo non sapevo ancora che cosa quella donna desiderasse da me né mi facevo molte illusioni sull'importanza dei suo segreto, ma il fatto che avesse comunque da dirmi qualcosa mi assicurava che l'avevo già dalla mia parte, almeno quanto bastava perché mi aprisse.
"La signora Rosa non sta bene".
Fu questa invece la risposta che con mia sorpresa mi venne dall'interno. Pensai che mi ero sbagliato e che non fosse la voce della domestica o per lo meno di quella che conoscevo io.
"Ma è importante, è molto importante, devo parlare con la signora Rosa" insistetti, con poca speranza però di essere ascoltato, in quanto mi sembrava improbabile che qualcun altro che non fosse la domestica disobbedisse a un ordine della signora Rosa su cui non avevo più dubbi e che, per di più, aveva l'aria di essere perentorio. Tuttavia ottenni di vedere che il portoncino si muoveva. Fu appena uno spiraglio, da cui s'indovinava che qualcuno era a spiare con molta cautela, ma io con una gomitata lo spalancai ed entrai di forza. In quello stesso istante apparve la signora Rosa. Era fredda, come se non mi riconoscesse. Si rivolse a guardare accigliata la donna che mi aveva aperto e nella quale io riconobbi la domestica che voleva parlarmi. Mentre questa, impaurita, arretrava verso l'interno, lei disse con voce severa: "Ti avevo ordinato di non aprire a nessuno".
Io mi affrettai a discolparla accusando la mia insistenza per farmi aprire, ma la signora Rosa rispose impassibile: "Questo non ha importanza" e subito aggiunse: "Chi siete? Che cosa volete da me?"
Ero impietrito. Guardavo quel volto duro e non credevo ai miei occhi. Dissi: "Signora Rosa! Non so davvero a che debbo attribuire codesto improvviso cambiamento. Riconosco che il mio ritorno non è molto opportuno, ma lasciate almeno che ve ne spieghi il motivo".
"Noi non abbiamo nulla da dirci ormai, nulla, nulla, nulla" gridò lei con voce alterata e fuggì nelle stanze interne.
Passò qualche secondo mentre io riflettevo a quel che mi convenisse fare, allorché la signora Rosa tornò e venne a pararmisi davanti con le mani giunte: "Anche voi vi siete schierato contro di me!" esclamò.
Tremava, balbettava, mi confidò che aveva saputo che i Fibbia erano stati a casa mia e che la notizia l'aveva turbata, perché questo era segno che io mi ero messo contro di lei.
Io cercavo di calmarla, ma inutilmente. lei mi ripeteva convulsamente: "Dite, dite se non è vero che i Fibbia sono stati a casa vostra. Siete capace di negarlo?" e si metteva le mani intrecciate vicino alla bocca e piangeva: "Tutti contro di me, tutti contro di me!"
Quando finalmente mi lasciò parlare, le dissi che non era vero quello che pensava e che io non avevo nulla contro di lei. Che cosa poteva spingermi a mettermi contro di lei? Il fatto che i Fibbia fossero venuti a casa mia non provava nulla, perché dopotutto non ero stato io a chiamarli, e poi lei non sapeva nemmeno che cosa mi avessero detto.
"Oh questo si può facilmente intuire" osservò lei calmandosi un poco e asciugandosi gli occhi.
"Ma non conoscete in ogni caso quello che ho risposto io - ribattei. - Potete affermare di conoscerlo?"
Ella scosse dolorosamente la testa in senso negativo e scoprì in quel gesto l'angoscia del suoi dubbi.
"Bene - soggiunsi. - Ho detto chiaro e tondo che la faccenda di Emilio non mi riguarda e che la mia visita qui aveva uno scopo strettamente personale." "Non vi hanno creduto. Siate certo che non vi hanno creduto" esclamò lei, rinfrancata però dalla mia dichiarazione.
"Infatti" ammisi.
A importante comunque che abbiano capito che voi siete contro i loro intrighi".
Questo tentativo da parte della signora Rosa di farmi credere, svisando ad arte il senso delle mie parole, che mi fossi dichiarato solidale con lei e contrario ai Fibbia m'irritò.
Così risposi: "Mi corre l'obbligo di precisare con tutta onesta, signora, affinché non sorgano equivoci tra noi, che io non mi sono pronunziato in nessun senso, né contro di voi né contro di loro".
Ella sorrise un ottimo e senza per nulla scomporsi disse:
"Lo so, don Gegè, lo so. Conosco benissimo qual'è il vostro atteggiamento e non so darvi torto. Ma io alludevo al significato che i Fibbia avranno dato alle vostre parole, e su di esso non possono sorgere dubbi. Essi infatti non sanno giudicare il prossimo se non nei termini di amico o di nemico. Perciò hanno molti nemici. Ma loro sono tanti e non hanno paura".
"Tanti?! - esclamai Sette. Non sono sette?"
"Sette? - osservò lei Sette sono quelli che avete conosciuti voi. Ma è una razza maledetta che non finisce mai ... Comunque - soggiunse aprendo subito il portoncino - vi prego di scusarmi per la poco amichevole accoglienza. E' stato un momento di disperazione. Ma d'ora in avanti la mia casa è sempre aperta per voi".
"Mi congedate?" dissi io deluso per la seconda volta e non nascondendo il mio disappunto per il suo gesto che, oltre a essere indelicato, era in aperto contrasto con la professione di amicizia che contemporaneamente mi faceva. Volevo pregarla che mi ascoltasse ancora per un poco, perché mi chiarisse alcuni dubbi sui Fibbia e su tutta la faccenda di Emilio, ma lei mi porse la mano dicendo: "Dovete scusarmi, ma è che in questo momento sono molto occupata. Dei resto mi pare che abbiamo chiarito tutto ormai, non è vero?"
Non risposi. Le strinsi solo la mano con una freddezza pari alla mia irritazione. lei non se ne dette per intesa e, nel congedarmi, mi regalò uno di quei suoi sorrisi manierati che io non raccolsi.

III
Mi allontanavo molto innervosito dalla casa della signora Rosa quando, dopo venti passi, mi sentii richiamare. Mi voltai di scatto e scorsi la domestica, sempre la stessa, che dalla finestra mi faceva segno di tornare. Mi precipitai, non sapendo se mi ridesiderava la signora Rosa o mi richiamava lei per dirmi quello che sin dalla mattina cercava di dirmi; ma prima che fossi a una distanza ragionevole per parlarle, essa mi sbatté la finestra in faccia e scomparve lasciandomi in tronco in mezzo alla strada. Benché il procedimento fosse quanto mai insolito, io ero certo che avesse chiuso la finestra per andare ad aprirmi il portoncino, non immaginando che si potesse giungere a tanto in una caso rispettabile. Mi avvicinai quindi al portoncino in attesa che esso si aprisse. Non ricordo quanto tempo aspettai, ma non appena mi convinsi che era ormai inutile aspettare, non mi restò altro da fare se non prendere atto dell'assurdità dell'episodio. Potevo sospettare che un improvviso arrivo della signora Rosa avesse costretto la domestica a richiudere in fretta la finestra senza avere il tempo di avvertirmi, ma allo stato delle cose e dati i precedenti, niente m'impediva più di credere che quella donna si prendesse giuoco di me. Mi rodevo dalla stizza, volevo tornare a bussare al portoncino per esporre alla signora Rosa l'accaduto, ma c'era gente che mi osservava per la strada e ciò contribuì ad accrescere la mia confusione. Così mi astenni da qualsiasi protesta per evitare pettegolezzi che avrebbero avuto il solo risultato di espormi ancor più al ridicolo, e ritornai indietro, desideroso di arrivare presto a casa.
Giunsi a casa avvilito e infilai di corsa le scale per chiudermi in camera e rimanere solo. Non avevo ancora superato la prima rampa che m'accorsi che qualcuno mi aspettava in cima al pianerottolo. Non indovinavo chi potesse essere, ma la sola presenza di un estraneo in casa mia in quel momento mi riusciva quanto mai sgradevole. lo guardavo accigliato, e lui invece mi faceva gl'inchini di sopra, mostrandosi molto lieto di vedermi. Fu il suo sorriso triste, velato dalle sopracciglia spioventi, il primo a colpirmi: arrossii riconoscendo papà Donato, e cercai istintivamente se mi era possibile tornare giù a nascondermi in qualche posto, ma non feci in tempo a evitare l'incontro.
Papà Donato venne avanti tutto vergognoso, col cappello in mano, e mi chiese scusa per quello ch'era accaduto a casa sua. Disse che non poteva perdonarsi la debolezza di essersi addormentato in mia presenza e che il fatto si doveva spiegare con lo stato d'animo in cui tutti si trovavano nella sua famiglia, e che li aveva indotti, contro la loro volontà, quasi a dimenticarsi di me. Già lui si meravigliava che mi avessero ricevuto in cucina, e questo era un altro grave atto di distrazione che era costretto ad ammettere. Egli era convinto che, se non mi avessero ricevuto in cucina, non gli sarebbe capitato di addormentarsi. Ma la colpa era stata tutta di Carla...
A questo punto lo interruppi per osservare che, contrariamente a quanto lui supponeva, l'essere stato introdotto in cucina mi aveva fatto molto piacere, perché mi aveva permesso di sentirmi un po' come a casa mia.
"Non c'è dubbio - mi rispose. - Infatti anche io sto preferibilmente in cucina, ma questo non cambia nulla. Innanzitutto noi non lo sapevamo se vi faceva piacere, in secondo luogo la cucina è stata la causa del mio sonno".
Io lo lasciavo dire, e lui, continuando, mi confessò che erano rimasti sorpresi della mia degnazione di metter piede in casa loro, ma dopo quello ch'era accaduto non speravano più in una simile fortuna. Per la verità, non appena si erano accorti della mia scomparsa, superato il primo momento di confusione, sia lui che Carla e Nanetta avevano ripreso a sperare che sarei tornato. Carla diceva: "Tornerà, vedrete che tornerò, non può essere andato via sul serio", confortandosi così, perché lei sapeva che io avevo, qualcosa da dire e non comprendeva come potessi andar via senza averlo detto. Nanetta dal canto suo era dei parere che non fossi affatto andato via, ma che mi fossi nascosto in qualche posto per fare una sorpresa, ed era corsa a spiare in giardino e in tutti gli angoli della cucina, perfino dietro le botti, per ritrovarmi. Alla fine, accertatasi che ero veramente andato via, si erano messi tutti e tre ad attendermi dietro l'uscio ed erano rimasti lì per più di un'ora, osservando tutta la gente che passava. Concluse assicurandomi che sia lui che le ragazze mi ricordavano con simpatia.
Io ero rimasto freddo ad ascoltarlo, non ritrovando più la commozione di due ore prima. Lo sentivo estraneo, tanto estraneo che la sua stessa presenza mi ripugnava. Ogni volta che lo guardavo, mi ritornava alla mente il ricordo fastidioso della mia fuga, ed esso isteriliva sul nascere ogni sentimento di simpatia per lui e perfino la volontà di essere cortese. Non avrei dovuto vederlo a nessun costo, forse questo sarebbe stato meglio per tutt'e due. Non lo avevo nemmeno fatto accomodare in casa, lo avevo lasciato in piedi, come un servo, sul pianerottolo delle scale dove l'avevo trovato. Gli promisi che sarei tornato a fargli un'altra visita, ma ero freddo e scostante anche nelle promesse. Egli se ne accorse e non mi credette e diventò triste. Non ebbe il coraggio di rimanere un minuto di più, disse: "Vedo che siete stanco. Ora tolgo il disturbo e vi chiedo scusa", e rimessosi il cappello in testa, andò via.
Io lo guardai discendere le scale con passo incerto, quelle scale a lui ben note, ed ebbi rimorso di essere stato ingeneroso, ma rimasi lì lo stesso senza far nulla. Mi appoggiai alla ringhiera dei pianerottolo e fissai il portone da cui papà Donato era uscito. Pensavo agli anni della mia fanciullezza, quando mio padre diceva che papà Donato sarebbe rimasto sempre con noi, anche da vecchio, perché egli non vedeva come avremmo saputo cavarcela da soli senza di lui. In realtà papà Donato era tutto in cosa mia e conosceva tutti i segreti della mia famiglia. A questa fiducia che noi gli accordavamo egli corrispondeva dal canto suo con assoluta fedeltà, tanto che mio padre non esitava ad affidargli anche grosse somme di denaro: non ho mai saputo che si sia approfittato di un centesimo. Una notte ci salvò dai ladri e d'allora io lo considerai come un eroe. Mi pareva che tutta la sua forza fosse in relazione col pericolo dei ladri, così che se i ladri fossero stati messi in carcere, egli non avrebbe saputo più che farsene di tanta forza, come viceversa, quando lui non ci fosse stato più, tutti sarebbero diventati ladri. Per un altro verso però non riuscivo a immaginarmi come anche papà Donato potesse morire. l'idea che egli non dovesse rimanere per sempre nella mia vita era così estranea alla mia mente che non rientrava nemmeno nell'ordine delle supposizioni. Crebbi così con questa convinzione che papà Donato appartenesse a me. Invece subito dopo la morte del miei genitori egli scomparve e tutti i nostri rapporti furono troncati.
Mi sentivo arido come una pietra, nonostante che i ricordi rifluissero nella memoria. Mi tirai su e mi stirai le braccia con l'intenzione di rientrare in cosa. Un'ombra apparsa vicino al portone mi trattenne. Mi chinai di nuovo sulla ringhiera per osservare meglio e scorsi una testa che si affacciava; poi comparve un ragazzo che guardò intorno, mi vide e infilò le scale saltando i gradini a due per volta. Quando fu sopra, mi consegnò un biglietto dicendo: "Mi manda la donna della signora Rosa. Dice di darlo alla signorina Carla di papà Donato".
"Alla signorina Carla? - esclamai stupito - Forse vuoi dire alla signorina Elena".
"Lei dice di darlo alla signorina Carla - ripeté il ragazzo - perché la signorina Carla sa di che si tratta".
"E te l'ha dato proprio la donna della signora Rosa?" chiesi io ripensando all'episodio della finestra mentre mi pareva di trovare finalmente il bandolo di tanto mistero.
"Sì - rispose il ragazzo. - Dice pure di scusarla per avervi chiuso la finestra. E' che vi aveva chiamato per darvi il biglietto, siccome aveva saputo che vi recavate in casa di papà Donato, ma subito si è accorta che la stavano osservando i Fibbia".
"I Fibbia? Dove stavano i Fibbia?" Il ragazzo corrugò la fronte.
"Non li avete visti? - disse - Eppure stavano lì di fronte alla casa della signora Rosa. C'ero anch'io e ho visto come vi hanno guardato quando siete rimasto fermo in mezzo alla strada".
"Quelli lì? Ma quelli non erano i Fibbia".
"E chi erano allora?" esclamò il ragazzo con un sorriso ironico. Ma io sapevo che i Fibbia avevano un vestito nero e lì non mi era parso di vedere nessuno vestito di nero.
"Ma tu di quali Fibbia parli?" gli chiesi.
"Be', di quelli ch'erano lì" rispose lui con un gesto che scopriva la sua meraviglia per questo mio insistere su una questione che doveva sembrargli del tutto fuori posto. Allora io mi ricordai di ciò che mi aveva detto la signora Rosa circa la razza dei Fibbia e mi resi finalmente conto dell'equivoco. Era chiaro che i Fibbia a cui si riferiva il ragazzo erano diversi da quelli che conoscevo io. Restava tuttavia il fatto che le facce che avevo visto di fronte alla casa della signora Rosa non avevano nulla in comune con quelle del sette Fibbia da me conosciuti, sicché o non erano facce di Fibbia o bisognava ammettere che non tutti i Fibbia fossero tali da incuter paura. In ogni caso essi avevano l'aria di gente che se ne stava per i fatti propri e mi sembrava per lo meno stravagante affermare che perdessero il loro tempo dietro a una domestica. Presi ugualmente il biglietto, assicurai al ragazzo che l'avrei consegnato alla signorina Carla e lo congedai. Ora mi tornava il dubbio su quel biglietto. lo non ero ancora del tutto persuaso, nonostante la ripetuta assicurazione dei ragazzo, che esso fosse indirizzato a Carla. Già, allo stato delle cose, lo stesso invio di un biglietto - che presumevo fosse di Emilio e comunque proveniva da casa sua - alla famiglia di papà Donato, era un fatto così sorprendente che il problema dei destinatario passava in seconda linea. Una cosa era certa: che esso doveva essere molto importante e che in nessun modo avrei potuto esimermi dal recapitarlo. Così stabilii che mi sarei recato a casa di papà Donato nelle ore pomeridiane. Pranzai, mi riposai e quindi mi accinsi a compiere la mia nuova missione di messaggero.
Fu di nuovo Carla che venne ad aprirmi. Disse, rivedendomi:
"Oh avanti, avanti. Questa mattina siete scappato via così subito! " ma con un tono cordiale che non nascondeva alcuna intenzione di rimprovero o d'ironia per la mia fuga, anzi dimostrava molta contentezza per il mio ritorno.
"Però anche voi siete scomparsa così all'improvviso" risposi io nello stesso modo amichevole. Lei esclamò sorridendo:
"Sfido! Siete stato tanto tempo senza dir nulla" e mi fece arrossire. Ma si accorse subito della battuta indiscreta e si corresse: "Ho scherzato naturalmente. In fondo è stata anche colpa mia".
Dietro Carla comparve un'altra ragazza che però non era Elena e mi parve ancora piú giovane di Carla. Si presentò da sé, disse accennando un inchino: "Nanetta" e arrossí. Da quel momento non mi staccò più gli occhi di dosso. lo pensai: "Questa è dunque Nanetta!" e me la immaginai mentre correva a spiare in giardino e dietro le botti per ritrovarmi. Era una ragazza che poteva avere sedici o diciassette anni, con una veste rigata bianco e rosso, i capelli lunghi e sciolti, viso aperto: furono gli unici tratti che notai in quel momento. Restammo lì, nella stanza d'ingresso, tutti e tre, e ci sedemmo intorno al tavolo. Carla si mise di fronte a me, separata da me dal tavolo, e accanto a lei sedette Nanetta che continuava a fissarmi. Sentirmi sotto il fuoco di quello sguardo mi rendeva nervoso. Sul tavolo c'era un fascio di carte: io mi detti a osservare quelle carte per nascondere il mio imbarazzo. C'era anche un paralume accanto alla pila di carte, e la mia attenzione si fermò su un punto tra le carte e il paralume. Nessuno ancora parlava. Pareva che tutti e tre, piantati come tre statue intorno al tavolo, avessimo solo da guardarci. lo da parte mia avevo un argomento da trattare, ch'era quello del biglietto, ma non mi risolvevo a intavolarlo essendo ancora incerto se dovessi farlo con Carla o con Elena. Temevo di combinare qualche pasticcio, siccome andava sempre più facendosi strada in me il sospetto che il ragazzo fosse incorso in un maledetto equivoco, e a confermare i miei dubbi c'era lì l'atteggiamento di Carla che, contrariamente a quanto il ragazzo aveva lasciato intendere, non dimostrava per nulla di essere in attesa di notizie. Si aggiungeva la presenza di Nanetta che m'impediva di parlare, perché almeno in quanto a Nanetta ero sicuro che dovesse rimanere estranea alla faccenda. Attesi per qualche tempo nella vana speranza che Nanetta andasse via, mentre continuavamo a guardarci tutt'e tre in silenzio. lo, sotto l'incubo di ciò ch'era accaduto la prima volta, temevo che non avessero a ripetersi le condizioni che mi avevano spinto allora a fuggire, ma a liberarmi da quest'incubo intervenne Carla che disse:
"Sapete che questa mattina son venuti i Fibbia? Son venuti una prima volta e siccome mio padre non c'era, sono andati via dicendo che sarebbero tornati. Son venuti una seconda volta, idem. la terza volta invece si son fermati e hanno voluto attendere di persona il ritorno di papà. Così ho dovuto fargli compagnia io".
Benché l'intonazione della voce, soprattutto all'inizio, tradisse il carattere occasionale dei discorso, gettato lì al solo scopo di rompere il ghiaccio tra di noi, tuttavia non mi fu difficile cogliere lo spirito ostile ai Fibbia che esso sottintendeva. E date le sicure informazioni in mio possesso sui rapporti correnti tra i Fibbia e la famiglia di papà Donato, ciò non mancò di destarmi meraviglia; Quindi osservai:
"Ma i Fibbia non sono vostri amici?"
"Sì, sono amici di papà - rispose Carla sottolineando la precisazione. - Ma io li detesto. Già tutti li detestiamo qui, all'infuori, s'intende, di papà".
Concentrò il suo interesse sui Fibbia e mi confidò fatti e impressioni che concordavano perfettamente coi giudizi della signora Rosa. Lei ce l'aveva soprattutto con suo padre che li teneva in conto di chi sa che cosa, e gli permetteva di spadroneggiare in casa sua. Si era arrivati al punto che non si faceva nulla senza il consiglio o addirittura il consenso del Fibbia. Suo padre era diventato un burattino in mano loro, e lei era seccatissima di questo stato di cose e non ne poteva più.
"Come mai vostro padre gli da tanto agio?" chiesi.
"Lui dice che i Fibbia l'hanno aiutato nei momenti di bisogno, e questo è vero. Ciò avvenne soprattutto quando stette male Elena ch'era tempo di guerra e viveri e medicinali mancavano. Siccome i Fibbia viaggiavano, così erano in condizioni di rifornirci del necessario. Ora, secondo papà, la loro amicizia sarebbe nata appunto in quell'occasione, ma io non ci credo. Tanto è vero che non sarebbe andato a chiedere aiuto a loro se non fosse già esistita un'amicizia. Papà fa molte confusioni al riguardo, dimenticando perfino che ha affermato lui stesso più volte di aver conosciuto i Fibbia prima ancora che si sposasse, e di avere avuto anzi del conti con loro a motivo della mamma. Ma se adesso gli ricordi questo, ti risponde che non è vero e che lui ha stretto amicizia coi Fibbia in occasione della malattia di Elena. lo credo che la confusione si possa spiegare ammettendo che egli intrattenesse rapporti di amicizia già da prima con i Fibbia, e che in seguito alla malattia di Elena e all'aiuto che essi gli dettero, abbia consolidato e reso più stretti questi rapporti. E' questo probabilmente che gli fa credere che la loro amicizia dati da quell'epoca. Sta di fatto comunque che i Fibbia ci fanno pagare quell'aiuto giorno per giorno con un sempre più pesante intervento nelle cose di casa nostra. Ma noi più che a loro diamo la colpa a papà, perché sappiamo che basterebbe che lui lo volesse e quelli lì ci lascerebbero in pace ... "
Troncò improvvisamente il discorso indicandomi con gli occhi suo padre che veniva dalla cucina. Poco dopo, papà Donato entrò e si diresse verso di me con le sopracciglia selvose abbassate per accertarsi che fossi io. Quando ne fu sicuro, esclamò:
"Oh, siete venuto davvero! Non lo speravo. Grazie comunque, grazie infinite, don Gegè" e mi si sedette accanto appoggiando un braccio sul buffè ch'era alle sue spalle e contemplandomi contento. Poi disse: "A proposito, conoscete la notizia della riapparizione di Emilio?"
"Emilio?! - risposi - No. non so nulla".
"Be', io l'ho saputa poco fa" soggiunse lui, e mi raccontò che gliel'avevano comunicata i Fibbia subito dopo ch'era venuto via da casa mia. Ora i Fibbia erano allarmati per questo fatto, mentre lui era rimasto indifferente, dato che non ci trovava nulla che lo riguardasse o che potesse in qualche modo impedire con le sue forze. Tra l'altro la notizia non era nemmeno certa. Chi l'aveva sparsa era stato un ragazzo stesso dei Fibbia, e questo particolare lo rendeva, a suo giudizio, molto discutibile. Essi per la verità sostenevano che un Fibbia, anche se ragazzo, non è capace di mentire, ma stava di fatto che nessun altro all'infuori dei Fibbia aveva visto Emilio. Più stupefacenti ancora erano le circostanze in cui la riapparizione si sarebbe verificata, a detta sempre dei ragazzo. Questi infatti affermava di aver visto Emilio dietro il mulino vecchio... "Non conoscete il mulino vecchio?" mi chiese interrompendosi papà Donato. "Come non lo conosco! - risposi - Ci passo per andare a casa mia".
"Già, non ci pensavo - osservò lui. - Be', il ragazzo sostiene di aver visto Emilio lì che faceva ... i suoi bisogni".
Scoppiammo a ridere. "Questa è bella!" esclamai io sogguardando Nanetta e m'accorsi che lei non rideva.
"Ora io dico - continuò papà Donato. ammissibile, sia pure con molte riserve, che Emilio sia uscito per prendere un po' di aria e se ne sia andato verso il mulino vecchio, ma è assurdo che si sia recato lì per fare i suoi bisogni. E' vero che quello è un posto che, come sapete, ci va molta gente a fare i suoi bisogni, ma Emilio ci ha i servizi a casa sua; e poi in pieno giorno ... non so se mi spiego".
Agitava le mani e la testa per confermare il suo scetticismo, e questo mi creò del dubbi su quanto Carla mi aveva poco prima confidato in merito alla fede cieca che egli riporrebbe nei Fibbia, sebbene io non trovassi nulla nel racconto di Carla che non si adattasse a pennello a quel ricordo di papà Donato e della sua indole - fedele come quella di un cane - che avevo portato con me sin da bambino. Allora osservai:
"Non mi pare che dobbiate andare così d'accordo per come si dice con le opinioni del Fibbia", e in quello stesso istante gettai un'occhiata d'intesa a Carla. Carla non si scompose, attese seria la risposta di suo padre. Papà Donato emise un lungo sospiro che fu seguito da un minuto di concentrazione. Poi disse, scrutandomi negli occhi: "C'è stata nelle mie parole qualche cosa che vi ha ricordato una simile impressione?"
"Abbastanza chiara" risposi voltandomi verso le due ragazze da cui m'aspettavo un cenno d'approvazione. Ma Nanetta, benché tenesse ancora gli occhi addosso a me, non mi parve per nulla interessata al nostro discorso. Era come se inseguisse un suo ricordo o un'impressione ricevuta molto tempo prima, e che avesse bisogno di me in questo sforzo, della mia indiretto collaborazione, avendo forse trovato in me l'immagine di ciò che gliela aveva procurato. i capelli lunghi gettavano un'ombra sul suo viso pallido in cui si raccoglieva la tensione della sua anima: un baleno invisibile che un minimo gesto sarebbe bastato a distruggere. Perciò evitavo di guardarla e mi fermai su Carla, la quale invece seguiva attentamente il nostro colloquio, pur rimanendo sempre enigmatica. Papà Donato ritirò il braccio dal buffè, si ravviò i capelli e disse:
"Sì, ammetto che abbiate ragione. Mi capita adesso di dire cose che hanno un chiaro tono polemico verso qualche iniziativa o affermazione dei Fibbia. Eppure se confronto le mie convinzioni con le parole che mi escono dalla bocca, scopro che quelle non corrispondono affatto a queste. E' strano ciò che mi accade... I Fibbia sospettano che mi sia lasciato influenzare da voi".
Questa dichiarazione mi lasciò a bocca aperta. In verità mi riusciva difficile ricordare quali discorsi ci fossero stati tra me e papà Donato i quali avessero potuto influenzarlo, visto che durante i nostri due precedenti incontri ero stato casi parco di parole che dovrei ora cercarle col lanternino. Ma mi tenni questa considerazione tutta per me, siccome avevo capito che l'insinuazione del Fibbia non aveva per nulla colto di sorpresa, come c'era da aspettarsi, papà Donato, il quale anzi, con assoluto candore, mi chiese subito dopo se, a mio giudizio, poteva essere vero che io lo avessi in qualche modo influenzato. Al che mi limitai a rispondere: "Ma vi pare!", e lui fu soddisfatto della risposta. Tuttavia ciò era valso a dar credito alla tesi della signora Rosa secondo la quale i Fibbia mi guardavano ormai con ostilità; e allorché papà Donato mi manifestò la sua preoccupazione per l'atteggiamento che essi avevano assunto verso la signora Rosa, colsi l'occasione per metterlo al corrente della verità sul modo in cui si erano comportati in casa mia, e gli raccontai per filo e per segno i fatti come si erano svolti. Egli durante il mio racconto cambiò più volte di colore, alla fine allargò le braccia e disse: "Forse la colpa è stata anche un po' mia per quel maledetto sonno che mi prende. Altrimenti questo non sarebbe accaduto. Ma io i Fibbia li conosco, e vi assicuro che sanno anche comportarsi da perfetti gentiluomini. Quando li conobbi, che fu in occasione della malattia di mia figlia, ebbi modo d'imparare molte cose da loro che potrebbero essere utili a tutti". E mi parlò dei Fibbia e della loro vita, informandomi che essi vivevano come se fossero una sola famiglia, pur appartenendo a famiglie diverse, il che ai giorni d'oggi è una cosa veramente rara. Abitavano alla periferia del paese, in una strada privata di loro proprietà, che comprendeva solo le loro sette case. Essi ne erano tanto gelosi che il giorno che andò l'attacchino dei Comune con una scala di legno per scrivere sul muro il nome della strada, accorsero tutti in massa e lo gettarono giù dalla scala. "Questa è strada nostra" dissero, e la strada non ebbe nessun nome e tutti la chiamavano la strada del Fibbia. Viaggiavano molto, svolgevano sempre fuori la loro attività, e anche le mogli se le sceglievano forestiere; non s'era mai visto un Fibbia sposare una donna dei paese. Siccome si erano arricchiti, si spettegolava che fossero interessati al contrabbando e allo spaccio di moneta falsa, ma era tutto frutto di fantasia o, peggio, d'invidia. la verità era che i Fibbia sapevano il fatto loro, poi erano in molti, affiatati tra loro, e dediti quasi tutti agli affari, al commercio, alle arti redditizie. Quando egli si recò da loro in occasione della malattia di Elena, li trovò riuniti tutti in un gran salone, i piú grandi occupati a conversare, i piú piccoli a giocare. Benché fossero in tanti, non facevano chiasso per niente. Si poteva pensare che parlassero in segreto e invece era il loro modo abituale di discutere, calmo e a bassa voce. Quello che più sorprendeva era che non capitava mai che parlassero due insieme. Gli uomini si fecero avanti per riceverlo e dargli la mano, uno dopo l'altro, senza fretta e senza confusione. Dicevano: "Benvenuto in casa nostra" e ritornavano ognuno al proprio posto. L'unico a sentirsi impacciato in quegli interminabili saluti fu lui, papà Donato. Le donne non si erano alzate ma gli sorridevano in segno di simpatia. Una lo chiamò e gli disse, guardando le altre: "Siamo contente che siate venuto" e tutte le altre approvarono con un cenno della testa, ma papà Donato non capiva perché fossero contente. Dopotutto egli non aveva ancora esposto la ragione della sua visita, anzi esitava a farlo per timore di riuscire poco gradito. Invece - cosa veramente strana - sembrava che tutti lì già sapessero perché era venuto e fossero contenti per questo. Lo lasciarono comunque parlare e stettero ad ascoltarlo per tutto il tempo con un sorriso di compiacimento sulle labbra. Qualcuno strizzava ogni tanto un occhio agli altri e papà Donato, vedendolo, si turbava, interpretando il gesto come segno di contrarietà o quanto meno di burla, poi invece capì che erano tutte manifestazioni di simpatia. Appena infatti finì di parlare, fu proprio quello delle strizzatine che gli rispose a nome di tutti per dichiarare che a loro non importava la ragione per cui era venuto, ma solo che fosse venuto, perché, quanto alla ragione, si sapeva che ce ne doveva essere una dal momento che era venuto: nessuno va in casa di un altro senza una ragione. Passando poi al merito di essa, lo esortò a star tranquillo che avrebbero fatto tutto quello ch'era in loro potere per aiutarlo. E in realtà gli portarono i medicinali richiesti e in poco tempo Elena guarì. D'allora la loro amicizia non era venuta mai meno.
"Ma voi - gli chiesi - non li conoscevate prima d'allora?"
"Se li conoscevo? - fece perplesso - Sì, li conoscevo, ma solo di vista". "E come mai ricorreste a loro per aiuto?"
"Potrei rispondere che lo feci perché loro viaggiavano ed erano in condizioni di aiutarmi, ma so che non direi la verità. O meglio, sarebbe una verità solo apparente. Quella vera è che i Fibbia mi ispiravano simpatia: una simpatia istintiva che ho sempre avuta per quella gente. E questo ha generato in molti, non escluse le mie figlie, la falsa convinzione che la nostra amicizia esistesse già da prima".
Carla diventò leggermente rossa e io sperai che si risolvesse finalmente a intervenire. Le feci anzi un cenno con la testa per invogliarla, e in quel momento incontrai di nuovo lo sguardo di Nanetta: uno sguardo implacabile che sembrava deciso a piegare la mia resistenza. Cominciavo a capire che, anche se l'interesse di Nanetta era rivolto a un suo ricordo che la mia presenza aveva dovuto svegliarle, il suo desiderio era che questo ricordo fosse fermato in me e da me prendesse forza per vivere di una vita nuova, indipendente dall'oggetto che gliel'aveva lasciato. Dimostrare di voler corrispondere ci questo suo desiderio, o almeno di averlo indovinato, era dichiararle tacitamente la mia simpatia. Allora tenni per la prima volta i miei occhi fermi contro i suoi: lei si turbò, li abbassò, li distolse, e una vampata di rossore le inondò il viso. Mentre il mio piacere di averla turbata si manifestava in una forma di pallore che io quasi riuscivo a vedere sul mio volto, sentii Carla che diceva: "Ma papà, quello che avvenne alla mamma a causa dei Fibbia ce l'hai raccontato tu stesso".
"Daccapo con questa storia della mamma - esclamò suo padre spazientito. - Ora non vale la pena di ripetere una storia che non ha nessuna importanza e soprattutto nessun senso. Ma voglio chiarire una volta per tutte che quella storia fu completamente inventata, in buona fede s'intende, dalla tua povera mamma. Si trattava di una semplice impressione, ecco tutto".
Io lo pregai che me la raccontasse, siccome avevo un vivo desiderio di conoscerla, e lui disse:
"E' niente, si tratto di una sciocchezza. Comunque è questo: mia moglie sosteneva che un giorno i Fibbia erano entrati in casa con due occhi terribili e col dito sulle labbra, sì che lei vedendoli era svenuta. Ma dovette essere una suggestione, nient'altro che una suggestione".
"Però prima la raccontavi come storia vera" ribatté Carla.
"Eravate voi che non capivate" rispose secco papà Donato, e io che ero in mezzo non sapevo se credere all'uno o all'altra. Se avessi riflettuto abbastanza alle contraddizioni di quella famiglia e soprattutto alla stranezza dei loro discorsi, forse avrei avuto modo di trarre sin da quel primo giorno qualche utile lezione per la mia condotta futura. Avvenne come suole quando uno assiste a uno spettacolo, che abbagliato dallo splendore dello scenario non riesce a coglierne le intime manchevolezze. A questo si deve aggiungere la mia scarsa conoscenza degli uomini, già confessata, che non mi offriva la benché minima garanzia che i miei giudizi fossero esatti. Ma forse la verità è un'altra, ed è che lo sguardo di Nanetta annullava ogni capacità critica della mia mente. Ora quello sguardo non era più fisso come prima, ma si sollevava a tratti per riabbassarsi subito dopo vergognoso, esercitando un nuovo fascino, ancora più potente, sopra di me. Tra me e Nanetta si svolgeva una lotta silenziosa, fatto di sguardi e di scolorimenti, che dovevamo nascondere con estrema cura sia a Carla che a papà Donato; e per ottenere ciò era necessario- sforzarci di prestare la massima attenzione a papà Donato, il che a lungo andare avrebbe finito con lo svigorire l'impeto di quella lotta. Senonché la nostra ostentata finzione d i pendere dalla bocca di papà Donato metteva in evidenza ai nostri stessi occhi la nostra paura di essere scoperti, trasformandosi così in una reciproca, anche se indiretta, confessione o, per dir meglio, conferma dei nostri sentimenti. Ne derivava che la presenza di Carla e di papà Donato, non che rappresentare un ostacolo a un'intesa segreta tra me e Nanetta, ne agevolava il raggiungimento. Se questo poteva considerarsi un vantaggio per tutt'e due, molto di più lo era per me che, data la mia naturale timidezza, aggravata dalla lunga solitudine, non so se sarei mai riuscito a dichiarare apertamente a Nanetta la mia simpatia. Il dubbio è tanto più fondato in quanto, proprio nel momento in cui papà Donato si abbandonava in una posizione di riposo che l'espressione stanca del suo volto faceva presagire molto propizia a un nuovo assopimento, e Carla dal canto suo - forse irritata dalle smentite di suo padre relative al comportamento tenuto dai Fibbia verso sua madre - mi si voltava quasi di spalla offrendomi così la possibilità di guardare liberamente Nanetta, io avvertii il timore di non essere capace di farlo, e questo bastò ad afflosciare d'un colpo il mio spirito d'iniziativa. Il risultato a cui una simile situazione mi avrebbe condotto non poteva essere che catastrofico, quando, a risollevare le mie sorti, giunse una bussatina alla porto che ci fece voltare tutti da quella parte. Vidi Nanetta che, siccome era la più vicina, si alzava per andare ad aprire, e respirai rinfrancato che mi fosse stata risparmiata una dura prova. la osservai mentre camminava, riflettendo che da quando avevo posto la mia attenzione su di lei non mi era stata data nessuna occasione di vederla se non seduta e per metà nascosta dietro un tavolo. Temevo che il giudizio lusinghiero che la vista di una parte di essa mi aveva ispirato non venisse smentito dall'apparizione del tutto, ma la mia attesa non fu delusa quando potei ammirare la linea dei corpo che scendeva morbida e aggraziata in ogni suo punto.
Accresceva risolto a essa l'atteggiamento studiato che Nanetta si dette come tutte le donne che si accorgono di essere osservate, e la cosa non mi dispiacque, anche perché devo riconoscere che era lontana da lei ogni ombra di affettazione o di goffaggine. Non escludo che io la guardassi ormai con occhi benevoli, ma il sapere che lo faceva per me me la rendeva senz'altro bene accetta. Mi rendevo conto anzi che d'ora in poi io l'avrei vista sempre così, come una donna che agiva col preciso scopo di piacermi, e ne ero lusingato, specie considerando la sua età che era troppo giovane perché avessi potuto sperare mai nulla di simile.
Mentre Nanetta andava verso la porta, papà Donato si scosse da quello stato d'incipiente assopimento a cui la breve pausa della nostra conversazione l'aveva indotto. lo lo fissai cercando se esistessero nel suo volto tracce dei lineamenti di Nanetta, e non avendone trovate, avendo anzi riscontrato una così assoluta mancanza di rassomiglianza tra i due che sarebbe stato difficile, per chi non lo sapeva, indovinare che erano padre e figlia, ne trassi la conclusione che Nanetta doveva rassomigliare a suo madre. Ne fui contento, perché, essendo sua madre già morta, veniva a mancare ogni testimonianza, almeno apparente, di affinità di Nanetta con persone viventi, e questo in definitiva, facendomi quasi credere che essa non appartenesse a nessuno, l'avvicinava ancora più a me, la rendeva più mia. Non mi sfuggiva che, se questo era già amore, era anche gelosia, la quale nasceva, o almeno era favorita, dalla consapevolezza della differenza di età che esisteva tra me e Nanetta. l'essermi lasciato prendere da esso e in quella forma in cui già si manifestava, che negava l'accesso tra me e Nanetta perfino alla memoria di sua madre, fu un errore che avrei pagato assai caro alla fine. E in generale devo ammettere che la conoscenza di Nanetta, associandomi come parte in causa alla vicenda della sua famiglia alla quale io mi ero avvicinato non più che come un semplice curioso, mi procurò molti più affanni e delusioni che gioie. Nanetta dunque era andata alla porta, mentre io papà Donato e Carla eravamo sempre lì seduti intorno al tavolo. lo che presentivo che qualche nuovo fatto avrebbe tra poco messo fine alla mia visita, ero impaziente di vederla tornare, come se essa, restando lì a parlare con qualcuno che non riuscivo ci vedere, mi defraudasse di quei pochi attimi di beatitudine che mi restavano. Quando finalmente tornò, riferì che la signora Rosa mi mandava a chiamare. Non lo disse rivolta verso di me ma verso suo padre, il che era abbastanza naturale date le sue condizioni di spirito di quei momento che la portarono ad arrossire al solo pronunziare il mio nome. Benché io avessi notato il suo turbamento, tuttavia la sgradita notizia da lei portatami m'impedì di sentire tutto il piacere che me ne derivava. M'innervosiva innanzitutto il modo in cui la signora Rosa si permetteva di agire nei miei riguardi, disponendo di me a suo piacimento, come se io - per il semplice motivo di essere andato a casa sua - mi fossi messo al suo servizio, al punto di licenziarmi su due piedi e senza una spiegazione, come aveva fatto l'ultima volta, quando non mi riteneva necessario, salvo a richiamarmi se le faceva comodo. Ora poi che il ricordo della sua compagnia veniva a porsi in una posizione di confronto con quella di Nanetta che in quel momento io mi godevo e che la sua chiamata giungeva inopportuna a disturbare, l'avversione che esso mi aveva già ispirata la mattina saliva di cento gradi nella scala della mia suscettibilità.
Papà Donato osservò: "Forse sarà per via del Fibbia che vi desidera", poi, notando la mia riluttanza che dimostravo con gesti d'insofferenza e di fastidio, aggiunse: "Credo che vi convenga andare, altrimenti penserà che vi abbiamo trattenuto noi".
Nanetta dal canto suo fece un cenno del capo che io interpretai come un segno di consenso. Allora mi levai e dissi:
"Quand'è così, vado".
Nel dir questo guardai intenzionalmente Nanetta per farle intendere che era soprattutto al suo desiderio che mi arrendevo, e il significato delle mie parole non dovette sfuggirle se mi accompagnò lei stessa verso la porta. Giunti lì, sia io che lei portammo contemporaneamente la mano sulla maniglia così che le due mani si toccarono. Il piccolo incidente mi fece arrossire, e lei, di fronte al mio imbarazzo per non trovare un modo di scusarmi, sorrise. Uscendo dissi: "Credo che tornerò un altro giorno, se non vi disturba".
Lei sorrise di nuovo, e la vidi che continuava a sorridermi di dietro al vetro mentre mi avviavo a casa della signora Rosa.

IV
La signora Rosa era dietro al portoncino che mi attendeva molto agitata. Appena mi vide, tirò un respiro di sollievo e disse:
"Temevo che non veniste. Ho mandato due volte a casa vostra e non vi hanno trovato".
"Infatti ero in casa di papà Donato" risposi. "Mi serbate rancore?"
"Se vi serbassi rancore, non sarei venuto" dissi seccato.
"Questo è vero" riconobbe lei smettendola con le domande inutili, e m'introdusse nel solito salottino, forse per riparare all'indelicatezza dell'ultima volta che mi aveva lasciato nell'ingresso. i suoi modi gentili non lasciavano dubbi sul suo desiderio di farsi perdonare tutto, per cui io conclusi che essa aveva bisogno di me. Attesi comunque che parlasse. la luce nella stanza s'era fatta ancora più tenue per via del sole che si era abbassato. la signora Rosa, trovando che qualcosa era ancora fuori posto, come il cuscino del divano che non stava ben diritto, chiamò la domestica e la rimproverò. le chiese se in cucina aveva rimesso lo strofinaccio bene all'angolo del lavandino, se aveva piegato il grembiule in modo che non ne sporgesse nessun capo di fuori, se nell'armadio i fazzoletti stavano accanto alle camicie, mentre la domestica rispondeva di si a tutte le domande. Alla fine la mandò via e, rivolta a me, disse:
"Dovete scusare, ma è che io non sopporto il disordine".
Messasi quindi l'animo in pace per quanto riguardava l'ordine della casa, si dedicò tutta a me pregandomi di accomodarmi.
"Vi ho fatto chiamare - disse - per mettervi al corrente di uno spiacevole episodio ... ".
"L'episodio del mulino vecchio!" esclamai io che ero stato messo sull'avviso dalle parole di papà Donato.
"Appunto - confermò lei. - Vedo che siete informato. E' stato papà Donato che ve l'ha detto?"
Risposi di sì.
"Ne ho piacere - osservò lei con una smorfia che sapeva di ironia - Solo non so sotto quale luce vi ha presentato il fatto".
Questo linguaggio portò l'irritazione che già covavo nell'animo al punto di rottura. Non ebbi più nessun riguardo per la vecchia signora e risposi che papà Donato non c'entrava per nulla nella faccenda, anche se l'azione del Fibbia sembrava ispirata da un sentimento di solidarietà verso di lui; lei stessa sapeva che i Fibbia si preoccupavano esclusivamente del loro orgoglio ferito e non del dolore di Elena, per cui poteva ben capire come ogni loro iniziativa fosse indipendente dalla volontà di papà Donato; che anzi papà Donato si era dichiarato dinanzi a me preoccupato dal l'atteggiamento assunto dai Fibbia nei riguardi di lei, e su certe cose si era trovato perfino in disaccordo con loro; che pertanto le sue insinuazioni erano per lo meno ingenerose nei confronti di chi, in ultima analisi, era il vero capro espiatorio della penosa vicenda.
La signora Rosa fu scossa dalla violenza delle mie accuse che certamente non s'aspettava. Era stato per tutto il tempo a guardarmi come incantata, lisciandosi a tratti e lentamente le guance, come se dicesse a ogni mia parola: "Dio mio! "
Quando io finii, durò fatica a rispondere. Cominciò dapprima sospirando e imbrogliandosi, poi diventò più chiara, finché parlò del tutto spedita. Non osò negare nulla di quanto avevo affermato, anzi ammise che potevo aver ragione. Solo a proposito del "capro espiatorio" osservò scuotendo la testa: "Quanto a questo restano da vedere molte cose" e non volle in nessun modo spiegare il concetto. Per il resto dichiarò che lei si era dimostrata diffidente verso papà Donato solo perché conosceva i rapporti non solo di amicizia ma anche di reciproca stima che lo legavano ai Fibbia, ma che comunque era ben lieta di essere smentita dai fatti dal momento che io affermavo - cosa peraltro molto stupefacente - che papà Donato si era trovato in disaccordo, sia pure in qualche punto, col Fibbia; lei, come ogni altro nelle sue condizioni, non avrebbe mai immaginato che un giorno papà Donato si sarebbe ricreduto nei riguardi di quella gente, e io dovevo tener conto di questa sua convinzione - che era poi la convinzione di tutti, maturata attraverso una lunga esperienza che a me sfuggiva grazie al fortunato isolamento in cui ero vissuto finora se volevo comprendere la sua attuale diffidenza; era bene tuttavia, a suo giudizio, che papà Donato cominciasse a preoccuparsi anche per sé, siccome i Fibbia, quando si muovono, non hanno considerazione nemmeno del loro amici e nessuno è in grado di prevedere dove si fermeranno. "Per il momento - concluse visibilmente nervosa e tremante non si capiva bene se per la stizza o per la forza delle proprie convinzioni si sono rivolti contro di me, e mi sono venuti fin qui a casa per cercare di mio figlio, come se essi fossero i giudici di mio figlio. Ditemi voi se ho ragione... lo, donna sola e vecchia, ho dovuto subire la loro insolente presenza qui, in casa mia... Sono entrati e mi hanno detto... sentite cosa mi hanno detto... Che Emilio era stato visto dietro il mulino vecchio a fare... ma già lo sapete, non c'è bisogno che mi spieghi di più. E' inaudito, don Gegè, è veramente inaudito. lo mi domando chi gli dà questo diritto di insolentire fino a tal punto".
Si torceva le mani per l'indignazione, ma non pianse. Questo mi fece piacere e non insistetti sul tono duro di poco prima. Dissi: "Ma voi siete sicura che Emilio non ... " e mi arrestai, temendo che volesse aggredirmi, tanto mi spalancò due occhi casi.
"Ma don Gegè! - esclamò - Cosa vorreste insinuare?"
"No - risposi subito per eliminare ogni malinteso. - Vi prego di non fraintendermi. So benissimo che non c'è nemmeno da pensare a certe cose. Volevo soltanto sapere se veramente Emilio è uscito di casa e si è recato verso il mulino vecchio".
"Non lo so - rispose lei risentita. - Credetemi che non lo so. Ma forse che mio figlio non potrebbe, volendo, uscire di casa? C'è qualcuno che glielo impedisce?"
Ci rimasi male.
"Certo, certo - dissi. - Nessuno glielo impedisce, né io ve lo chiedevo per qualche scopo. Pensavo soltanto che, se mi avete chiamato per esservi utile, fossi in diritto anche di farvi qualche domanda".
Arrossì, tirò giù le sue impennate permalose e si scusò:
"Oh avete ragione, perdonatemi. Ma è che proprio non lo so. Dei resto non credo che questo abbia qualche importanza". Poi, come avesse fretta di passare ad altro argomento, si levò, si accostò alla finestra e, aprendo un po' più l'imposta, m'indicò il crocchio che stazionava lì presso.
"La vedete quella gente?"
A la stessa che c'era questa mattina" notai io.
"Esatto. Be', quelli sono tutti Fibbia e, come vedete, mi hanno messo l'assedio".
Io osservai con molta attenzione quella gente e ancora una volta mi sembrò che non s'interessasse a noi. Ma dopo tutto ciò che avevo appreso sul loro conto, cominciavo ad avere anch'io qualche sospetto. Una constatazione soprattutto contribuiva a convalidare i miei dubbi: che erano sempre le stesse facce e, benché mostrassero un aspetto indifferente, non si erano mai mossi dalla mattina.
"Ora - aggiunse la signora Rosa - vorrei affidarvi un incarico delicato. Dovreste appunto recarvi a caso loro".
"Dai Fibbia! ? - esclamai io che ero del tutto impreparato a una simile richiesta -Dovrei recarmi in casa del Fibbia? E a che fare?"
"Per scoprire, se vi riesce, i loro propositi, le loro intenzioni, i loro piani... Ho pensato a voi - soggiunse notando la mia freddezza - perché non ho nessun altro di cui fidarmi. Vi avverto però che sono molto furbi, e specie dopo il vostro incontro di questa mattina sono prevenuti contro di voi e non si lasceranno facilmente ingannare. Se l'aveste fatto questa-mattina sarebbe stato diverso, ma ormai non serve. Comunque tutto sta a dare una buona impressione all'inizio, perché badano molto a questo".
Scrutò attenta ogni mia reazione e disse con aria sfiduciata: "Forse abuso della vostra gentilezza, non è vero?"
"Non dico questo - risposi io continuando a non mostrare nessun entusiasmo per la sua proposta. - Credo però che non sono adatto per un simile incarico".
"AI contrario, io sono sicura che con la vostra intelligenza e col vostro tatto ci riuscirete".
Congiunse le mani al modo di una supplicante e disse in tono di preghiera: "Oh quanto vi sarei grata. Ne ho proprio bisogno e non ho altri che mi possa aiutare".
Fu la situazione più penosa che mi fosse toccato sopportare in tutta la giornata. Da un lato non avevo nessuna voglia di prestarmi a un simile giuoco, dall'altro non volevo dare l'impressione che lo facessi per paura del Fibbia. la signora Rosa attendeva trepidante la mia risposta, con lo sguardo reso più acuto dalla tensione nervosa. Non so come a un certo punto mi lasciai sfuggire: "Va bene"; lei si precipitò verso di me afferrandomi le mani per baciarmele ed esclamò: "Vi ringrazio, don Gegè, vi ringrazio. Non dubitavo del vostro buon cuore". Confuso e un po' anche infastidito da queste inaspettate dimostrazioni di gratitudine, non ebbi nessuna possibilità di ritrattarmi o di correggere in qualche modo la mia espressione, e mi trovai senza accorgermene impegnato con una promessa assurda in un'impresa di cui non vedevo né l'importanza né lo scopo. Ma appena fui fuori, strinsi i denti per la rabbia ed ebbi perfino l'idea di tornare indietro per gridare: "Signora Rosa, pensate pure quello che vi pare, ma io dai Fibbia non ci vado". Sapevo che la signora Rosa si sarebbe messa dietro la finestra per osservarmi e forse dentro di sé se la rideva. Ma se davanti a lei non avevo trovato la forza per dirle di no, ora, lontano dal suo sguardo, mi sentivo capace di resisterle. Così presi la decisione di non recarmi dai Fibbia ma a casa mia.
Mi spingeva più la stizza, o il puntiglio di quel momento - una stizza e un puntiglio che mi procuravano un dolore fisico - che una vera convinzione di poter mantenere a lungo il mio proposito, dopo che avevo lasciato nelle mani della signora Rosa l'arma della mia parola.
Mentre camminavo, tenevo d'occhio quei tipi ch'erano fermi in mezzo alla strada per accertarmi che non mi si mettessero alle calcagna. Andai guardingo per un tratto e ogni tanto mi voltavo indietro, ma non avendo notato nessun movimento non ci badai più e affrettai il passo. Giunto a casa, mi distesi sul letto, esausto. Non riuscivo a tener fermo nemmeno il pensiero di Nanetta. Volevo dormire. in cambio di un lungo sonno mi sarei volentieri riconciliato anche con la signora Rosa. Ma forse già dormivo. Mi sentivo dormire, i pensieri non battevano più alla mia mente, vedevo Nanetta, la sua immagine non influenzava la mia timidezza come la sua presenza, e questo modo di averla con me non mi creava problemi, io potevo anche violarla...
Avevano picchiato al portone? Avevo udito il picchio, remoto ma certo, nel sonno. Mi ero destato. Ora la governante doveva venire a chiamarmi. Stavo attento, sollevato appena sui gomiti e con l'orecchio teso, e dopo pochi secondi mi giunse la sua voce di dietro all'uscio:
"Don Gegè, vi manda a chiamare la signora Rosa". lo non risposi. Lei soggiunse:
"C'è giù il ragazzo che aspetta. Cosa devo dirgli?"
Poi, non ricevendo nessuna risposta, concluse: "Dorme", e la sentii allontanarsi in punta di piedi.
Ma io sapevo che questo non serviva a nulla. Tra poco il picchio si sarebbe ripetuto e non mi avrebbe più dato pace. Lo attendevo col nervi a fior di pelle come si attende l'arrivo di una zanzara di cui si è udito nell'aria il ronzio, e quella attesa era più esasperante del picchio stesso. Balzai dal letto, scesi giù rassegnato, trovai il ragazzo vicino al portone, ma prima che egli mi comunicasse che la signora Rosa desiderava parlarmi, gli dissi:
"Riferisci alla signora Rosa che mi sto recando dai Fibbia".
Mi avviai dai Fibbia, seguendo una via periferica che, in base alla precisa indicazione di papà Donato, doveva sfociare nella loro strada. Camminavo come uno straniero nel mio stesso paese, non tanto per la mia ignoranza delle strade quanto a causa di quell'incombenza che non mi competeva. Quelle strade, mi dicevo, non erano state fatte per quel mio cammino che non trovava in esse nessun consenso e nessuna collaborazione, perché non era scritto nella mia volontà. Più che estranei i muri a me, ero io estraneo a loro, e non c'è modo di essere più stranieri che sentirsi soli nel proprio paese. Svoltai in una strada corta e senza uscita. La costeggiavano ai due lati delle villette. Mi fermai a contarle: sette, tre da un lato e quattro dall'altro.
"E' questa" mi dissi, e ne ammirai la larghezza e la pulizia. Una strada senza asfalto, ma coperta di una ghiaia minuta e uguale da cui non sporgeva neppure un sasso. Soprattutto una strada senza monelli. Vi stazionavano due macchine, un traino con un cavallo e un camion carico di botti: un tubo di gomma, uscendo dal camion, attraversava tutta la strada fino a un cancello. Le sette villette, chiuse da sette cancelli, erano tutte dello stesso colore verde vivo. Non trovandone nessuna che fosse da stimare più importante delle altre, rimasi indeciso verso quale di esse dovessi dirigermi. D'altra parte mi ricordai che neanche del Fibbia sapevo chi fosse il più importante o almeno come si chiamasse, ché il problema era tutto lì nel nome, dato che i volti, essendo uguali, non avevano nessun significato. Mi accorsi con sgomento che non avevo fatto nulla per prepararmi a dare quella buona impressione di cui aveva parlato la signora Rosa. Ricordavo bensì che colui che parlava per tutti soffriva di un tic alla palpebra sinistra, ma potevo dire che cercavo quello del tic? E quand'anche l'avessi trovato, non avrei saputo cosa raccontargli, a meno di dirgli che ero venuto per esplorare le loro intenzioni. Capivo che avrei dovuto approntarmi almeno una traccia, un promemoria, conoscendo con che gente pignola mi accingevo a parlare. Ma tornare indietro a quel punto, essendomi già inoltrato tanto che dall'interno delle case avevano dovuto scorgermi, avrebbe destato sospetti. Mi diressi verso il camion e verso le macchine per vedere se c'era dentro nessuno. Il camion era vuoto e anche le macchine, il cavallo del traino sonnecchiava in piedi, con la testa all'ingiù, e il silenzio della strada era immobile come quel sonno. Girai intorno alle macchine, vi spiai dentro e m'accorsi che in una di esse c'era finalmente qualcuno. Benché fosse grasso e grosso, non l'avevo visto prima perché dormiva disteso sul sedile posteriore. Pensai che doveva essere l'autista e aprii lo sportello per svegliarlo. "Ehi! Ehi! - gli facevo toccandolo e scuotendogli una gamba - Dormite tutti, qui?"
Ma lui continuava a dormire e ogni tanto grugniva come un maiale.
"Ehi! Ehi! Giovanotto - ripresi a chiamarlo. - Non c'è nessuno? Di', non c'è proprio nessuno?"
Non ci fu verso, rimase lì a dormire a dispetto di tutti i miei sforzi. Allora mi sedetti vicino a lui, sul sedile davanti, in attesa che venisse fuori qualcuno. Tastavo le manopole accanto allo sterzo cercando d'indovinarne la funzione, e mentre armeggiavo così almanaccando sul loro meccanismo, una di esse provocò un suono che mi fece sussultare e svegliò l'uomo che dormiva dietro. Mi voltai verso di lui e lo vidi con tanto d'occhi fissi sopra di me, stralunato, che si chiedeva forse chi ero. All'improvviso si gettò una mano sul petto e gridò: "Il mio portafoglio! Aiuto! Aiuto!"
Uscì gente da tutti i cancelli, io sperai dapprima di calmare quel l'indemoniato perché si facesse ragionare, ma poi ebbi paura della gente; balzai fuori della macchina, indietreggiai e, non accorgendomi del tubo di gomma che attraversava la strada, v'inciampai e caddi.
Mentre mi risollevavo, una voce disse: "Ma questo è don Gegè!"
Torsi gli occhi attirato dalla voce, e vidi quello del tic, fermo presso di me, che mi guardava stupito e imbarazzato. Lo riconobbi subito e mi rivolsi a lui pregandolo di spiegare a quelli chi ero io, perché lui mi conosceva e sapeva chi ero ed era stato anche a casa mia...
"Calma! - rispose lui con un gesto di fastidio - Non c'è bisogno di spiegare nulla perché è stato tutto chiarito. Il portafoglio è lì, non s'era perduto. Ma voi come siete qui?"
Tacqui umiliato e confuso, e, osservando come fossi sporco di polvere, mi occupai del mio vestito. Il Fibbia, vedendo che non rispondevo, aggiunse: "Andiamo a casa, prego. Suppongo che avrete da dirci qualcosa" e m'invitò a seguirlo. La gente si tirò da parte per lasciarci passare, ma mi guardava sempre ostile. Abbassai la testa per non vederli e fissavo la ghiaia che calpestavo. Mi bruciavano gli occhi, li chiusi continuando a camminare come un cieco dietro il mio ospite, e mi misi a contare i miei passi: mi riempii la testa di numeri. Quando riaprii gli occhi, mi trovai all'ingresso di una casa. Feci uno sforzo per riprendermi e ridarmi un contegno, guardai la casa, l'ammirai e chiesi: "E la vostra?"
"Sì" rispose il mio ospite.
A molto bella" notai io continuando ad ammirarne l'esterno.
"Non volete favorire?" disse lui freddamente non curandosi della mia lode, e io m'irritai con me stesso per essermi lasciato soggiogare dalla sua ostentazione di superiorità. Fui introdotto in un salone, forse lo stesso in cui era capitato papà Donato, immenso. Ai due punti centrali pendevano dalla volta due lampadari di cristallo; accanto al camino, tra il tavolo da un lato e le poltrone dall'altro, brillava una spinetta nera che mi sembrò molto antica. Il mio ospite mi fece accomodare in un divano di fronte ci] camino e lui con i sei colleghi prese posto accanto a me. Ci volle del tempo perché entrassero tutti gli altri, anche perché venivano avanti lentamente. Si ammassarono di fronte a noi rimanendo in piedi e silenziosi. Quando tutti furono al loro posto, il mio ospite che era alla mia sinistra mi disse:
"Potete parlare liberamente" e si dispose insieme con gli altri ad ascoltarmi. lo avevo assistito muto e sbalordito a quella lunga sfilata, non immaginando a che cosa potesse servire un tale ammassamento di gente per un colloquio che tutt'al più avrebbe riguardato me e i soliti sette compari. Ma ricordandomi del racconto fattomi da papà Donato sulla sua prima esperienza del Fibbia, capii che quello era un rito che non doveva spaventarmi. Tuttavia un invito a iniziare un discorso in una forma così solenne, quasi in mezzo a un'assemblea, era il mezzo più idoneo per non farmi parlare. Poi c'era il ricordo ancora bruciante dello spettacolo che avevo dato di me nella strada e la cui impressione non si era per nulla attenuata su quelle facce rivolte verso di me più in segno di diffidenza - sentivo - che d'incoraggiamento. infine - ed era il peggio - io ero senza argomenti, e la ricerca di essi - compiuta dalla mia mente in modo così affannoso, in quello stato di disordine e in un momento così drammatico - diventava essa stessa, in pratica, un impedimento a trovarne uno.
Ottuso e inebetito, vedevo davanti a me come una massa minacciosa pronta a schiacciarmi. Quello del tic mi disse per la seconda volta: "Dunque? Non eravate venuto per parlarci?"
Ero ormai in preda al panico quando all'improvviso - e forse proprio in virtù di esso - il mio cervello si aprì e scorsi, in un baleno, un argomento a cui afferrarmi: l'episodio della ricomparsa di Emilio così come l'avevo appreso qualche ora prima sulla bocca di papà Donato. Era un argomento cieco per me che non conoscevo assolutamente nulla di preciso e soprattutto di personalmente accertato sulla questione, ciò non di meno avviai il discorso dicendo, e non mi sembrò la mia voce, come se essa fosse stata inciso su un disco:
"Si tratta della ricomparsa di Emilio in paese".
Li vidi subito interessarsi alla questione, tutti con gli occhi spalancati su di me, e quello del tic mi chiese:
"L'avete visto anche voi?"
"Sì - risposi. - Ma voi avete detto delle cose inesatte".
Avvertivo all'improvviso un sangue freddo di cui io ero il primo a essere sorpreso e sconcertato.
"Cos'è che è inesatto?" chiese il mio ospite turbandosi leggermente. "Che Emilio facesse i suoi bisogni".
"E che faceva?"
"Niente. Non faceva proprio niente".
"Quando l'avete visto?" mi chiese di nuovo lui sospettoso. "Mentre tornavo dalla signora Rosa".
I sette compari che erano seduti con me si scambiarono un'occhiata, poi gli altri sei assentirono col capo mentre quello dei tic mi diceva: "Va bene".
Io sapevo ormai che essi controllavano tutti i miei spostamenti, perciò mi ero tenuto pronto alla domanda.
"Ma ammettete - soggiunse lui - che si trovava dietro il mulino vecchio?" "Questo lo ammetto".
"E allora vi dico che faceva i suoi bisogni".
A questo punto ci fu un'agitazione tra gli astanti, come se qualcuno volesse parlare e gli altri glielo impedissero. Dalle prime file si voltavano indietro col dito sulle labbra e i sette capifamiglia erano imbarazzati da questa prova d'indisciplina che mi veniva offerta. lo facevo del mio meglio per apparire come uno che non si accorge di nulla, ma la mia situazione, già precaria di per sé, divenne insostenibile allorché anche i sette che erano con me si misero il dito sulle labbra per riottenere il silenzio e la tensione nervosa accentuò in modo così pietoso il tic del mio ospite che io non ero più in grado di distinguere l'aspetto serio dei fenomeno da quello comico. Mi rendevo conto tuttavia che non dovevo a nessun costo far trasparire fuori la mia ilarità, e a questo scopo concentravo i miei sforzi nel tentativo di scoprire colui che voleva parlare, non spiegandomi perché dopotutto non lo lasciassero parlare. Il mio ospite, al colmo ormai della confusione, si girava a scatti verso di me per chiedermi: "Come? Avete detto qualcosa?", mentre io gli rispondevo, evitando di guardarlo: "No, non ho detto nulla". Si andava avanti così, tra lui che mi chiedeva "come" e me che rispondevo "nulla", né sapevo se dovessi augurarmi che continuasse così per un pezzo, quando qualcuno tra la massa bisbigliò: "Che dice? Ma che dice?" e un altro gli dette sulla voce: "Ma chi è che dice "che dice"?" Lo strano però era che, pur limitandosi l'opposizione degli altri a una semplice ostentazione di sguardi severi e di dito sulle labbra, colui che si agitava per parlare non parlava mai. Finalmente venne avanti uno che si accostò a quello del capifamiglia che sedeva più in fuori alla mia sinistra e si curvò per parlargli all'orecchio. Costui si volse al suo compagno a fianco, piegandosi tutto sulla destra, e gli trasmise pure all'orecchio ciò che gli era stato riferito. Il secondo a sua volta si rivolse al terzo e così il segreto arrivò per la via del sussurro all'orecchio del mio interlocutore. lo mi chiedevo non senza preoccupazione che cosa significasse questo parlottare in segreto, quando vidi il mio ospite turbarsi.
"Ebbene, venga avanti il ragazzo" disse costui rivolto al gruppo degli astanti, e subito dal gruppo spuntò fuori un ragazzo che aveva all'aspetto undici o dodici anni. Era biondo e aveva l'aria intelligente, ma sembrava smarrito e fissava me rosso di vergogna. M'ispirò simpatia e gli rivolsi un sorriso d'incoraggiamento. Egli non sorrise ma mi rispose con un lieve cenno della testa, forse per manifestarmi a sua volta la sua simpatia. Quello del tic lo guardò severo e disse:
"Dunque non è vero che Emilio faceva ciò che hai detto?"
"Non ne sono certo - rispose il ragazzo impacciato nella pronunzia - perché io ho visto solo che stava dietro il mulino".
"E allora perché hai affermato una cosa che non hai vista?"
"Perché tutti vanno dietro il mulino vecchio per fare quella cosa".
Il mio ospite corrugò la fronte, rifletté un paio di minuti e disse, rivolto a MIC. "Ha ragione. Il ragazzo ha perfettamente ragione, e non può essere diversamente. Altrimenti perché Emilio sarebbe andato lì?"
Sembrava particolarmente soddisfatto che il ragazzo gli avesse offerto il modo di uscire lui stesso dallo stato di dubbio in cui si trovava.
"Non ritenete anche voi - soggiunse - che il ragazzo abbia ragione?"
La domanda, cogliendomi alla sprovvista, m'imbarazzò; tuttavia, rendendomi conto come quella conclusione fosse sotto molti aspetti vantaggiosa per tutti, mi affrettai a rispondere: "Certo, certo".
Egli mi sorrise compiaciuto, ma il ragazzo che forse era stato il primo a stupirsi di quella conclusione, non mostrò nessun entusiasmo per la mia risposta, intuendo quanto essa fosse insincera. Abbassò gli occhi, visibilmente umiliato, e ritornò in mezzo agli altri. Da quel momento cercai invano di rivederlo, forse perché me lo impediva la sua statura che veniva coperta dai grandi, ma più probabilmente perché lui stesso mi sfuggiva. Ne fui molto addolorato.
Il mio ospite intanto, che d'allora in poi mi trattò con modi cortesi quali non mi aveva mai usati prima, diceva:
"Beninteso, questa è una questione marginale per noi. Non vorrei che si pensasse infatti che il nostro scopo sia di mettere in ridicolo Emilio per un fatto simile. Si trattava piuttosto di stabilire l'esattezza di una notizia che eravamo stati noi stessi a mettere in giro. Ma papà Donato in quest'occasione è stato particolarmente ingiusto con noi perché non ha voluto a nessun costo credere alle nostre parole, e ci dispiace di doverlo dire".
Divenne pensieroso e mormorò come parlando con se stesso: "E' molto strano ciò che gli succede a quell'uomo".
Io mi ricordai della confidenza che lo stesso papà Donato mi aveva fatta a questo proposito e dissi con tono leggermente ironico: "Pensate che sia stato io a influenzarlo?"
Egli fece una smorfia che sembrò un sorriso e rispose:
"Sapevo che papà Donato ve l'avrebbe detto. Ma è stato un malinteso da parte sua, ve l'assicuro. In questi giorni per la verità è un continuo verificarsi di malintesi tra noi e quel benedett'uomo. Fa un sacco di confusioni che non lo si capisce più. Ecco perché siamo preoccupati. Ad ogni modo è bene che sappiate che io non ho affermato, come sostiene lui, che voi l'avete influenzato, ma gli ho semplicemente chiesto se il suo mutamento poteva essere stato determinato dalle vostre parole. Intendevo dire con questo che, qualora si potesse ammettere una tale influenza, la cosa non avrebbe destato eccessive preoccupazioni, in quanto un mutamento del genere era da considerarsi del tutto superficiale e passeggero, il che in definitiva io mi auguravo. Viceversa avevo motivo di ritenere purtroppo che il fatto dovesse essere attribuito a cause ben più serie. Vedete dunque come tutto cambia aspetto? E dei resto come avrei potuto affermare una cosa simile se non sapevo nemmeno ciò che gli avevate detto?"
"E lui cosa ha risposto alla vostra domanda?" chiesi.
"Niente. Ha risposto che non poteva dir niente in quanto non ricordava cosa gli aveste detto, anzi era in dubbio perfino che gli aveste detto qualcosa".
"Lo credo bene - esclamai. - Infatti non poteva ricordare".
"E perché?" chiese lui colpito dalla mia esclamazione.
"Appunto perché non gli avevo detto niente".
Mi guardò in un modo che lasciava capire che degli strani sospetti gli erano sorti, e disse: "Comprendo", senza peraltro spiegare cosa avesse compreso. lo, a scanso di ulteriori equivoci, mi affrettai a precisare: "Come potevo parlargli se dormiva?".
Queste parole lo tranquillizzarono. Ritornò sereno come prima e fece: "Giusto. E' proprio così. Adesso quel benedett'uomo dorme sempre. Ne abbiamo già parlato in caso vostra, mi pare... Ora voi dovete sapere che papà Donato è una persona che ci è molto cara perché è stato sempre così comprensivo con noi, e noi gli dobbiamo molto anche se lui crede di esserci obbligato per alcuni favori che gli abbiamo fatti".
Mentre il mio ospite diceva questo, gli altri che erano in piedi presero a uscire in silenzio e ordinatamente dalla sala. Rimanemmo a continuare la conversazione io e i sette capifamiglia. Adesso i nostri rapporti si erano fatti amichevoli e si basavano sulla reciproca fiducia. lo non mi nascondevo i rischi di una fiducia nata dall'equivoco e dalla menzogna, tuttavia essa esisteva, era lì, viva tra noi, quasi tangibile, e nessuna pessimistica considerazione valeva a dimostrare il contrario. Anzi essa era tale che mi avrebbe permesso - se e quando lo avessi voluto - di ottenere dai Fibbia quelle notizie sulle loro effettive intenzioni nei riguardi di Emilio per le quali la signora Rosa mi aveva mandato. Una situazione paradossale, senza dubbio, di cui in altro momento e con altra gente avrei avuto vergogna, ma che di fronte ai Fibbia mi sembrava perfettamente giustificata.
Il mio ospite continuò: "Noi non siamo molto ben visti in paese, perché dicono che siamo dispotici, freddi, senza cuore, e che c'intrufoliamo negli affari altrui. Questo però non è esatto, perché negli affari altrui non c'intromettiamo senza una ragione. Valga di esempio la presente circostanza dello scandalo di Emilio ... ".
A questo punto ci fu portato il caffè da una donna e il mio ospite s'interruppe per servirlo a me e ai suoi sei compari; poi prese il suo, lo sorseggiò senza fretta, alla fine depose la tazza nel vassoio ed esclamò con enfasi, sollevando tutt'e due le mani in aria: "Sfido se non dovevamo intrometterci dopo una simile offesa! Naturalmente -soggiunse moderando il tono - questo non vuoi dire che noi andremo a prendere Emilio per il collo per ricondurlo da Elena. Già non riusciamo ancora ad afferrarlo, e poi la violenza non rientra nei nostri metodi. invece faremo in modo che non esca più di casa o, se esce, che ne subisca tutte le conseguenze. Perché non gli daremo pace, gli staremo sempre alle calcagna, dovunque andrò, qualunque cosa farà, gli ricorderemo la sua vigliaccheria con la nostra stessa presenza, anche senza parlare, e lo faremo morire di vergogna".
Queste dichiarazioni m'impressionarono favorevolmente in quanto m'indicavano i limiti dell'iniziativa dei Fibbia che io non potevo non giudicare ragionevoli rispetto al gesto di Emilio. Solo non indovinavo qual era, nel quadro di un simile piano, il compito che essi avevano inteso riservare a me quando mi erano venuti fino in caso per parlarmene. Chiesi al mio ospite che mi sciogliesse questo dubbio, ed egli fece di nuovo una smorfia che sembrò un sorriso per significare che s'aspettava la domanda.
"In realtà - rispose - noi non vi chiedevamo nulla di concreto. Volevamo soltanto sapere, visto che v'interessavate alla questione, qual era il significato di codesto interessamento, quale conclusione cioè noi fossimo autorizzati a trarre da esso".
"Se è per questo - osservai - non ho nulla da aggiungere a quanto vi ho già detto. è certo comunque che le mie visite alla signora Rosa e a papà Donato non sottintendevano nessun significato da cui si potesse trarre un giudizio di merito in rapporto al gesto di Emilio".
"Però codeste visite sono state ripetute a distanza di pochissimo tempo e sempre parallelamente alla signora Rosa e a papà Donato. Anzi papà Donato è venuto lui stesso a trovarvi a casa".
"Questo è vero - risposi. - E ammetto che in un secondo momento mi sia trovato per così dire coinvolto nella faccenda, altrimenti non sarei ora qui. Ma ciò è avvenuto indipendentemente dalla mia volontà".
M'interruppi per un attimo, e fissandolo bene negli occhi soggiunsi: "Ma ditemi un po': da quanto ho potuto capire, voi mi avete seguito passo per passo e, insieme coi miei, avete controllato anche i movimenti di papà Donato. Allora come si spiega il fatto che siete andati a cercare per tre volte - se Carla non mi ha mentito - papà Donato a casa sua quando sapevate che era a casa mia?".
"Carla non vi ha mentito - rispose lui scuotendo la testa. - Ma dal momento in cui abbiamo notato un certo raffreddamento della fiducia di papà Donato in noi, siamo purtroppo caduti vittime dei sospetto che anche lui possa in qualche modo ingannarci, o se non lui, almeno le sue figliuole che sempre, quando hanno potuto, ci hanno avversato. Sono considerazioni amare, caro don Gegè, specie se è in causa un'amicizia sincera e a prova di anni qual è quella che ci lega a papà Donato".
"Già - osservai. - Perché risale all'epoca delle malattia di Elena".
"Che dite! Di più, di più! - esclamò lui.- Noi siamo amici di papà Donato da prima che sposasse. Pensate che appena quattro giorni dopo il suo matrimonio, fummo testimoni dei primo malinteso tra lui e suo moglie, a cui purtroppo doveva seguire una lunga serie di malintesi e d'incomprensioni che avrebbero distrutto a poco a poco l'armonia della famiglia. Elvira, la moglie, era una donna un po' svanita, e al quarto giorno di matrimonio, come vi dicevo, ne dette la prima prova. Uscita di casa per recarsi da sua madre, si recò invece dalla zia e al ritorno - noi eravamo ancora lì a parlare con papà Donato - disse appunto che era stata dalla zia. Papà Donato la rimproverò perché della sua nuova decisione non lo aveva informato prima, e si trovò imbarazzato di fronte a noi. Elvira capì che aveva agito male e se ne pentì, ma in successive circostanze e sempre finché visse non mostrò mai di essersi corretta".
"Gelosia da parte di papà Donato!" osservai io non troppo sicuro di aver capito la colpa di Elvira, e il mio ospite protestò sdegnoso: "Macché gelosia! Papà Donato non conosceva neppure di nome la gelosia, perché riponeva in suo moglie la massima fiducia, e questo basterebbe a smentire le chiacchiere secondo cui l'avrebbe fatta morire di crepacuore. La verità è che Elvira non seppe mai imporsi una regola di vita e agiva sempre per istinto o come le suggeriva la sua testa volubile. Questa è stata sempre la sua colpa".
lo intanto mi domandavo se avevo conosciuto Elvira, ma non trovavo tracce di ricordi nella mia mente. Doveva esser morta senza che io l'avessi conosciuta. Forse se non mi fossi chiuso nella mia solitudine l'avrei conosciuta, e ora l'avrei pensata da viva e avrei dato un volto ai miei sentimenti. Mi dicevo: "Povera Elvira! ", ma non era pietà per chi non era mai esistita per me; era semai un aspetto negativo della pietà, forse astio contro i Fibbia.
"A proposito di Elvira - dissi - io conosco un altro episodio che vi riguarda direttamente. Si riferisce a un suo svenimento provocato, a quel che pare, dalla vostra presenza. Senonché papa Donato sostiene che si tratta di una storia inventata da Elvira".
"Inventata?! - fece lui con un sorriso ironico - Non è affatto inventata, anche se un po' svisata dalla fantasia di Elvira. La verità è questa, che noi passavamo un giorno vicino a casa sua e la sentimmo cantare. E' risaputo che Elvira aveva una voce che somigliava a un raglio, e chi passava doveva turarsi le orecchie per non sentirla. Come Elvira non si rendeva conto di quanto ciò fosse sconveniente, e data la nostra amicizia, così ci permettemmo di entrare per consigliarle di tacere. Lei, appena ci vide, diventò come quel muro. Che svenne ce l'ha aggiunto lei: questo non è vero. E' vero però che aveva di noi un grande terrore. E si vendicava - è penoso parlare così di una morta - istillando nell'animo delle bambine un'avversione per noi che non so se vi è nota".
"Sì, so anche questo" dissi.
"Vedete? Ve ne hanno già parlato, ne ero sicuro. Ci odiano nonostante il bene che gli abbiamo fatto".
"So anche, a questo proposito - osservai - che la guarigione di Elena fu in parte merito vostro".
"No, non è questo, don Gegè. I favori materiali non contano, ed essi semai sono stati reciproci. Conta quello che abbiamo fatto per il buon andamento della famiglia: i consigli disinteressati, gli ammonimenti e l'opera di persuasione svolta verso tutti. Tutte cose che dalla moglie e dalle figlie sono state interpretate come desiderio da parte nostra di spadroneggiare in casa loro. Perché avremmo dovuto farlo?... Ora capite - concluse triste - perché oggi siamo andati per tre volte in quella casa comportandoci come se dubitassimo della parola di Carla che ci diceva che suo padre era uscito. Sarebbe stato strano in verità che ne avessimo dubitato dal momento che noi stessi sapevamo che papà Donato era a casa vostra; ma siccome nutriamo una diffidenza di principio verso le ragazze, ci siamo serviti di quel pretesto per dare un contenuto a questa diffidenza. Naturalmente comprendiamo che le ragazze non hanno nessuna colpa se la madre le ha fatte crescere con questi sentimenti, ma siamo costretti a mostrarci duri con loro affinché il loro esempio non finisca col contagiare anche papà Donato".
Era stanco. Gli luccicavano gli occhi, forse per la fatica dei parlare o per l'amarezza dei ricordi.
lo vedevo attraverso la finestra che veniva buio e m'accorgevo che dovevo andare. Non pensavo più né alla signora Rosa né al motivo per cui essa mi aveva mandato. Pensavo invece a papà Donato e all'amicizia che lo legava ai Fibbia, e mi chiedevo se non sarebbe accaduto anche a me un giorno di legarmi a quella gente con la stessa amicizia. Per il momento non ne avvertivo né il desiderio né il bisogno. Era antipatia? quello che so di certo è che non era simpatia, ma allora non ne sapevo ancora abbastanza per capire che questo era giù di per se stesso molto grave.
Chiesi il permesso di congedarmi. Essi si levarono tutti in piedi, attesero che mi levassi anch'io e si disposero in gruppo dietro di me. Solo quello dei tic passò avanti dicendo: "Scusate, faccio strada".
Mi accompagnarono fino al cancello e lì mi salutarono.
Era buio e le luci nel paese non erano state ancora accese. Avvertivo un vacillamento della vista che indeboliva le mie già precarie capacità di orientamento. Le emozioni della lunga giornata e la stanchezza producevano i loro effetti. Sarei riuscito ad arrivare a casa in quelle condizioni? Già bisognava stabilire a quale casa ero diretto, perché in quel momento mi pareva di non sapere con esattezza nemmeno quale fosse casa mia. C'era infatti anche quella di Nanetta. Perché non potevo essere diretto là? Soffrivo maledettamente per non sapere se ero diretto a casa mia o a quella di Nanetta. Certo per andare in casa di Nanetta a quell'ora occorreva un motivo. Potevo dire che ero stanco di tutta quella faccenda di Emilio, della signora Rosa e dei Fibbia, e che andavo da lei per portarla lontana da quella gente, che non volevo che continuasse a vivere, come sua madre, in mezzo ai "beccamorti", che ormai non c'era altra ragione per me di affaccendarmi come avevo fatto per tutta la giornata intorno a un affare che non mi riguardava. Non c'è dubbio che questo era il mio desiderio; ma farlo così senza uno spunto, un'occasione, anzi andare di proposito da una donna per questo a un'ora simile può dare l'impressione che si sia ubbriachi. E forse se lo si è davvero, diventa anche più scusabile. lo invece non ero ubbriaco, e dovevo perciò rinunziare, per quella sera, a rivedere Nanetta. Quando l'avrei riveduta? Mi sembrava così lontano il momento in cui l'avevo conosciuta, e che esso fosse volato via così subito che diventava incerto perfino il ricordo che ella mi aveva sorriso e mi aveva dato il consenso ad andare via quando la signora Rosa mi aveva mandato a chiamare. Allontanandomi, le avevo promesso che sarei tornato un altro giorno. Ma se non riuscivo a trovare adesso un pretesto per farlo, che cosa mi garantiva che l'avrei trovato per l'avvenire? Consideravo ormai l'avere incontrato Nanetta un avvenimento così necessario alla mia vita che la stessa mia decisione di uscire dalla lunga solitudine non si sarebbe probabilmente verificata se non fosse esistita lei. Ora sapevo che ero uscito solo per lei, per incontrarla, e che lo scandalo di Emilio non era stato che un pretesto. Dovevo dunque attendere che si desse un altro pretesto così? All'improvviso mi colpì il ricordo dei biglietto. Dovevo ancora consegnare il biglietto che mi aveva affidato il ragazzo. Ricordavo che non lo avevo fatto. Sicuro che non lo avevo fatto, appunto perché mi ero distratto dietro ci Nanetta. Ma ora dovevo decidermi: il non averlo ancora fatto poteva essere stato già una grave leggerezza. Mi fermai e cacciai la mano in tasca per cercare il biglietto. Non c'era. Mi frugai precipitosamente in tutte le tasche della giacca e dei pantaloni. Niente. Eppure non l'avevo consegnato, ero certo che non l'avevo consegnato. Potevo soltanto averlo smarrito. Non c'era dubbio. Nessuno poteva avermelo preso. lo non ero stato in nessun posto, dopo che avevo ricevuto il biglietto, all'infuori della casa di papà Donato, della signora Rosa e dei Fibbia. L'avevo certamente smarrito. Ero fermo in mezzo alla strada convinto che l'avevo smarrito e che dovevo ritrovarlo. Non potevo lasciare andare in mano ai curiosi un biglietto così delicato. Se tutti, il giorno dopo, in paese avessero saputo della sua esistenza e se lo fossero passati di mano in mano commentandolo ironicamente! No, dovevo ritrovarlo a ogni costo, e tornai sui miei passi, parlando concitatamente con me stesso. Fui di nuovo nella strada dei Fibbia. Cercavo la casa in cui ero stato, ma il problema si ripresentò come la prima volta. A parte il buio, non sapevo realmente in quale delle sette fossi stato introdotto, perché oltre tutto ci ero andato con gli occhi chiusi. Ora ricordavo che ci ero andato con gli occhi chiusi, contando i miei passi. Ma mettermi adesso a ricontare i passi, ammesso che ne ricordassi il numero, era un lavoro inutile, siccome mi era difficile stabilire il punto di partenza. D'altra parte il buio m'impediva di vedere anche le macchine e il camion che avrebbero potuto darmi, con la loro posizione, un orientamento sia pure approssimativo. Mi accorsi che in paese avevano acceso le luci e le strade erano illuminate, solo quella dei Fibbia rimaneva al buio. Questo fatto mi stupì. Non mi capacitavo che proprio la strada dei Fibbia fosse senza luce.
"Per favore - gridai _ Non c'è mica una luce qui? C'è qualcuno di là? Ehi! C'è qualcuno?".
Non avevo più la preoccupazione che non mi riconoscessero, siccome tutti ormai mi avevano visto, perciò mi azzardavo a gridare. Scoprii nel buio qualcosa che si muoveva e diveniva sempre più evidente a mano a mano che si avvicinava. Era una piccola ombra, appena rilevata da terra, come uno che camminasse ginocchioni. lo stavo attento a non perderlo di vista e andavo a mia volta avvicinandomi a lui. Quando fummo di fronte, riconobbi il ragazzo della storia sulla riapparizione di Emilio. Si fermò davanti a me, silenzioso, e al buio notai che mi guardava sorpreso.
"Oh, sei tu!" esclamai, felice di rivederlo. lui continuò a guardarmi senza rispondere e io non riuscivo a indovinare il significato di quel silenzio. Nascondeva forse un senso di rimorso o di vergogna per avere avuto un'indebita ragione contro di me nella questione di Emilio in cui me lo ero trovato di fronte? lo per tranquillizzarlo gli dissi:
"Desideravo proprio vederti, sai, per dirti che io non ho nulla contro di te, e che ti stimo anzi, perché sei sincero e tanto diverso dagli altri".
Egli persisteva nel suo silenzio tenendo sempre gli occhi fissi su di me, e sembrava incantato.
"Non mi credi?" insistetti io nel tentativo di farlo parlare. "Sì, signore" mi rispose finalmente con un filo di voce.
"Allora siamo ridiventati amici?"
"Sì, signore".
"Come ti chiami?" "Mario".
"Bravo Mario!" esclamai e soggiunsi: "Ora mi vuoi dare una prova della tua amicizia?"
"Sì, signore".
"Devo ritrovare un biglietto che ho perduto. E' molto importante, e tu dovresti indicarmi la casa dove siamo stati poco fa, perché io non riesco a orientarmi". In quello stesso istante si accese una lampadina e la luce dette un aspetto più confortevole alla strada. Mi girai intorno e non vidi più né il camion né le macchine né il traino: la strada era completamente libera e le sette villette emergevano sufficientemente chiare dall'ombra. Mario, facendomi segno con la mano verso l'ultima a sinistra, disse: "E' quella, ma ora non c'è nessuno, sono tutti qui" e indicò la casa più vicina a noi.
Mi voltai da quella parte e scorsi dietro il cancello uno, in piedi, che ci osservava. Appena lui s'accorse che l'avevo notato, venne fuori e disse: "Di nuovo qui?"
Era ancora quello dei tic, ma era già mutato. Il tono della sua voce, pungente, era di nuovo quello dei primo momento quando mi aveva trovato disteso per terra. Sospettai che fosse lì da molto tempo e che avesse udito tutta la mia conversazione col ragazzo: la luce sopraggiunta mi rivelava chiaramente i segni di risentimento sul suo volto.
"Ho smarrito un biglietto - dissi per dissipare i suoi sospetti. - E vorrei ritrovarlo".
"Qui non è stato trovato nessun biglietto" dichiarò lui seccamente.
"Infatti - osservai io - non è certo che lo abbia smarrito qui. Volevo solo dare un'occhiata, se la cosa non vi reca disturbo".
Non ne fu molto convinto, e soprattutto sembrava contrariato dalla presenza dei ragazzo. infatti gli chiese accigliato: "E tu che facevi qui?"
E come il ragazzo, impaurito, non rispondeva, gli ordinò di rientrare subito a casa. Poi, quando il ragazzo fu andato via, soggiunse, rivolto a me: "Il biglietto non può essersi smarrito qui in modo assoluto, altrimenti qualcuno l'avrebbe già trovato".
Io pensavo a Mario e mi doleva che per la seconda volta gli avessi involontariamente creato del guai. Allora feci, duro a mia volta: "Vi chiedo scusa" e mi avviai senz'altro per andarmene. Ma lui mi richiamò subito e mi disse: "Comunque non è detto che non possiamo dare uno sguardo, se proprio ci tenete".
Tornai indietro per amore del biglietto, al cui ritrovamento non potevo rinunziare nemmeno se spinto dalla rabbia che colui mi faceva, e lo seguii fino a casa sua. Entrammo nel salone e cercammo insieme in ogni angolo. Egli mi ripeteva: "Non c'è, vi dico che non c'è", e io per dispetto mi piegavo a spiare fin sotto il divano sollevandolo da un lato. Non trovai nulla lo stesso. Capivo che era inutile continuare a cercare, ma avevo il sospetto che qualcuno lo avesse trovato e portato via, perciò stavo fermo in mezzo al salone e non mi muovevo.
Il mio ospite disse: "Non siete ancora soddisfatto?" ed era diventato perfino insolente. Stava fermo pure lui con le mani sui fianchi di fronte a me in un atteggiamento quasi provocatorio.
"Siete sicuro che non l'abbia preso qualcuno?" chiesi io.
Egli mi guardò con due occhi di fuoco senza rispondere, ma ormai non mi faceva più nessuna impressione.
V
Congedatomi dal Fibbia, corsi verso la casa di papà Donato. Il pensiero del biglietto mi rendeva inquieto e non avrei potuto in nessun modo dormire tranquillo quella notte. Dovevo per forza parlare con Carlo. Esisteva sempre il dubbio se il biglietto era diretto a Carla o a Elena, ma prevedendo che le probabilità d'incontrare Elena e di poterle parlare erano pressocché nulle, progettai di chiamare senz'altro Carla e di metterla a parte dell'accaduto. Giunto alla porta, bussai nervoso, sperando che venisse Carla stessa ad aprirmi prima di Nanetta. In quel momento non volevo vedere Nanetta, perché la sua presenza mi avrebbe di nuovo legato le mani. Per adesso era indispensabile trovarmi solo con Carla. L'attesa accresceva il mio nervosismo. Quando finalmente vennero ad aprirmi, constatai con disappunto che non era Carla, ma papà Donato. Fu un contrattempo che mi strappò un'imprecazione che ricacciai però subito dentro allorché, fermati gli occhi su papà Donato, mi colpì il suo volto disfatto, con i segni dei pianto tuttora evidenti, aggiunti al disordine del capelli. Egli, appena mi vide, si picchiò la testa coi pugni e chiamandomi tre volte per nome esclamò: "L'avete saputo dunque? l'avete saputo? E' fuggita, se n'è andata, è fuggita".
Dovetti raccogliere le mie deboli energie per cercare di comprendere il senso di quelle parole. Mi dicevo: "Dunque è fuggita!" pensando a Elena. Ma più vi pensavo, meno mi spiegavo in che modo e per quale ragione fosse fuggito. "Perchè è fuggita?" gli chiesi.
Egli mi guardò desolato e disse: "Allora non l'avete saputo i Ma è Carla, capite? E' Carla che è fuggita con Emilio".
Si prese di nuovo la testa tra le mani e agitandola come una campana si rimise a piangere. lo mi sedetti stordito, senza fiatare. Mi limitavo a guardare papà Donato, attendendo che smettesse di piangere perché mi raccontasse tutto.
Egli dopo qualche minuto si soffiò il naso, si asciugò gli occhi col fazzoletto e disse:
"E' avvenuto poco fa. lo ero in cucina ed è entrata Elena che mi ha chiesto allarmato "Dov'è Carla? L'hai vista?" Ho risposto "No, non l'ho vista. Perché?"
"E' fuggita - ha detto. - L'hanno vista ch'è fuggita".
"E' fuggita? Hai detto è fuggita?" lo non mi raccapezzavo per niente.
"si, si - ha gridato lei. - E' fuggita con Emilio, con Emilio. E io che lo sapevo, lo sapevo!
"Lo sapevi?! Lo sapevi?!"
Macché! Non ha voluto piú rispondermi ed è corsa a chiudersi in camera sua, piangendo sempre che lo sapeva. l'ho chiamata, le ho chiesto che mi spiegasse cosa sapeva, non mi ha aperto, l'ho sentita solo piangere. E' stata la gente che mi ha informato che avevano visto Carla uscire di casa e parlare con un ragazzo; è tornata, ne è riuscita subito dopo e s'è diretta verso il mulino vecchio; lì c'era Emilio che l'aspettava ... Ora capisco come il ragazzo dei Fibbia non avesse detto una bugia ... Adesso Elena è lì che piange in camera sua, e io son qui con questa incredibile notizia, senza sapere che fare, dove andare, a chi rivolgermi".
Si sedette con le spalle contro il buffè e si coprì la faccia con le mani.
Nanetta ci trovò così, suo padre che piangeva vicino al buffè, e me che me ne stavo solo solo a un angolo, muto e pensieroso. Mi si avvicinò e mi chiese: "Avete saputo?"
Io scossi la testa in senso affermativo, e di fronte a lei mi sentii più afflitto. Ora il dolore che aveva colpito entrambi ci avvicinava e io non dovevo più formi coraggio per guardarla sicuramente in viso. Capivo che ella aveva bisogno di me e qualsiasi esitazione da parte mia l'avrebbe offesa, perché poteva significare agli occhi suoi intiepidimento del mio entusiasmo per lei e desiderio di svincolarmi in tempo da una situazione che mi comprometteva di fronte alla sua famiglia in un momento in cui questa era esposta alle critiche e ai commenti di tutto il paese. Infatti il suo atteggiamento - mentre le sue mani tormentavano nervosamente un bottone della veste - era di attesa e non lasciava dubbi sulla sua intenzione di non dire più una parola se non ero io a iniziare il discorso. Così le chiesi, in un modo molto confidenziale: "Ma come è avvenuto? Così all'improvviso? Voi non eravate a conoscenza di nulla?"
Lei mostrò di gradire lo spunto che le avevo offerto per parlare e rispose: "No, o più esattamente io sapevo che c'era della gelosia tra Carla e Elena a causa di Emilio, ma papà credo che non fosse al corrente di nulla", e, dicendo questo, abbassò la voce perché non la udisse suo padre. A questo punto venne richiamata da una stanza interna.
"E' Elena" diss'io che avevo riconosciuto la voce.
"Sì - rispose lei non nascondendo il suo rammarico per la conversazione interrotta. -Scusatemi un momento, tornerò subito" e uscì.
Mentre aspettavo il suo ritorno, io ripensavo al biglietto e mi chiedevo se c'era più ragione che mi preoccupassi per esso ora che il mistero era stato svelato. Continuare a cercarlo era ormai superfluo perché, anche se l'avessi trovato, non avrei saputo più a chi consegnarlo. Ma subentrava il desiderio, o la curiosità, di conoscere ciò che vi era scritto, e questo mi spingeva a insistere nella mia ricerca. Era possibile che mi fosse caduto proprio lì, in quella stanza, mentre tiravo di tasca il fazzoletto, e che qualcuno, trovandolo, lo avesse distrattamente gettato in mezzo al fascio di carte che giacevano sul tavolo accanto al paralume. Se i miei calcoli erano esatti, il biglietto doveva essere ancora lì, perché, ignorandosene il contenuto, nessuno avrebbe avuto ragione o si sarebbe preso la briga di separarlo dalle altre carte. Intanto papà Donato si era di nuovo messo nella posizione di quando dormiva, con la schiena appoggiata al buffè e la testa piegata sul petto, così che se mi fossi levato per cercare il biglietto, non mi avrebbe visto. Mi levai, detti dapprima un'occhiata sotto il buffè, poi mi avvicinai piano al tavolo e sollevai le carte. Mentre le esaminavo, alcune di esse urtarono contro il paralume e mi scivolarono di mano trascinando con sé tutte le altre che andarono a spargersi per terra sotto i piedi stessi di papà Donato. Guardai terrorizzato papà Donato che per fortuna non si svegliò, e strisciai carponi sotto il tavolo per raccogliere le carte. Ero intento a questa operazione, pensando con sgomento che tra poco sarebbe tornata Nanetta, quando, alzati un momento gli occhi, ebbi la sconcertante sorpresa d'incontrare quelli di papà Donato, il quale affacciandosi sotto il tavolo e scorgendomi in quella incredibile posizione, esclamò:
"Ma che fate?"
Io non parlavo, irrigidito nel mio smarrimento. Continuavo a guardarlo di sotto al tavolo come incantato. Egli si levò, osservò tutte quelle carte sparse per terra e disse:
"Cos'è questo?"
"Cercavo un biglietto" risposi. "Che biglietto?"
"Un biglietto mio, naturalmente".
"E stava in mezzo a queste carte?"
"Pensavo che si trovasse qui - risposi tirandomi su a mala pena dopo aver raccolto le carte. - Ma mi sono sbagliato".
"E come vi è venuta in mente un'idea simile, che un vostro biglietto potesse trovarsi qui?"
"Appunto siccome non riuscivo a trovarlo, ho immaginato che mi fosse caduto di tasca e qualcuno l'avesse mescolato con queste carte".
"Ho capito - fece lui ma più per non mettermi in maggiore imbarazzo che per convinzione. - Ed era un biglietto importante?"
"Non credo. No, non credo fosse molto importante" risposi badando a spolverarmi i pantaloni.
"Allora perché lo cercavate?"
Non risposi. Ero talmente irritato con me stesso che non risposi. Poi mi pentii di non aver risposto e m'irritai per questo, e mi detti dell'asino e volevo anche picchiarmi. Quando tornò Nanetta, ero ancora agitato, ma mi controllai per evitare che essa se ne accorgesse e venisse a scoprire la storia dei biglietto. Però a Nanetta non sfuggì, dal modo in cui sia io che papà Donato la guardavamo, che qualcosa non andava.
"Che è successo?" disse, non essendo sicura se dovesse rivolgersi a me o a suo padre.
"Hai trovato per caso un biglietto?" le chiese immediatamente suo padre facendomi impallidire.
"Un biglietto! - esclamò Nanetta - Che biglietto?"
"Un biglietto di don Gegè. Pare che doveva trovarsi tra queste carte". lo non sapevo più come uscirne fuori, mentre Nanetta mi chiedeva di che biglietto si trattasse e come mai fosse capitato tra quelle carte. Come avrebbero giudicato sia lei che suo padre la mia leggerezza di lasciare smarrire un biglietto che si rivelava tanto importante? Ma rifiutare proprio a questo punto una spiegazione, dopo che ero stato sorpreso con le mani tra le carte, significava destare gravi sospetti nei miei riguardi. Così mi decisi a parlare e rivelai tutta la verità sulla storia dei biglietto. Essi mi ascoltarono con interesse e trassero dal mio racconto un'enorme impressione. Papà Donato dichiarò che non c'era tempo da perdere e che bisognava recuperare il biglietto a ogni costo, e mi chiedeva perfino dove si trovasse, quasi che esso si fosse smarrito per burla e la mia presente ricerca fosse uno scherzo. Scompigliò freneticamente di nuovo le sue carte e ripeteva:
"Dev'essere qui, perché se qui è caduto non può essersene andato", convinto peraltro che fosse caduto lì.
Nanetta chiese: "Ma chi è che l'ha messo tra le carte?"
E come né io né papà Donato rispondevamo, si fermò a guardare perplessa ora l'uno ora l'altro e soggiunse:
"Allora come sapete ch'è caduto qui?" Questa volta papà Donato rispose:
"Se don Gegè afferma che è caduto qui ... "
"Un momento - dissi. - lo non ho affermato nulla. Ho detto semplicemente che avevo il sospetto che fosse caduto qui. Ma se non c'è, è evidente che mi sono sbagliato".
Papà Donato rimase molto deluso e, trovando ormai inutili quelle carte che ancora agitava in mano, le gettò via indispettito.
Disse che il biglietto non si sarebbe dovuto smarrire per nessuna ragione e che era una vera disgrazia che si fosse smarrito, perché se esso fosse giunto a destinazione Carla non sarebbe fuggita.
lo ero così mortificato che non mi davo la minima pena di tener dietro ai suoi discorsi e gli lasciavo dire queste cose e altre sciocchezze e badavo solo a Nanetta. Era di lei che mi preoccupavo e di certi suoi sguardi dubbiosi. Quando papà Donato fu andato via, lei mi chiese:
"Ma voi perché non l'avete consegnato subito?"
"A chi?" chiesi io a mia volta per conoscere il suo preciso pensiero. Ella esitò, messa in difficoltà dalla mia domanda, poi disse con evidente poca convinzione:
"Be', se era diretto a Carla ... "
"Ma che fosse diretto a Carla - osservai io interrompendola - me ne sono reso conto soltanto adesso; allora per la verità avevo il dubbio che fosse diretto a Elena e che il ragazzo che me l'aveva portato si fosse sbagliato. è stato appunto questo dubbio che mi ha impedito di consegnarlo subito. E poi chi immaginava certe cose!"
Solo dopo che le ebbi dette, m'accorsi dell'inopportunità di queste parole e mi affrettai ad aggiungere, vedendo che Nanetta arrossiva: "Oh non dovete interpretare male le mie parole. Intendevo dire che, se avessi sospettato come stavano le cose, mi sarei regolato diversamente... Potete davvero credere - feci poi con tono affettuoso - che ci fosse in me l'intenzione di offendervi?" lei abbassò la testa con aria vergognosa e mi confessò che non aveva nessun dubbio sull'innocenza delle mie parole, ma che questo non contava molto perché erano i fatti stessi che la obbligavano ad arrossire della sua famiglia davanti a me, senza bisogno che io parlassi; e tuttavia lei non poteva condannare le sue sorelle, proprio perché erano sue sorelle e anche perché, nonostante tutto, sentiva ancora di amarle sia l'una che l'altra. Portai la mano sotto il suo mento, le sollevai la testa, dissi: "Nanetta!" e mi tremò la voce. Ella arrossì di nuovo, senza parere offesa, di nuovo abbassò la testa e pianse. Volevo baciarla, ma le presi solo la mano. Lei se la lasciò tenere, allora gliela baciai e vi asciugai le lagrime ch'erano cadute. Sentivo il dolce abbandono di quella mano. Accostai la mia testa a quella di Nanetta e dissi che a me non importava assolutamente nulla di quanto era accaduto nella sua famiglia, semai dovevo esserne contento giacché mi aveva offerto l'occasione di conoscere lei; sotto questo aspetto ciò che per gli altri era motivo di scandalo, per me era motivo di felicità; dipendeva da lei, solo da lei, se questa felicità sarebbe rimasta soltanto mia o sarebbe diventata anche sua, nostra per sempre; io le volevo bene, molto bene, se lei già se n'era accorta, ma ora doveva dirmi con tutta sincerità se accettava il mio amore.
Avevo avuto la forza di dire tutto questo tenendo la mia faccia vicino alla sua senza guardarla e soprattutto parlando senza mai fermarmi. lei si strinse forte a me e da quel momento non pianse più. Rimanemmo vicini l'uno all'altra e silenziosi per parecchio tempo. Poi lei mi confidò che Elena aveva sempre esercitato una specie di autorità su di lei e su Carta, traendo vantaggio dalla sua maggiore età e dalla fiducia che le accordava suo padre, e questo era stato forse il suo torto. Perché, anche se lei riusciva facilmente a tollerarla, non era così invece per Carla, la quale un giorno era stata sul punto di fuggire da casa dopo aver litigato con suo padre.
"Tu dunque pensi - le chiesi dandole subito del tu per stabilire tra noi rapporti di maggiore confidenza - che esista un legame tra la fuga di Carla e il suo rancore per Elena?"
"Io non lo penso - mi rispose. - D'altra parte so che Emilio in un primo tempo si era invaghito proprio di Carla, e che solo in un secondo tempo si fidanzò con Elena. E' una storia poco chiara, ma ho motivo di ritenere che degli interessi estranei ai veri sentimenti di Emilio siano intervenuti a cambiare le cose. Forse Elena penserà adesso che Carla si sia vendicata in questo modo delle sue maniere altezzose; io stessa al suo posto non sarei propensa ad escluderlo, ma ritengo un errore giudicare l'atto di Carla da questo punto di vista". lo ero stupefatto di queste rivelazioni e volevo continuare il discorso, ma rientrò papà Donato che tornò a sedersi presso il buffè.
"Papà - disse Nanetta - perché non vai a coricarti? ... E' tardi, e don Gegè -soggiunse ammiccandomi - va via".
"Va bene - rispose suo padre con gli occhi chiusi.- Se don Gegè vuole, può andar via. E anche tu, se vuoi, puoi andare a letto. Ma io devo star qui".
"E che fai che stai lì?" insistette Nanetta. Lui non rispose più e lo sentimmo che aveva già il respiro profondo.
"Forse aspetta che Carla ritorni" bisbigliai io rivolto a Nanetta. Nanetta scosse desolatamente la testa e non fece nessun commento. Era stanca anche lei e aveva gli occhi pesanti.
"Adesso vai a letto - le dissi. - Resto io con tuo padre". Ella mi strinse la mano e bisbigliò: "No, voglio stare qui". "Non ce la fai - insistetti.- Non vedi che non ce la fai? Vai Nanetta. Domani ci rivedremo".
Allora si levò e mi sorrise con gli occhi chiusi. Stringendomi di nuovo la mano disse: "A domani" e andò via.
La lampadina che pendeva dalla volta oscillò e fece balzare le nostre ombre sui muri, le ombre mia e di papà Donato: un'altalena di ombre che durò alcuni secondi. Papà Donato ormai dormiva tranquillamente. Dalla piazza venne il suono delle ore e il mio pensiero era fisso a Nanetta. Sapevo che non sarebbe tornata prima di giorno. Ora giù dormiva e io potevo andare a osservarla, solo che conoscessi la sua camera. Non sapevo nemmeno se dormiva in comune con le altre sorelle, in tal caso ci sarebbe stata anche Elena nella sua camera e io non avrei potuto muovermi. il mio destino era dunque di restar lì, inchiodato alla sedia, e di vegliare il sonno di papà Donato. Pensavo a quanto tempo sarei rimasto lì, solo, quando avvertii che un uscio si era aperto alle mie spalle. Ero certo che si era aperto un uscio dietro di me, nonostante che nessun cigolio o rumore di passi fosse giunto alle mie orecchie. E sentivo anche una presenza umana. Cercavo d'indovinare i segni di quella presenza senza voltarmi. Non era Nanetta, non poteva essere Nanetta: intuivo una durezza di sguardo che non lasciava dubbi su questo. Finalmente venne avanti Elena fissando accigliata suo padre. Non rispose a un mio inchino. Disse:
"E' tardi, papà. Dovresti andare a letto".
Poi, come suo padre non le dava risposta, si rivolse a me e disse: "Perché non lo convincete voi?"
Lusingato da questo inatteso segno di attenzione, risposi:
"Lo farei con piacere se fosse un'impresa facile. Ci ha provato anche Nanetta, ma inutilmente. Perciò sono rimasto qui. Ma forse se me ne vado io, sordi piú facile".
"No, no - protestò lei, dimostrando di avere interesse a che rimanessi. - Potete restare. Tanto non è per voi che se ne sta a dormire lì ... Dei resto - soggiunse fattasi più dolce e intuendo i miei timori - la vostra presenza non da fastidio a nessuno".
Si avvicinò al tavolo, tirò avanti una sedia e si sedette a mezza distanza tra me e suo padre. Intrecciò le dita delle mani e vi posò sopra il mento tenendo le braccia ad arco coi gomiti sulla sponda del tavolo. Rimase così, taciturna e pensosa, per un certo tempo. lo dissi: "Chissà come dev'essere tardi!"
Lei non si mosse dalla sua posizione né si distrasse dai suoi pensieri, mormorò soltanto: "Oh non importa".
Per paura d'infastidirla non parlai più, non cessai tuttavia di osservarla. Una ruga le attraversava trasversalmente la fronte perdendosi nei capelli, tagliati corti, che le formavano avanti un ciuffo. La linea del naso, diritta e vibrante sulla punta, prendeva risolto dalle due occhiaie profonde e scure che, nella posizione di quel momento, davano il tono a tutto il volto: un volto duro e angoloso che sembrava fatto per rintuzzare le provocazioni. lo ne esaminavo i particolari, per scoprire tutti i risentimenti che si erano stratificati in essi producendo quella fisionomia alterata e accesa che era oggetto della mia osservazione. Elena in un rapido movimento degli occhi incontrò i miei e s'accorse che la osservavo. Si ricompose, controllandosi nei gesti e parve che volesse dir qualcosa, attendeva forse un mio incoraggiamento. Io dissi:
"Devo chiedervi scusa per questa mattina. Mi spiace di essere stato la causa, anche se involontaria, di quel litigio".
E lei agitò la testa e rispose, con una maggiore disposizione a darmi retto: "Sono io semai che devo chiedervi scusa. Ma sono momenti, non dovete pensarci".
"Non mi serbate rancore?" lei invece di rispondere alla mia domanda disse: "Mio padre dovrebbe decidersi ad andare a letto". Fissava la porta d'ingresso. lo la lasciai di nuovo ai suoi pensieri. Passò un tempo abbastanza lungo in cui seguii con gli occhi i voli rumorosi di un moscone intorno alla lampadina. Poi mi affacciai fuori sulla strada e mi accorsi che sorgeva la luna: era giù dietro le case e ne vedevo i riflessi sempre più vivi in cima ai tetti. Passò un gatto. Una voce fece ps ps ps per chiamarlo e il gatto si fermò e miagolò. Al buio i suoi occhi luccicavano come scintille.
"Ci deve essere qualcuno" dissi a Elena meravigliato di non vedere chi avesse chiamato il gatto.
"C'è sempre qualcuno" rispose lei senza dar peso alla mia osservazione. lo guardai nei due sensi della strada, e come non vidi nessuno rientrai e tornai a sedermi. Papà Donato brontolò nel sonno, Elena si spazientì e disse: "Oh adesso dovrebbe proprio andare. E' ridicolo che stia a dormire lì".
"Forse spera ancora" osservai io con un'allusione molto chiara.
lei fece "Già!" in tono ironico, e dopo un momento di esitazione mi chiese: "Voi ... avevate un biglietto?"
"Sì - risposi. - Ma l'ho perduto. E' molto increscioso dover confessare un simile atto di sbadataggine".
"Capisco" disse lei, e soggiunse: "Adesso sapete tutto, immagino".
"Veramente il biglietto era chiuso" precisai io volgendo di proposito ad altro senso le sue parole.
"Non mi riferisco al biglietto - rispose lei irritato dalla mia finzione. - Mi riferisco a questa edificante storia di cui siete stato spettatore".
Forse il tono era più acido e offensivo delle stesse parole, io però non vi detti importanza comprendendo, come avevo fatto la mattina, le sue particolari condizioni di spirito. Solo tenni a precisare che spettatore mi ero trovato ad esserlo senza volerlo.
"Allora perché siete venuto?" mi chiese lei con uno scatto di stizza.
"Ammetto - risposi - che la notizia dei gesto di Emilio mi abbia destato una certo curiosità. Però non potevo prevedere, venendo qui, gli altri avvenimenti che sono seguiti".
Mi guardò con la stessa ostilità della mattina e disse:
"Voi uomini siete tutti uguali, non dite mai la verità. Ma se eravate perfino latore di un biglietto".
Fu allora che scoprii il vero motivo della sua diffidenza e risposi: "Avete torto a giudicarmi così, anche se comprendo il vostro stato d'animo. La mia complicità nella storia del biglietto si limita ad averlo accettato - ignaro beninteso - dalle mani di un ragazzo per portarlo qui, senza peraltro riuscirvi, come sapete".
Ebbe una crisi di pianto, abbassò la testa sul piano del tavolo e con le mani si teneva la bocca per reprimere i singhiozzi.
Io tentai, prima con le esortazioni e poi col garbati rimproveri, di persuaderla a smetterla, ma fu tutto inutile. Non si calmò prima che l'impulso del pianto non si fosse esaurito. Quando risollevò la testa disse: "Scusatemi, avete ragione. Sono una sciocca, sono proprio una sciocca".
"Non ho voluto dir questo" risposi.
"No, no - insistette lei. - Che l'abbiate o no voluto dire non importa. Ma è proprio vero che sono una sciocca, altrimenti non mi comporterei così, che accuso gli altri mentre la colpa di tutto ce l'ho io, soltanto io".
"Perché voi?" le chiesi.
"Quando saprete la verità, lo riconoscerete anche voi".
Io la guardavo perplesso, e lei vedendomi così che non mi raccapezzavo, soggiunse: "Emilio non era venuto per me, era venuto per Carla e fu costretto invece a fidanzarsi con me. Ecco la verità".
"Costretto?! - esclamai io che trovavo in queste parole una conferma alle frammentarie rivelazioni che avevo ricevute da Nanetta - E da chi?"
"Da mio padre. lo Emilio non lo conoscevo quando venne a casa. Si presentò e chiese la mano di Carla, ma mio padre osservò che io ero più grande di Carla e che non era giusto che Carla passasse avanti a me. Emilio sulle prime non afferrò il senso di questo discorso e rispose che lui non aveva nessuna fretta di sposare ed era pertanto dispostissimo ad aspettare che sposassi prima io. "E se Elena non trova?" obiettò mio padre, e gli spiegò che era invece tanto più logico e regolare se egli al posto di Carla sceglieva me. Emilio prese la cosa a ridere, ma papà gli assicurò che non era affatto una cosa da ridere. Quando Emilio si rese finalmente conto della serietà con cui parlava mio padre, esplose e disse che quella era roba da manicomio.- Allora è bene che ve ne teniate lontano - concluse mio padre, e Emilio per quella volta andò via. Ma non tardò a tornare, sperando che mio padre fosse diventato più ragionevole. Si ripeté lo stesso discorso con io stesso risultato, di nuovo Emilio andò via. Tornò la terza volta e per la terza volta andò via, finché alla quarta venne e disse che aveva deciso di fidanzarsi a ogni costo con una di noi e che, se non era possibile con Carla, non trovava difficoltà a farlo con me, perché in fin del conti io non ero da meno di Carla e in ogni caso ero sua sorella. La nostra stoltezza fu di non riflettere abbastanza su queste ultime sue parole, ma mio padre fu soddisfatto e io mi fidanzai con Emilio. Così Emilio riuscì nel suo intento di restare vicino a Carla per tramare insieme con lei l'inganno ai miei danni".
Io tacevo, trovando tutto così enorme in questo racconto. Poi dissi: "Ma voi ... come poteste prestarvi al giuoco?"
Ella sospirò e rispose: "Noi donne siamo per natura invidiose, lo diventiamo perfino di una sorella. Aggiungete l'età: un'età in cui si ragiona poco, e l'incoraggiamento di mio padre. Poi io volevo andarmene presto da questa casa e non vedevo l'ora che venisse uno a portarmi via. Così non badai a niente e accettai l'offerta di Emilio a occhi chiusi. Ci fidanzammo, ci lasciammo vedere in pubblico, in casa di amici, una volta andammo anche a casa sua. Tutti si congratulavano con noi e dicevano che formavamo una coppia perfetta. Emilio recitava la parte come un attore. Mai che si tradisse, sia pure con un gesto sgarbato o con qualche parola sfuggitagli in un momento di distrazione. Questo non vuoi dire che non mi sorgessero i dubbi. Anzi confesso che a volte ero ombrosa, sospettosa, diffidente, ma non potevo confidare i miei timori a nessuno, meno che mai a mio padre. Dei resto cosa gli avrei detto? Andava tutto così bene agli occhi della gente che ero costretta io stessa a dubitare dei miei sospetti. Mio padre affermava che il comportamento di Emilio era ineccepibile sotto tutti gli aspetti e non lasciava dubbi sulla sua sincerità. lui stava alla forma naturalmente".
"E Carla?" chiesi.
"Anche lei, perfetta".
"Ma avevano mai occasione di trovarsi soli, lei e Emilio?"
"Io non me ne sono mai accorta. Non escludo che possano essersi trovati, ricordo anzi che qualche sera è capitato appunto a Carla di andare ad aprire a Emilio, ma si trattava di secondi, e poi nessuno ci badava, Emilio compariva subito dinanzi a tutti, affabile e sorridente come sempre, era difficile credere che avessero avuto il tempo di dirsi qualcosa. Ora io non voglio rimproverarli che se la intendessero, era nel loro diritto dopotutto, siccome avevano subito una sopraffazione da parte di mio padre. Gli rimprovero invece che l'abbiano fatto a mie spese, con l'inganno, servendosi di me come paravento ai loro piani fino al punto di farmi innamorare. Un giorno Emilio mi propose perfino di fuggire con lui. Eravamo in giardino e c'erano le farfalle. Ricordo questo particolare perché lui mi disse: "Le vedi le farfalle? Adesso è il tempo che fanno all'amore". lo fui turbata dall'immagine delle farfalle in amore e non risposi per non tradirmi, ma mi stringevo a lui commossa e mi proibivo di essere diffidente e mi dicevo che la cattiva ero io e che Emilio era tanto un caro ragazzo che non me lo sarei meritato. Fu in quel momento che mi propose di fuggire, e io non gli risposi nemmeno allora, ma dissi a me stessa che per lui ero pronta a tutto, anche a fuggire, e invece non lo feci, e non so perché non lo feci. Forse per non deludere la fiducia che tutti riponevano in me, ma fu un'imperdonabile ingenuità, perché avrei dovuto accettare, non fosse altro che per mettere Emilio alla prova".

VI
Papà Donato aveva preso a russare e Elena se ne irritò.
"Oh quanto vorrei che andasse a letto! - esclamò - E' inammissibile quel suo dormire a quel modo".
Ma lo stesso non si mosse né fece nulla per convincerlo.
Io dissi: "Ma perché lo fa, in conclusione?"
"Papà è pazzo - mi rispose. - Da che ha conosciuto i Fibbia e le loro idee, e più precisamente quelle che essi stessi gli fanno redere, se ne è entusiasmato a tal punto che vuole imitarli. E adesso si rifiuta di riconoscere come vera la fuga di Carla siccome la ritiene una cosa irregolare. Anche i Fibbia erano convinti fino a questa mattina, nonostante tutto, che Emilio avrebbe finito con lo posarmi. Sta' tranquilla, mi dicevano, vedrai che non ti ha abbandonata per sempre. Siccome sostengono che essi una cosa simile non la farebbero, si rifiutano perciò di credere che altri possa farla. Ma non è esatto nemmeno che essi non la farebbero. Infatti uno dei loro ragazzi fece qualche anno fa la stessa azione di Emilio, anche se in una forma meno clamorosa. Si chiamava Giorgio e si era fidanzata con me ... " "Con voi?!" esclamai io, non sembrandomi credibile ciò che affermava dopo quello che avevo udito da papà Donato sulla consuetudine del Fibbia di non sposare le donne del paese. "Con me, sì - confermò lei senza rilevare il mio dubbio. - Aveva già parlato con papà e veniva a casa. Tutti erano contenti, i Fibbia travedevano per me, ma sul più bello Giorgio s'invaghì di un'altra e mi piantò. Ci fu una casa del diavolo in casa sua, perché i suoi volevano me, però lui la spuntò. Non fuggì, come hanno fatto questi qui - e accompagnò le parole con un gesto che servì a rendere più chiara l'allusione - ma costrinse i suoi ad addivenire a un compromesso: lui s'impegnava a non sposare la ragazza senza il loro consenso, ed essi dal canto loro s'impegnavano a concedergli questo consenso". "Ma i Fibbia - le chiesi - ve l'avrebbero permesso di sposarlo?"
"Non me l'avrebbero permesso?! - fece lei offesa dalla mia dimostrazione di scetticismo - Ma se vi ho detto che travedevano per me. Questo, a onor del vero, va a tutto loro merito: che mi hanno sempre voluto un bene matto; almeno le loro dichiarazioni, non so fino a qual punto sincere, lo testimoniavano. E il motivo principale della loro avversione per quell'altra ragazza era appunto che essi volevano me. Anche papà era entusiasta di questo progetto di matrimonio, e non gli sembrava vero d'imparentarsi coi Fibbia. Solo la mamma era contraria e mi chiamava in disparte perché papà non sentisse, e mi supplicava con le lagrime agli occhi che mi togliessi dalla testa l'idea di sposare un Fibbia: "Dammi ascolto, mi diceva, tu non sai cos'è un Fibbia-, e continuava a piangere e, per convincermi, mi raccontava tutto ciò che sapeva sui Fibbia e in particolare un episodio che non riusciva mai a dimenticare: di quando i Fibbia entrarono improvvisamente a casa ... "
"Lo conosco - diss'io interrompendola. - Me l'ha raccontato vostro padre, ma lui sostiene che è una storia inventata".
"Ha detto questo? - esclamò lei disgustata guardando suo padre che continuava a dormire - Tutto sommato è forse meglio che dorma, così almeno non dice sciocchezze. Ma già non è colpa sua. Sono stati gli avvenimenti che l'hanno disorientato. Comunque la storia di mia madre che vide entrare i Fibbia col dito sulla bocca è vera: lo prova il fatto che essa si tirò dietro per tutto il resto della sua vita una debolezza di nervi per cui non sopportava di vedere uno col dito sulla bocca e diventava pallida, come paralizzata dal terrore".
"Ma da quello che mi hanno raccontato i Fibbia ho potuto capire che non ci fu da parte loro l'intenzione di spaventarla".
"Questo lo credo anch'io - mi rispose. - Infatti non ricordo nessun gesto del Fibbia che rivelasse in loro una simile intenzione. Ricordo però un episodio che può spiegare abbondantemente per qual motivo mia madre avesse di loro un tale terrore. Avevo otto anni. Un giorno andammo in casa del Fibbia io, papà e la mamma. Trovammo uno dei loro bambini, forse più piccolo di me, impegnato a disporre l'uno accanto all'altro in ordine di altezza certi pupazzi di legno di diversa grandezza, prendendoli a caso da un mucchio in cui giacevano alla rinfusa. Ora accadeva che ogniqualvolta gliene capitava uno - e accadeva quasi sempre - che a motivo dell'altezza meritasse la precedenza su altri già sistemati prima, riprendeva tutti questi e li riportava nel mucchio, sistemava l'ultimo arrivato e poi tornava al mucchio per prelevare di nuovo quegli stessi che aveva un momento fa riportati indietro. Un'operazione assurda, interminabile, che faceva ammattire chiunque vi assistesse. Ma il bello era che c'erano tutti i Fibbia ad assistervi, i quali, invece di ammattirsi, approvavano compiaciuti. Anche mio padre se ne entusiasmò e quando tornammo a casa mi disse che avrei eseguito anch'io un simile esercizio. Allora la mamma mi tirò a sé, spaventata da quell'idea, e mi coprì con tutta la sua persona. Aveva una continua paura che papà volesse farla impazzire e perciò odiava i Fibbia".
"E vostro padre mise in pratica il suo proposito?" chiesi.
"No. Per fortuna no".
"Avrà tenuto conto dell'opposizione di vostra madre" osservai.
"Non credo - rispose. - La mamma, poveretta, era una vittima come noi delle fissazioni di mio padre e non poteva nulla contro la sua volontà, all'infuori del piangere, ma sempre di nascosto, e dei consumarsi la vita così. lo credo piuttosto che la mancata attuazione del proposito di mio padre debba attribuirsi al fatto che egli non trovò i pupazzi. Ad ogni modo vi ho raccontato l'episodio a titolo di esempio degli infiniti casi che indussero mia madre a odiare i Fibbia. E io la capivo quando mi parlava di Giorgio ed ero propensa anche a darle ragione, ma l'amore in me era più forte della ragione. "Non avere paura, mamma, le dicevo, Giorgio è diverso" "No -rispondeva lei sempre piangendo - tu sei ancora una ragazza e non capisci, ma un Fibbia non può essere mai diverso". lo non mi rendevo conto allora perché un Fibbia non potesse essere diverso, e mi mettevo anch'io a piangere, ma per lei, solo per lei, perché sentivo che non le avrei mai dato ascolto, e l'abbracciavo e le dicevo: "Non far così, mamma mia, mi farai morire di dolore". "Oh, mi rispondeva, sarò io che morirò di dolore, sarò io, figlia mia, se ti saprò sposata a un Fibbia". Giorgio era un bravo ragazzo, simpatico, intelligente, è da molto tempo che non lo vedo e non so come s'è fatto adesso, ma io lo ricordo sempre com'era allora. Non sembrava davvero un Fibbia, mi riferisco al carattere, e nonostante che mi abbia lasciata, non riesco a portargli rancore: l'essersi saputo imporre a tutti, a parte per chi l'abbia fatto, è un gesto che ho apprezzato. Quando mi lasciò, mio padre e tutti i Fibbia erano impazziti per il dispiacere e fecero tanto di quel baccano che l'avvenimento, che altrimenti sarebbe passato inosservato come tanti altri, andò invece in pasto alla gente. Così mi trovai già allora al centro di uno scandalo per colpa loro. Ma forse le conseguenze che subì la povera mamma furono più dolorose delle mie, perché mio padre l'accusò di essersi rallegrata per l'allontanamento di Giorgio e la ritenne addirittura responsabile del fatto. Poco dopo la mamma morì, e la gente accusò mio padre di averla fatta morire di dolore. A favore di mio padre si schierarono i Fibbia i quali dissero che la mamma era malata di mente e che mio padre era stato un eroe nel sopportarla. E' un dubbio talmente angoscioso, credetemi! Quel che è certo è che la mamma deperiva giorno per giorno. Uno degli ultimi giorni ci chiamò noi tre e ci disse: "Non date retta a vostro padre, figlie mie, perchè vi porterò alla rovina". Ci abbracciò e mormorò: "Povere figlie mie che resteranno sole, e non avranno più nessuno che le difenda". lo non dimenticherò mai il momento in cui spirò: aveva la bocca aperta per il respiro faticoso, ma non staccava gli occhi da noi, e rimase così con quegli occhi impietriti che ci guardavano ancora. Ormai la sua avversione per i Fibbia era nota a tutto il paese, eppure ai funerali essi furono tutti presenti accanto a mio padre e avevano un'aria compunta come se fossero davvero addolorati".
"Ma vostro padre sostiene - osservai - che i Fibbia non sposano le donne del paese, e perciò mi meraviglia che Giorgio si fosse fidanzata con voi".
"Conosco questa storia - rispose lei. - Ma posso assicurarvi che essa è vera solo in apparenza. Mio padre, per quel che lo riguarda, trova comodo darla per vera perché lo consola della delusione subita e gli salva la faccia dinanzi alla gente. Tuttavia non si può negare che tutte le attuali mogli del Fibbia siano forestiere. Anche quella di Giorgio è forestiera. Ma questo non è sufficiente a dimostrare che esista una reale avversione del Fibbia per le donne del paese. Intanto bisogna tener presente che il foro continuo viaggiare favorisce gl'incontri con le donne degli altri paesi. Ma se si ammettesse una loro avversione per le donne di qui, non si spiegherebbe il fidanzamento di Giorgio con me e tanto meno l'entusiasmo da parte di tutti o la resistenza che successivamente opposero a Giorgio quando questi mi lasciò. lo vi dico invece che è vero il contrario, che sono cioè le donne di qui che non li sposano perché li temono: prova ne sia il terrore che ne aveva mia madre. Che poi i Fibbia stessi siano interessati ad accreditare la voce circa una loro presunto avversione per le donne di qui, mi pare più che naturale nelle loro condizioni. è un buon alibi, non vi pare? Il quale non esclude tuttavia la buona fede, nel senso che la constatazione di fatto che le loro donne sono tutte forestiere generi in loro una convinzione di principio che debbano esserlo per forza. Un principio non assoluto, naturalmente, ma uno di quelli a cui si può anche derogare, se si fa conto del caso di Giorgio".
Diventò di nuovo pensierosa e soggiunse con tono grave: "E' certo comunque che stabilire rapporti con quella gente costituisce sempre un'incognita. Sotto quest'aspetto mia madre aveva ragione, se ci ripenso, lei più di tutti che ne aveva fatta un'esperienza personale e così dolorosa. E io non so davvero quale sarebbe stata la mia sorte in mezzo ai Fibbia. Forse il sacrificio della mamma non è stato inutile. lo credo che anche mio padre se ne renda conto; gli capito infatti adesso di resistere all'influenza del Fibbia. Non è una cosa facile, ovviamente. Già non è detto che riconosca senz'altro che ciò sia un bene; in secondo luogo è comprensibile che dopo un'intera vita di fede cieca e di ammirazione per i Fibbia si dimostri riluttante a gettar via con uno scrollo tutte le sue convinzioni. A questo bisogna aggiungere le pressioni che subisce, ora più che mai, da parte foro. Non pressioni dirette, intendiamoci, dalle quali essi rifuggono per natura. E' sempre difficile dimostrare che essi ti stanno sopra, anche se in realtà è così. Adesso, per esempio, per agire sull'animo di mio padre mettono in campo i loro sentimenti verso di me, dicendo che da quando io sono stata la fidanzata di Giorgio, sia pure per poco tempo, mi considerano come una figlia, e che in certi rapporti il tempo non conta, perché anche se vengono a cadere essi lasciano sempre una traccia. Insomma l'essere stata una volta la fidanzata di Giorgio è per loro un fatto indistruttibile e stabilisce sempre ai loro occhi una differenza tra me e qualsiasi altra donna. Ma nonostante questo, mio padre è sfiduciato, me ne sono accorta questa mattina che s'è dimostrato insolitamente freddo con foro. E anche adesso è lì come se aspettasse un miracolo, ma non ci crede in fondo nemmeno lui e lo fa solo per puntiglio ... Oh adesso sono proprio stanca di vederlo così! "
Chiamò ad alta voce: "Papà! Papà!" e papà Donato si svegliò.
"Oh chi è? Chi è?" chiese guardando verso la porta, poi scosse la testa biascicando delle parole incomprensibili, e riprese a dormire.
Elena disse: "Avete visto che non ci crede seriamente nemmeno lui? Ma intanto continua ci star lì lo stesso ... Come vorrei che arrivasse presto l'alba!" Ora il dialogo era diventato un monologo di Elena. lo non la interrompevo più. Fissavo i mobili, il buffè alto e stretto che reggeva il sonno di papà Donato, il controbuffè più basso addossato al muro di fronte, le sedie e il tavolo, ed ero tornato a pensare a Nanetta. Vedevo il mio amore per Nanetta sotto un profilo nuovo, in una cornice d'ambiente ben definita da cui avrei tratto delle previsioni abbastanza sicure circa le sue probabilità di riuscita. Sapevo che più che alla volontà di Nanetta il suo filo era legato a quella di papà Donato, e non c'era dubbio che la vecchia amicizia e l'affetto che papà Donato aveva sempre portato alla mia famiglia, e soprattutto l'attaccamento che aveva dimostrato per me bambino, il suo piacere di tenermi in braccio, già noto a tutti, e che gli aveva fruttato da parte di mio padre il titolo di "balio asciutto", costituivano per me un vantaggio che non solo non era stato smentito ma anzi era stato confermato dalle dimostrazioni di simpatia di quel giorno. Se a questo aggiungevo le considerazioni di ordine economico, nettamente positive, avevo fondati motivi di sperare che anche la differenza di età di una quindicina d'anni che esisteva tra me e Nanetta sarebbe stato un ostacolo facilmente superabile.
Ma avrebbero i Fibbia permesso un'unione così intima tra me e la famiglia di papà Donato? La reazione di quello del tic al mio incontro di quella sera con Mario era un indizio della sua rinnovata ostilità. D'altra parte l'istintiva repulsione che io sentivo per quella gente e che ci aveva messi di contro l'uno all'altra sin dal primo momento, rendeva molto problematico un nostro riappacificamento. Avrebbe ora operato questo miracolo il mio amore per Nanetta?... Un improvviso battere alla porta mi scosse da questa meditazione e io balzai dalla sedia per andare ad aprire l'imposta.
"Chi è? Chi è?" chiese di nuovo papà Donato svegliandosi di soprassalto.
"C'è gente" risposi mentre guardavo nella strada attraverso il vetro con le mani sulla tempia a modo di parocchi per vedere meglio. Poi chiesi: "Chi siete?", e uno del gruppo che sostava vicino alla porta chiese a suo volta agli altri: "Che dice? Ma che dice?"
La voce e il modo di domandare mi rivelarono la loro identità. "Ci siamo" dissi tra me e, rivolto a papà Donato, gli annunziai i Fibbia.
"Aprite, aprite" mi rispose papà Donato, colpito da quell'arrivo inatteso, e si levò in piedi per ricevere i Fibbia.
Eravamo tutti sorpresi di quella visita a quell'ora, e tutti, credo, pensammo a Carla. Qualche notizia di Carla, se i Fibbia si erano spostati a quell'ora. Essi entrarono, secondo il loro solito, uno dietro l'altro, salutarono uno dopo l'altro, calmi, compassati, mentre noi attendevamo ansiosi di sentirli parlare, si disposero in cerchio in mezzo alla stanza, dettero tutti uno occhiata a me e finalmente quello del tic mi disse:
"Cercavamo di voi".
Io, supponendo che volessero parlarmi in segreto, mi avviai per uscire, ma lui mi trattenne.
"Possiamo parlare qui - disse. un discorso che riguarda tutti. Appena abbiamo saputo della fuga di Carla, ci siamo detti: noi abbiamo fatto tutto il nostro dovere, ma se gli altri dormono, - e sogguardò papà Donato - e non ci danno ascolto quando diciamo che Emilio è in giro, il meno che possa capitare è questo. Così, come avete visto, non ci siamo mossi. Ma ora ci è giunta notizia che voi avevate un biglietto di Emilio e vi confessiamo che questo ci ha sorpreso. Ecco perché siamo qui". "Chi ve ne ha parlato?" gli chiesi. "Il ragazzo stesso che ve lo ha portato". "Infatti -confermai io. - Però non sapevo di preciso da chi proveniva". "In quanto a questo, non era difficile intuirlo" osservò lui.
"Ammetto - risposi. - Ma il guaio è che il biglietto l'ho perduto e non l'ho più ritrovato".
"Perduto!" Spalancò tanto d'occhi, incredulo e scandalizzato.
"Proprio così - risposi allargando le braccia in segno di desolazione. - Era appunto quello che andavo cercando in casa vostra".
"Così voi non l'avete consegnato a Carla?".
"No".
"Strano!... E Carla come ha saputo che Emilio l'aspettava al mulino vecchio?" "Su questo non so dirvi nulla. E probabile che giù lo sapesse o che siate stati voi stessi a metterla sull'avviso quando siete venuti qui a riferire che Emilio era stato visto dietro il mulino vecchio".
Di nuovo spalancò gli occhi, ma questa volta era rivolto ai sei compari che gli ricambiavano l'occhiata stupefatto. Poi mormorò pensoso: "Questo può essere vero. Forse se noi non avessimo parlato, Emilio starebbe ancora ad attendere Carla dietro il mulino vecchio".
Papà Donato, scoppiando a piangere, esclamò: "E' vero, è vero".
"Ma non diciamo sciocchezze! - esplose Elena piena di bile - Siamo andati avanti per tutto questo tempo con le sciocchezze, ed ecco i risultati. Nemmeno adesso lo capite che quelli erano d'accordo su tutto, anche sull'ora della fuga, già da prima, da sempre?"
"E il biglietto come te lo spieghi?" le chiese suo padre ancora piangendo.
"Ma il biglietto chi l'ha letto? Poteva essere una manovra. Altrimenti sarebbero stati così ingenui da affidarlo nelle mani di un estraneo? Possibile che siate tutti così ciechi da prendere sul serio un pezzo di carta? Il biglietto serviva a metterci su una falsa strada. Secondo me doveva contenere una sciocchezza qualsiasi, magari la richiesta di un intervento di Carla presso di me per un riavvicinamento di Emilio, ma solo per mascherare la loro fuga, capite!"
Le tremava il labbro inferiore per l'indignazione. Ci piantò tutti in asso e andò via sbattendo l'uscio per cui era uscita. Eravamo ammutoliti. lo personalmente ero convinto che Elena avesse ragione e che avesse visto molto più giusto di me che mi ero lasciato infinocchiare da Emilio. Ma più umiliati di tutti erano i Fibbia: lo dimostravano i loro volti lividi. Quello del tic mi chiese: "Voi dunque il biglietto non l'avete letto?"
"Era chiuso - risposi. - Come potevo? E poi in ogni caso non mi sarei permesso".
"Così nessuno conosce quello che vi era scritto?" "E' naturale".
"Allora bisogna ritrovarlo".
"Ritrovarlo? - esclamai dando un passo indietro - E a che scopo?" "Appunto per sapere quello che vi era scritto".
"Ma non serve a nulla, signori miei - dissi con modi persuasivi, congiungendo le mani, nel tentativo di smuoverlo dalla sua idea. - Siamo ragionevoli, via! Avete sentito quello che ha detto Elena. Ha ragione, è così".
"Una ragione di più per ritrovare il biglietto - incalzò lui ostentando una calma che non gli si addiceva in quel momento. - E' necessario stabilire la verità del fatti, perché che Elena abbia ragione nessuno l'ho ancora dimostrato".
C'era in queste parole il segreto risentimento per l'umiliazione subita, e io capii che ogni resistenza sarebbe stata inutile.
"Ma dove dovrei andare a cercarlo adesso?" gli chiesi con molta pazienza.
"Dove siete stato dopo che avete ricevuto il biglietto?" mi chiese lui a sua volta.
"Qui e da voi - risposi. - Ma ho già cercato nell'uno e nell'altro posto senza risultato".
"Allora andiamo a casa vostra - propose papà Donato. - E' possibile che
l'abbiate lasciato a casa".
Riconobbi che era possibile, benché ricordassi che quando il ragazzo me l'aveva consegnato l'avevo messo in tasca. Solo non ricordavo in quale tasca, né se era una tasca della giacca o del pantaloni, e questo rendeva molto dubbio il mio ricordo. Tuttavia non fu questo dubbio che decise della mia approvazione a una simile impresa; fu piuttosto la considerazione di poco prima, che tenermi buoni i Fibbia, o almeno non irritarli di più, era un elemento indispensabile alla salvezza del mio amore per Nanetta. Perciò dissi: "Va bene, andiamo pure a casa mia".
"Andate voi - disse il Fibbia a me e a papà Donato. - Noi restiamo con le ragazze".
E mi avviai, per amore di Nanetta, a quell'assurda spedizione insieme con papà Donato. Cosa avrebbe pensato la gente, se qualcuno - magari uno dei miei stessi contadini che si fosse alzato a quell'ora per andare in campagna - mi avesse visto in giro come un fantasma per le vie dei paese? La notte era tiepida e io camminavo in fretta, tenendomi il più possibile accostato ai muri. Di fronte a ogni casa mi assicuravo che qualche porta non fosse aperta. Passammo vicino al mulino vecchio, mi ricordai che di lì avevano preso il volo Carla e Emilio e me li immaginai distesi, beati loro, in qualche capanna o in mezzo all'erba, mentre io ero costretto ad andare insieme con un vecchio pazzo in cerca di un pezzo di carta che non serviva a nulla. Papà Donato arrancava dietro di me con la testa all'ingiù come gli asini e brontolava: "Un biglietto non ha piedi e in qualche posto deve stare". A un certo punto mi accorsi che non mi seguiva. Mi voltai e lo vidi fermo sotto una lampadina a guardare per terra e a frugare col piede tra un mucchio di carte.
"Non crederete di poterlo trovare tra le spazzature" gli dissi.
Egli mi raggiunse e rispose: "Avevo visto una cosa che gli assomigliava, ma non era niente", come se lui, il biglietto, che andavamo cercando, lo conoscesse e sapesse com'era fatto.
Arrivammo a casa, salimmo in camera mia, rovistammo in ogni angolo, gli assicurai che ero stato solo in quella camera, concludemmo che non c'era niente nemmeno lì.
"Ho un'idea" disse lui. lo stetti ad ascoltarlo curioso. "Il biglietto non ve l'ha portato un ragazzo?"
"Sì" risposi.
"Non è quel monello scalzo di cui si serve la signora Rosa?"
"Sì".
"Be', lui deve sapere quello che vi era scritto".
"Non credo - risposi. - Al ragazzo l'aveva consegnato la donna della signora Rosa".
"Allora lo saprà la donna".
"Nemmeno - insistetti. - Non si mostra a una domestica il contenuto di un simile biglietto".
"Ma essa doveva conoscere le intenzioni di Emilio - s'incocciò papà Donato. - In ogni caso ha avuto in mano il biglietto e questo è sufficiente perché sia in grado di dirci qualche cosa".
Anche se era presumibile che la signora Rosa passasse la notte in bianco come noi, l'idea di andare da lei a una simile ora e soprattutto in una simile circostanza non poteva essere più originale.
"E' notte - gli dissi nella speranza di dissuaderlo. - Non concluderemo nulla. Rimandiamo almeno a domani. Domani, di giorno, sarà più facile".
"No - rispose lui, sordo a ogni ragione. - Domani è troppo tardi. Bisogno andare ora". E fermo nel suo proposito, soggiunse: "Andrò io. Voi resterete qui, e al ritorno v'informerò di tutto".
Io non avrei avuto l'animo tranquillo se lo avessi lasciato andar solo, a quell'ora, in giro per il paese. Sarebbe stato maggior pena per me attendere il suo ritorno. Dissi: "No, vengo anch'io", e partimmo insieme per quell'altra spedizione.
La luna era a spicco e rilucevano i muri delle case. Noi camminavamo in fretta e ci risuonava negli orecchi il rumore dei nostri passi. Sfociammo in una piazzetta, io mi fermai a guardarla come era piena di luce. Sullo sfondo si distingueva una casa verde e papà Donato, credendo che guardassi la casa, disse: "Anche quella è dei Fibbia, ma non di quelli lì: di altri"
"Ma non abitano tutti nella stessa strada?" chiesi io disorientato.
"E perché dovrebbero abitare tutti nella stessa strada? - rispose lui - Quelli che abitano nella strada che conoscete voi, non sono tutti i Fibbia. Quelli sono i Fibbia ricchi, ma non tutti i Fibbia sono ricchi, e ce ne sono molti altri oltre a quelli. Che io poi nei miei discorsi mi riferisca sempre a quelli, ciò dipende dal fatto che solo con loro ho rapporti di amicizia e anche perché, essendo i Fibbia ricchi, sono quelli che più contano. Però sono tutti solidali tra loro, e ciò che tocca uno solo di essi tocca tutti".
Riprendemmo a camminare in silenzio, mentre io pensavo alla razza del Fibbia. Arrivammo davanti alla casa della signora Rosa. Papà Donato si avvicinò al portoncino e busso. Bussò una prima, una seconda, una terza volta, non rispose nessuno.
Chiamò: "Signora Rosa, signora Rosa!" Uguale risposta.
Allora gridò: "Signora Rosa, aprite che devo parlarvi". lo osservavo con preoccupazione come andasse a mano a mano riscaldandosi e mi tenevo lontano da lui. Gridò e picchiò al portoncino più volte e ogni tanto si guardava intorno, sperando forse che i vicini sentissero e si affacciassero. Anch'io guardai le porte e le finestre delle case vicine, non credendo possibile che qualcuno non si levasse in seguito a tanto strepito. In realtà mi accorsi che molte finestre venivano cautamente aperte a spiraglio e che dietro ciascuno di esse c'era gente nascosta, ma nessuno usciva. Papà Donato si avvicinò a una finestra e chiese: "Ma non c'è la signora Rosa?", e in quello stesso istante tutte le finestre furono chiuse. Rimanemmo molto turbati. Ora la stessa luce della luna metteva in risalto la nostra condizione di gente sola. Provai a convincere papà Donato a desistere dal suo proposito e a tornare a casa.
"Andiamo - gli dissi. - Non vedete che non risponde nessuno? E poi può essere che la signora Rosa non sia in casa".
"Come lo sapete che non è in cosa? - fece lui irritato - Ci deve essere per forza. Non è possibile che sia fuggita anche lei".
"Ma non vi aprirò lo stesso. Non lo capite che non vi aprirà?"
Lui si coprì la faccia e scoppiò a piangere. In mezzo alla strada piangeva come un bambino, e tutti di dietro alle porte lo sentivano come piangeva. Gli presi il braccio, gli dissi:
"Andiamo a casa. Datemi ascolto. Vi sentono tutti, qui".
Egli si svincolò e rispose: "No. Andatevene voi, vi prego". Si appoggiò a un muro e mi misi anch'io accanto a lui.
A una ventina di metri da noi, strani tipi di nottambuli attraversarono la strada. "Chi sono?" chiesi.
"Sono Fibbia" rispose papà Donato. "E vanno in giro a quest'ora?"
"E perché? - osservò lui - Noi forse non siamo in giro?"
Tacqui, non sapendo che rispondere: riflettevo a quella mia curiosa situazione in cui mi ero cacciato.
"Che intendete fare adesso?" gli chiesi poi.
"Voglio bussare di nuovo" rispose, e così dicendo si staccò dal muro e andò di nuovo a bussare al portoncino della signora Rosa e a chiamare: "Signora Rosa, signora Rosa! Volete aprire sì o no? Volete aprire sì o no?"
Io non ero in grado più d'immaginare come sarebbe andata a finire, e mi rassegnai a passare lì tutta la notte, prevedendo che non ci saremmo mossi prima dell'alba. A un tratto spuntarono in fondo alla strada altre persone che mi sembrarono, dal modo di camminare, i sette Fibbia che avevamo lasciati a casa.
Quando si avvicinarono un po' di più, dissi a papà Donato: "Ecco i Fibbia, vengono qui".
Papà Donato tornò verso di me, e andammo insieme incontro a foro. Quello del tic, vedendoci, disse:
"Ma che fate qui? Abbiamo girato mezzo paese per ritrovarvi".
"Papà Donato voleva parlare con la domestica della signora Rosa - risposi io - siccome a casa mia il biglietto non l'abbiamo trovato".
"Ma la signora Rosa - osservò lui - non c'è. Abbiamo notizia ch'è andata via anche lei".
"Gliel'ho detto" risposi io indicando papà Donato per allontanare da me il sospetto di complicità in quella pazzia.
Papà Donato ascoltò con la testa bassa senza rispondere. "Bisogna rimandare tutto a domani" concluse il Fibbia.
Ci separammo con quest'intesa, e io e papà Donato tornammo indietro taciturni. Papà Donato continuò a tenere la testa bassa per tutto il cammino.
Lo accompagnai fino a casa sua, poi gli detti la buona notte e me ne andai a
dormire.
Nemmeno il pensiero di Nanetta poteva più nulla sulla mia stanchezza.

VII
Mi svegliai a mezzogiorno. O forse fui svegliato, perché venne a bussare alla mia camera la governante che mi disse:
"Vi desiderano dalla signora Rosa".
Mi stupii che fosse così tardi e, pranzato in fretta, mi recai dalla signora Rosa, di cui m'aspettavo la chiamata, essendo prevedibile che i vicini di casa l'avrebbero informata, ai suo ritorno, di quanto era accaduto durante la notte.
Aprendomi, la signora Rosa mi pregò, col dito sulle labbra, di entrare senza far rumore, poi chiuse la porta e invece di condurmi in salotto mi fece accomodare nell'ingresso stesso.
Io non comprendevo la ragione di tutte queste cautele, ma lei mi disse sottovoce, parlandomi quasi all'orecchio:
"Sono qui, sono arrivati adesso. li ho fatti tornare io". "Chi?" chiesi.
"Non indovinate?" rispose lei con un tono che non lasciava più dubbi, e io la guardai ancora più disorientato. Ella intrecciò le mani sulla pancia e disse:
"Papà Donato non vuoi dare il consenso a Carla".
"Che consenso?" chiesi non afferrando.
"Sapete che Carla è minorenne - rispose. - E quindi ha bisogno dei consenso dei genitori per sposare".
"Ma non è già sposata?" esclamai.
Ella si abbandonò sullo schienale della sedia e disse scandalizzata:
"Oh don Gegè! Non vi capisco. Davvero non vi capisco, credetemi".
"Va bene, lasciamo andare - risposi io non avendo nessuna voglia d'imbarcarmi in una simile discussione. - Ma a voi chi ve l'ha detto che papà Donato non darà il consenso?"
"I Fibbia stessi. Sono stati i Fibbia stessi che hanno sparso questa voce. Allora io ho mandato a dire a papà Donato che i due ragazzi vogliono chiedergli perdono, se lui gli permette di andare a casa".
"A casa sua?"
"E dove allora? Così ho fatto venire subito i ragazzi che ieri si erano rifugiati in casa di mia sorella nel paese della mamma, dove io stessa li avevo poi raggiunti".
"Già, l'abbiamo notato" osservai.
"Appunto - rispose lei. - Questa era l'altra cosa che dovevo chiedervi. Cosa voleva da me questa notte papà Donato?"
"Voleva avere delle notizie circa un biglietto che sarebbe stato mandato ieri a Carla".
Ella si strinse nelle spalle e rispose:
"Non so proprio nulla di questo biglietto".
"L'avevo immaginato - dissi. - E dei resto non era nulla d'importante ... Ma voi -soggiunsi - eravate dunque al corrente dei progetti di fuga di Carla e di Emilio?"
Ella stette qualche minuto con la faccia tra le mani e in silenzio. Poi disse: "Sono costretta ad arrossire perché vi ho ingannato, don Gegè. Ma vi prego di comprendermi, non l'ho fatto per cattiveria. lo ero al corrente di tutto, ora finalmente ve lo posso dire. Venni a conoscenza della difficile situazione di quei due ragazzi sin dal momento in cui papà Donato si oppose al loro amore e sapevo che essi si amavano di nascosto. Penso che anche voi conosciate ormai i fatti".
"Sì" risposi.
Ella congiunse le mani e continuò: "Bene. Essi dunque si amavano lo stesso e ingannavano Elena. lo avevo pietà di Elena, povera figlia, e volevo aiutarla, ma non mi era possibile senza compromettere l'amore di Carla e di Emilio. Quando venne qui a farmi visita, mi baciò, mi chiamò mamma, lei che la mamma l'aveva perduta, mentre io sapevo tutto ... Oh allora l'abbracciai e la baciai per tutta la pietà che sentivo per lei. Piangevo. Piangevo mentre lei mi sorrideva, e dissi che ero commossa per la gioia di averla conosciuta".
Tornò a piangere dinanzi a me, e questa volta io la sentivo sincera e ne ero commosso.
"Ma perché - le chiesi - Emilio non s'è deciso prima, e ha costretto Elena all'umiliazione di vedersi abbandonata proprio il giorno delle nozze?"
"Sperava sempre che papà Donato si sarebbe ricreduto e avrebbe alla fine evitato lo scandalo. E invece all'improvviso, dopo appena un mese di fidanzamento, quello lì fissa le nozze e mette Emilio e Carla con le spalle al muro. Che potevano fare? Emilio lo pregò che aspettasse ancora un poco, ma lui rispose che così sarebbero invecchiati, e che per fare un matrimonio non c'era mica bisogno di tanto tempo, perché la parola è sufficiente. Allora i due ragazzi furono presi dal panico e concordarono all'ultimo momento il loro piano. lo vi confesso che ero talmente indignata che in un primo momento non volli saperne più nemmeno di Carla e intendevo rompere ogni rapporto con quella famiglia. Poi, sapete com'è ... l'ho fatto per mio figlio".
Tacque e restammo tutt'e due silenziosi. lo non provavo più avversione o diffidenza per lei. Avevo capito le sue angustie, le sue miserie, perfino la sua piccola furberia della sera precedente, quando mi aveva mandato dai Fibbia per coprire con una manovra diversiva la fuga di Emilio. Tutto questo, non che indignarmi, mi muoveva a pietà. Ma ora pensavo a Emilio e a Carla, che sapevo vicini a me, separati forse solo da un muro. Dissi: "Dormono?" accompagnando la domanda con un gesto dei capo che spiegava a chi mi riferivo.
"Sì - rispose la signora Rosa . - Emilio è in camera sua e Carla per il momento l'ho sistemata alla meglio nel salotto".
Feci uno faccia scandalizzata. "Divisi?!" esclamai.
E come ella agitava la testa per significare ch'era proprio così, soggiunsi: "Ma non mi direte che resteranno così finché non avranno il consenso!"
"Sì, don Gegè - rispose lei seria e inflessibile. - Vi ho già spiegato come la penso e non credo sia il caso d'insistere su questo argomento".
Lo credetti anch'io e mi dissi che dopotutto il punto di vista della signora Rosa non doveva poi essere tanto stravagante dal momento che Carla e Emilio stessi lo avevano accettato. Così non insistetti e mi levai per recarmi in casa di papà Donato.
"Se andate da papà Donato - mi disse la signora Rosa - portatemi qualche buona notizia".
Promisi che l'avrei fatto e partii di buon passo. Mi ricordai che Nanetta mi stava aspettando e temevo che mi rimproverasse vedendomi arrivare così tardi. La trovai, insieme con Elena, che mi attendeva vicino alla porta.
"Oh, finalmente!" esclamò Elena aprendomi. Nanetta non disse nulla, mi sorrise soltanto.
"Mi avete atteso parecchio?" chiesi.
"Speravamo che veniste questa mattina" disse Elena. "Mi sono alzato tardi -risposi. - Ero molto stanco". Passammo nella cucina e di lì in giardino, dove ci sedemmo all'ombra d'un glicine. Chiesi dove fosse papà Donato, siccome non l'avevo visto in cucina.
"S'è chiuso in camera sua" disse Elena.
"E perché?"
"Perché Carla vorrebbe venire per promettergli che non lo farà più" rispose lei ironicamente.
"Questo lo so - dissi io sorridendo. - Mi ha informato la signora Rosa. Vengo appunto di là. Ci sono anche loro soggiunsi. - Ma io non li ho visti". "Sì, l'abbiamo saputo - rispose lei. - E' da allora che papà s'è chiuso, e non vuoi dare nemmeno il consenso per il matrimonio".
Disse questo molto seccamente come se l'argomento le desse fastidio. Ma io
insistetti:
"E credete che resterà fermo nel suo proposito?"
Ella esitò prima di rispondere, poi disse: "Io per conto mio credo che sarebbe una sciocchezza, perché servirebbe solo a fare più scandalo. Ma papà, sapete com'è ... Ho l'impressione però che i Fibbia non siano del suo parere, perché questa mattina sono stati qui e li ho sentiti discutere con papà: dicevano che ormai il negare il consenso non risolve nulla".
Fui contento di averlo saputo, perché non mi sfuggiva che le parole dei Fibbia avrebbero alla fine avuto ragione dell'ostinazione di papà Donato. Messo da parte quest'argomento, mi occupai finalmente di Nanetta che continuava a guardarmi in silenzio e mi sorrideva. Elena disse, notando che rispondevo al sorriso di Nanetta: "Meno male che venite voi a farci un po' di compagnia. Siamo rimaste così sole io e questa bambina!"
Trattava Nanetta come una bambina e le accarezzava i capelli. Nanetta aveva i capelli lunghi e sciolti e una ciocca le pioveva sulla fronte nascondendole il viso. Lei gliela spinse indietro dicendo: "Perché non ti metti un nastro?"
l'accarezzò tre volte, poi mi chiese: "Vi piace questa bambina?"
Arrossii talmente che ebbi paura di tradirmi. Nanetta si levò e disse: "Permesso un momento".
Fu la mia salvezza, perchè Elena si rivolse verso di lei per chiederle: "Dove vai? Non far rumore per papà".
"Torno subito" rispose Nanetta e rientrò in casa. Nel frattempo io ero riuscito a dominarmi e sentii che la vampata di rossore non aveva lasciato tracce sul mio viso. Quando Elena tornò a guardare verso di me, ero abbastanza disinvolto per riprendere la conversazione.
"E' tanto una cara bambina! - disse lei alludendo a Nanetta - Dopo la morte della povera mamma, sono stata io che ne ho avuto cura. Adesso soffrirei molto se dovessi staccarmene".
Io ostentavo indifferenza a questo discorso. lei se ne accorse e cambiò argomento.
"Quando voi non verrete più - disse - ci sentiremo veramente sole".
"Per parte mia - risposi - non c'è motivo che non venga". "Vi annoierete. è tutto così monotono qui".
"Io non lo trovo ... Ci siete voi".
Questa volta fu lei che arrossì e io m'accorsi di avere commesso una grave imprudenza, a causa della quale Elena avrebbe potuto lusingarsi, sia che cadesse in un equivoco spontaneo senza malizia, sia che cedesse a un istintivo bisogno di ingannare se stessa. Disse infatti: "Io?! Ormai io non servo più a nulla" Era chiara, sotto l'apparente pessimismo delle parole, la sua illusione nei riguardi dei miei sentimenti per lei. Allora mi affrettai a precisare, con l'intenzione non nascosta di disingannarla: "Intendevo riferirmi alla compagnia vostra e di Nanetta, naturalmente".
Mi rivolse uno sguardo freddo, sdegnoso, che io ebbi appena la forza di sostenere. Ma in quel momento arrivò Nanetta e dissipò con la sua improvvisato ogni ombra. Aveva indossato una veste nuova, di seta bianca a giromaniche, e si fermò sulla porta aspettando che le manifestassimo le nostre impressioni. Elena disse: "Che hai fatto, Nanetta? Perché ti sei messa quella veste?"
"Me l'ha cucita lei" rispose compiaciuta Nanetta rivolta a me e indicando Elena.
"Complimenti!" feci io guardando Elena e le sorrisi. lei mi ricambiò uno sguardo ambiguo che rivelava ancora l'incertezza del suoi sentimenti. Si udì la voce di papà Donato che chiamava dall'interno.
"Vengo subito, papà" rispose Elena e chiese permesso.
Appena Elena ebbe varcata la soglia per rientrare in casa, io e Nanetta ci trovammi l'uno nelle braccia dell'altra.
"Quando tornerai? Dimmi quando tornerai" mi chiese lei stringendomi freneticamente. Esigeva una risposta pronta, precisa, immediata. Elena era già di ritorno, il risuonare dei suoi passi nella cucina non consentiva esitazioni. "Ti ho atteso per tanto tempo, oggi" ripeté Nanetta con voce soffocata dall'emozione.
"Stasera. Tornerò stasera stessa" risposi io precipitosamente e ci staccammo. Eravamo tutt'e due molto pallidi. Io finsi di occuparmi di una pianta, piegato su di essa come per osservarla, in realtà per nascondere il mio pallore. Nanetta, al lato opposto del giardino, credo che facesse altrettanto. Elena ci trovò così, intenti a osservare le piante, e non sospettò nulla.
"Papà voleva sapere chi c'è - disse rivolta a me. - Gli ho detto che ci siete voi e tra poco sarà qui".
Nel dirmi questo, mi posò inavvertitamente la mano sulla spalla. Se ne accorse subito e la ritirò dicendo: "Oh, scusate".
Gli sguardi mio e di Nanetta s'incontrarono. Io dissi, per dissimulare l'imbarazzo: "Verrà subito vostro padre?"
In quello stesso istante udimmo del passi nella cucina.
"Eccolo" disse Elena, e papà Donato comparve sulla soglia.
"Oh, don Gegè! - esclamò appena mi vide - Ho piacere che siate venuto. Tra poco dovranno venire i Fibbia e io son contento che ci siate anche voi", "Perché?" chiesi.
"Dobbiamo discutere di una cosa molto importante e gradirei che foste presente".
Io capii a che cosa si riferiva e accettai di buon grado di restare per prendere parte alla discussione. Ci sedemmo tutt'e quattro all'ombra del glicine, in attesa dei Fibbia. Nanetta mi strizzava l'occhio e, allungando la mano dietro le spalle di Elena che era seduta tra noi, mi prendeva un lembo della giacca e me lo tirava. lo spingevo a mia volta indietro la mia mano e cercavo di allontanare la sua per paura che se ne accorgesse o Elena o suo padre. Ma indipendentemente anche dalle conseguenze che una simile eventualità si sarebbe tirata dietro - e di cui Nanetta pareva non curarsi per nulla, come se fosse anzi desiderosa di farsi vedere - ero io stesso che avevo fastidio di quello scherzo. Esso infatti, mettendomi in uno stato di agitazione, m'induceva a riflettere su me stesso e a pensare che qualcuno, vedendomi, poteva dire: "Quello lì è innamorato"; e bastava questo pensarmi visto da un altro per farmi vedere da me stesso. Ora è chiaro che esser presenti a se stessi nello stato d'innamoramento è uguale a esser presenti a se stessi in uno stato di ubbriachezza, che si perde ogni spontaneità, ogni abbandono, ogni confidenza, e resta solo la vergogna. Questo non vuoi dire che io mi vergognassi del mio amore o che fossi minimente irritato con Nanetta per il suo scherzo. Tutt'altro. Il fastidio a cui accennavo era solo l'aspetto negativo della presenza di Elena e di papà Donato, i quali, rappresentando in quel momento agli occhi miei la gente, gli altri, gl'intrusi, m'impedivano di prender diletto appunto di quello scherzo. E sorse sin d'allora in me un sentimento di contrarietà verso di loro che era destinato a diventare sempre più acuto. Nanetta dunque mi tirava la giacca e la nostra fortuna era che papà Donato parlava e Elena era attenta alle sue parole, ma bisogno ammettere d'altra parte che era proprio questa circostanza che incoraggiava Nanetta a spingere a fondo il suo divertimento. lo non so dire per quanto tempo ella aveva intenzione di continuare così o fino a che punto saremmo riusciti a sottrarci all'attenzione di papà Donato e di Elena; so soltanto che il mio desiderio di quel momento era che papà Donato smettesse di parlare e cominciasse a dormire, così la mia vigilanza, dovendosi esercitare solo nei riguardi di Elena, non mi avrebbe sottoposto a uno sforzo eccessivo. Ma papà Donato quella volta dette una prova di vivacità talmente insolita che perfino Elena ne rimase colpita. Ella infatti, notando come parlasse animatamente e quasi concitatamente, gli disse: "Ti può far male parlare così", al che papà Donato, senza per nulla interrompere il suo discorso, rispose con un nervoso gesto negativo della mano e della testa. Era l'argomento stesso dei resto che lo trasportava, perché trattava - e di che altro poteva trattare? - di Emilio e di Carla e dell'inganno che avevano tramato. Alla fine la sua foga mi attrasse e io mi disposi a seguirlo con maggiore attenzione, quando a un certo punto lo vidi rivolgersi direttamente a me e dire: "I Fibbia si sono lamentati anche di voi perché ieri sera, andando a casa loro e tenendoli occupati nella conversazione, agevolaste la fuga di Emilio. Loro anzi sostengono che andaste lì proprio con questa intenzione e vi accusano di aver tenuto il sacco alla signora Rosa".
Io protestai che non era vero e mi accingevo a spiegare come realmente erano andati i fatti, ma lui mi prese la mano agitandomela per farmi tacere e soggiunse: "Lo so, lo so, ho capito. Gliel'ho detto io stesso che sono in errore. E quando essi hanno obiettato che la circostanza del biglietto che recavate a Carla basta ad accusarvi, ho risposto che è proprio quella circostanza invece la prova della vostra innocenza, altrimenti non vi sareste messo nelle condizioni di smarrire il biglietto e vi sareste premurato di consegnarlo subito a Carla ... Be', sapete che cosa mi hanno detto a questo punto?" concluse sollevando su di me i suoi occhi penetranti.
Nessuno fiatava. Anche Nanetta aveva smesso adesso di molestarmi, ed eravamo tutti intenti ad ascoltare ciò che i Fibbia avevano detto. lo mi sentivo battere il sangue vicino alla tempia presentendo, dal tono della voce di papà Donato, che qualcosa di poco piacevole stava per uscirgli di bocca.
"Mi hanno chiesto - disse finalmente lui - se è proprio vero che il biglietto s'è smarrito".
A quelle parole mi si annebbiò la vista.
"Cosa vorreste insinuare?" dissi, e in quello stesso istante vidi Elena scrutarmi sospettosa. Nanetta dal canto suo era perplessa e corrugava la fronte.
"No - rispose papà Donato. - Non sono io che insinuo qualcosa, don Gegè, ma sono loro, i Fibbia. lo non ho fatto che riferire le loro parole".
"Ma voi - incalzai levandomi in piedi e piantandomigli di fronte - voi siete d'accordo con loro?"
"Oh, io naturalmente - rispose lui scuotendo la testa - non sono d'accordo".
Ma io vedevo puntati contro di me tre sguardi che erano più eloquenti delle parole.
"Non è vero - esplosi accecato dallo sdegno. - Perché riversare la colpa sui Fibbia se siete voi stessi che mi accusate? E vero? Ditelo voi, signorina Elena. E' vero che mi sospettate? E anche tu Nanetta - nell'impeto dell'accusa mi sfuggì quel "tu" anche alla presenza di suo padre e di sua sorella. - Dillo se è vero che non mi sospetti".
Ma benché fossi sconvolto, compresi che la libertà che mi ero permesso avrebbe certamente colpito papà Donato e Elena; perciò, rivolto ancora a Nanetta, mi corressi:
"Oh, dovete scusarmi. E' avvenuto nella foga, naturalmente".
Nanetta tuttavia non dette nessuna importanza alle mie parole di scusa e continuò a fissarmi con uno sguardo intenso e angosciato, come se attendesse da me la forza per credere alla mia sincerità: una forza che io d'altra parte non potevo infonderle se non le veniva dal suo stesso amore. Mi sentii scoraggiato. Dissi, rivolto a tutti: "Vi chiedo il permesso di andar via. Mi aspettano dalla signora Rosa", e mi avviai per uscire.
Speravo che mi avrebbero richiamato per chiedermi scusa e per provarmi la loro buona fede e il loro pentimento. Sostai anche per qualche istante presso la porta per dare loro il tempo di riflettere: ascoltavo il loro silenzio senza voltarmi, contavo soprattutto su Nanetta, ma nessuno, nemmeno lei, si mosse o mi parlò, e mi lasciarono andare via come un vero reo. Un dolore atroce mi stringeva il cuore. Mi ripromisi di non più tornare in quella casa, ma sentivo nell'atto stesso di propormelo che sarebbe stato il proposito di un'ora. Il desiderio di Nanetta mi faceva gettare sotto i piedi tutto il mio orgoglio come foglie secche. E sapevo già sin da quel momento che la mia visita alla signora Rosa aveva il solo scopo di preparare il mio ritorno da Nanetta. Mi guardai bene naturalmente dal rivelare alla signora Rosa la causa della mia agitazione, limitandomi a riferirle solo quanto Elena mi aveva confidato sulle intenzioni di suo padre circa il consenso per il matrimonio di Carla. La signora Rosa, nel mentre mi ascoltava con le mani giunte, non nascondeva la sua ansia per quello che le dicevo, e io le assicurai che papà Donato non aveva preso ancora nessuna decisione in merito, ma attendeva di consultarsi col Fibbia, i quali peraltro nella mattinata si erano giù dimostrati favorevoli alla concessione dei consenso. la signora Rosa esultò di gioia a questa notizia ed esclamò:
"O Dio! I Fibbia ! Allora bisogna parlare coi Fibbia".
Aprì un uscio e mi pregò di entrare. Era la sala da pranzo, immerso come tutta la casa nella penombra. Dapprima non vidi che i mobili, il tavolo, il buffè, la cristalliera, le sedie e due poltrone; poi quando l'occhio si fu adattato alla nuova luce, scorsi, sprofondati nelle poltrone, Carla e Emilio che mi guardavano smarriti. Colpito inaspettatamente dalla loro vista, non seppi come comportarmi e rimasi muto e senza iniziativa. M'interessavo soprattutto a Carla confrontando i ricordi del giorno prima, di una Carla vispa e spiritosa, con quel volto pallido e dimesso che mi si presentava ora, e queste riflessioni accrescevano ancora di più il mio imbarazzo. Salutai. Si levarono tutt'e due in piedi rispondendo al saluto e stendendomi la mano. Io, per togliermi dal disagio che mi dava la vista di Emilio, dissi: "Son venuto per informarvi che papà Donato quasi certamente recederà dal suo proposito. Attende solo di parlare coi Fibbia".
Essi rimasero indifferenti, come se fossero estranei alla faccenda. Si abbandonarono di nuovo nelle foro poltrone e continuarono a guardarmi senza parlare. Sembravano soprattutto annoiati. La signora Rosa mi chiese quando sarebbero andati i Fibbia da papà Donato, e io risposi che non dovevano tardare perché papà Donato li attendeva da un momento all'altro.
"Allora li vedremo passare - esclamò soddisfatta lei. - Passano sempre di qua per andare da papà Donato".
"Ma è improbabile che si fermino" osservai.
"Non importa. A me mi basta di vederli passare" rispose.
Ci accostammo tutt'e due alla finestra e lasciammo le imposte semiaperte.
"Ora staremo attenti se passano" mi disse la signora Rosa e mi offrì una sedia. "Se passano - soggiunse - vuoi dire che avremo la risposta questa sera stessa".
Aspettammo più di un'ora, taciturni e pensierosi, presso la finestra, e la strada era sempre deserta. Ogni tanto passava qualche persona frettolosa e gettava una rapida occhiata alla finestra. lo dissi: "Eppure devono passare".
La signora Rosa non rispose. la suo euforia di un momento prima era improvvisamente scomparsa. la stanza diventava sempre più buia a mano a mano che il sole calava ed era coperto dalle case di fronte. lo mi voltai a guardare Carla e Emilio i quali non mostravano nessun interesse per la nostra attesa ed erano introvabili nell'ombra della stanza. la signora Rosa disse: "Tutti questi giorni fino a questa mattina hanno stazionato permanentemente dei gruppi di Fibbia qui di fronte. Ora non ci sono più". "Mi pare un buon segno - risposi. - Vuoi dire che vi hanno tolto l'assedio".
Ella rispose dubbiosa: "Questo invece mi preoccupa. lo credo che non passeranno più. Vedrete che non passeranno".
"E perché - chiesi - non dovrebbero passare?"
"Non lo so - rispose lei mettendosi le mani sotto il mento - Ma è molto strana questa loro improvviso scomparsa".
"Papà Donato - dissi - li sta aspettando. Devono passare per forza. 0 può darsi che siano passati da un'altra strada".
"Non è possibile - rispose la signora Rosa. - Per andare da papà Donato non possono passare che di qua".
A questo punto mi tirai tutto verso l'estremo limite della finestra e scorsi una confusa macchia nera in fondo alla strada. "St! - feci - vedo gente. Forse sono loro".
Era gente che veniva avanti a passi lenti.
"Dite che sono loro?" chiese la signora Rosa levandosi in piedi molto emozionata.
"Sì, sono proprio loro - esclamai io. - Tra poco saranno qui". la signora Rosa spalancò le imposte della finestra e disse: "Adesso che passano li vedremo".
Si mise diritta vicino alla finestra, felice di vedere finalmente passare i Fibbia. I Fibbia passarono impettiti e finsero di non vederci, nonostante che fossimo bene evidenti presso la finestra e quasi attaccati ad essa. Ma la signora Rosa non se ne offese: era contenta di vederli passare e ciò le bastava. Diceva sfregandosi le mani: "Eccoli che passano. Ora si recheranno da papà Donato e parleranno del consenso".
Dopo che i Fibbia furono passati, io mi ritirai di nuovo verso l'estremo limite della finestra ma nel senso opposto a quello della prima volta, e sbirciai nella strada.
"Si son fermati - dissi. - Non proseguono". la signora Rosa cessò di sfregarsi le mani ed esclamò allarmata: "Non proseguono? E perché non proseguono?" "Non lo so - risposi. - Ora tornano indietro". Qualche momento dopo, i Fibbia erano già all'altezza della finestra tornando indietro, e la signora Rosa li osservava delusa e mortificata, con la fronte schiacciata contro il vetro e con tutt'e due le mani sulla bocca. Poi mormorò: "Non ci sono dunque andati, e dovremo passare ancora una notte in quest'ansia". Rimase così, con la faccia contro il vetro e le mani sulla bocca, come una statua.
Io uscii e seguii i Fibbia con l'intenzione di raggiungerli e di fermarli per parlare. Affrettai il passo perché imbruniva e mi sarebbe stato più difficile poi tenerli d'occhio, anche se sapevo dov'erano diretti e conoscevo la strada. Ma volevo raggiungerli prima che entrassero a caso siccome non avevo dimenticato le difficoltà incontrate il giorno prima. Se poi il buio fosse venuto più fitto e la luce nella loro strada non fosse stato accesa, le difficoltà si sarebbero raddoppiate. Stimolato da queste preoccupazioni, cominciai quasi a correre. Ciò nonostante, la distanza tra me e i Fibbia, non diminuiva e il fenomeno mi riusciva inspiegabile. Pensai che fosse la luce incerta della sera a ingannarmi e che in realtà la distanza non fosse sempre la stessa; ma in tal caso, e tenuto conto dell'esiguo vantaggio che avevano i Fibbia su di me all'inizio, a quell'ora avrei dovuto già raggiungerli. Fermatomi un momento per riprendere fiato, m'accorsi che anche i Fibbia acceleravano il passo, così che tutti i miei sforzi per raggiungerli furono vani. Il significato di questo loro comportamento era già abbastanza chiaro, ma io volli insistere nel mio tentativo, sicuro di costringerli alla fine a darmi ascolto. Quando fui nella loro strada, non trovai più nessuno. Senza scoraggiarmi o lasciarmi prendere dall'incertezza dei giorno precedente, mi diressi verso la prima cosa sul lato sinistro che era la più vicina. Mi affacciai al cancello e vidi che le finestre erano aperte anche se in parte le nascondevano gli alberi davanti. Premetti il pulsante di un campanello elettrico e squillò un trillo acuto nell'interno, ma il cancello non si aprì. Premetti una seconda volta e a lungo, e fu come se tutta la casa si fosse messa a suonare.
Nemmeno allora il cancello si aprì, anzi si chiusero contemporaneamente tutte le finestre e perfino le imposte delle finestre. Il fatto non mancò di sorprendermi. Andai avanti, mi avvicinai al cancello della seconda casa e anche Il le finestre si chiusero ancora prima che avessi alzato la mano per suonare. Allora mi arresi, convinto che non mi avrebbero più aperto, e nell'andarmene scorsi, dietro uno di quei cancelli chiusi, Mario - il ragazzo della storia di Emilio - il quale, afferrato alle traverse di ferro, mi guardava e mi sorrideva. Non tornai indietro per paura di creargli nuovi fastidi, nonostante l'invito di quei sorriso che dimostrava tutto il suo piacere di rivedermi e il desiderio che mi fermassi almeno un momento. Ma, allontanandomi, gli agitai la mano in segno di saluto mentre lui si faceva triste.
In quei momento pensai a Nanetta. Forse mi attendeva anche lei dietro la porta, e s'immalinconiva non vedendomi tornare. Dovevo tornare a ogni costo da Nanetta, dovevo spiegarle quello che era accaduto, non potevo lasciare ch'ella mi ritenesse davvero colpevole. Corsi col cuore in tumulto verso casa suo e trovai la porta chiusa, ma prima ancora che mi fossi deciso a bussare, si aprì un'imposta e Nanetta apparve dietro il vetro, appena visibile per il buio. Ci guardammo per qualche istante attraverso il vetro, poi io, commosso per averla trovato lì che mi aspettava. aprii la porta, entrai senza far rumore e stetti silenzioso davanti a lei. La stanza era al buio, ma la luce che veniva dalla strada illuminava il suo volto mettendone in evidenza la tristezza dello sguardo. Dissi a bassa voce: "Ti avevo dato la parola e son venuto. Nonostante tutto, non ho potuto resistere al desiderio di vederti".
Ella mi gettò le braccia al collo e mi baciò, e mentre mi teneva così mi accorsi che piangeva. Mi disse che era stata dietro la porta ad attendermi sin da quando ero andato via e per tutto il tempo aveva pianto, ma io le misi la mano sulla bocca pregandola di tacere. Non so per quanto tempo restammo abbracciati, si era disciolto nel nostro animo ogni rancore ed era sparito dalla nostra mente perfino il ricordo di quanto era accaduto. Ciò che contava era che io ero tornato: lo sentivamo tutt'e due, mentre ci tenevamo stretti l'uno all'altra e avevamo l'uno e l'altra la prova più chiara del nostro amore, lei nel mio ritorno, io nella sua attesa. Se dalle sofferenze di quei giorni, i dispiaceri, le fatiche, le umiliazioni, avevo tratto un attimo, quell'attimo di felicità derivatami dalla constatazione di aver ritrovato Nanetta, che Nanetta era di nuovo mia, si oscuravano - di fronte a questa realtà - anche i timori, proiettati nel futuro, che fosse una realtà non duratura. Ora Nanetta era mia, la toccavo, la baciavo, la sentivo palpitare tra le mie braccia così che ogni parola tra noi era diventata superflua. Appena udimmo dei passi nella cucina, Nanetta fu la prima a distaccarsi e disse:
"E' papà. Vai, vai. Ti aspetto domani. Vieni presto".
Aprii immediatamente la porta e scappai via per non essere visto da papà Donato. Camminavo contento. Mi diressi di nuovo dalla signora Rosa. Ora sì potevo pensare a lei e dedicarmi, col cuore sgombro da ogni preoccupazione, alla sorte di Carla e di Emilio. Trovai la signora Rosa ancora davanti alla finestra a osservare la gente che passava. A un angolo, alle spalle di Carla e di Emilio, era stato acceso un abat-jour che illuminava debolmente la stanza. La signora Rosa, accorgendosi di me, si staccò dalla finestra e mi chiese ansiosa: "Allora?"
"Niente - risposi con aria desolata. - Non ho potuto parlare con nessuno dei Fibbia. Mi hanno chiuso in faccia perfino le finestre".
"Che vi dicevo? - esclamò lei mettendosi a girare intorno al tavolo con le mani intrecciate sotto il mento - Non passeranno più e ci lasceranno vivere con quest'angoscia".
"Ma tutto questo è assurdo! - scattò Carla levandosi improvvisamente in piedi e agitando le braccia una situazione assurda, ridicola, insopportabile".
Si rivolgeva, dicendo questo, soprattutto a Emilio che era rimasto sdraiato indifferente nella poltrona, senza nemmeno sollevare gli occhi. La signora Rosa disse: "Ti capisco, figlia mia, ma cosa vorresti fare? Lo sai che non è possibile diversamente. Tu vedi che proprio per voi, per regolarizzare presto la vostra posizione, mi sono indotta a fare una cosa che mi ripugna: accettare, anzi mendicare l'aiuto di quella gente con la quale non avrei voluto mai avere rapporti ... Quando si fanno le cose - aggiunse pungente - bisogna pensare a quello che si fa".
Carla dette dei segni d'insofferenza che tradivano la sua voglia di ribattere le osservazioni della signora Rosa, ma guardò me e si trattenne, e con la stessa repentinità con cui era insorta si riaccasciò nella poltrona. Da quel momento fu come se di nuovo non esistesse più. La signora Rosa m'indicò una sedia vicino alla finestra e tutt'e due tornammo a sederci e a guardare nella strada. Ella mi disse sottovoce, piegandosi verso di me: "Poveri figli! lo li capisco, sapete. Oh se li capisco! Ecco perché mi ero tanto rallegrata vedendo passare i Fibbia. Ma ora che in casa di papà Donato non ci sono andati, tutto ritorna in alto mare. E' terribile pensare che non ci andranno mai, per lasciarci in questo stato d'incertezza, o, peggio, che ci vadano, ma non per distogliere papà Donato dal suo proposito, ma al contrario per consigliarlo a persistervi. Questa è la mia angoscia, don Gegè ... "
Mentre la signora Rosa parlava, mi parve che a un tratto molte persone si fossero fermate davanti alla finestra e si fossero messe a litigare. Un momento ebbi la certezza che sarebbero giunte alle mani, e attesi tutto felice la zuffa. Il vetro deformava le loro immagini che a volte mi sembravano vicine da accavallarsi e sopraffarsi a vicenda e subito dopo si facevano lontane e piccolissime. Questo giuoco di linee umane visto attraverso il vetro della finestra cominciava a divertirmi quando avvenne qualcosa che mi scosse bruscamente e sentii la signora Rosa che diceva: "Ma che avete? Vi ho chiamato tre volte e non mi avete risposto".
Rimasi confuso e non seppi giustificarmi, ma lei non dette troppo peso all'incidente e riprese a parlare. Senonché io persi di nuovo il filo del suo discorso e m'interessai di nuovo all'apparizione della gente nella strada. Adesso mi sembrava che si fossero tutti ammucchiati vicino alla finestra e domandassero: "Che dice? Ma che dice?" lo volevo mandarli via, ma non avevo né la forza né la voglia di aprir la bocca o di sollevare la mano per chiudere le imposte. la loro vista m'infastidiva perché, essendo così vicini, mi costringevano a tenere gli occhi aperti per guardarli, e non sapevo perché fossi obbligato a guardarli. Forse avevo paura che si arrabbiassero se non li guardavo e si mettessero a dare pugni alla finestra, mentre non c'era niente che desiderassi di meno in quel momento che di udire battere coi pugni alla finestra. lo dissi alla signora Rosa: "Li vedete quelli lì?" e come la signora Rosa non rispondeva, soggiunsi: "Dicono "che dice"".
"Ma chi? - rispose lei irritata. - Chi è che dice "che dice?" ed ebbi la strana impressione che non fosse la voce della signora Rosa ma quella di Elena; mi voltai e m'accorsi che anche il volto era quello di Elena, me lo vedevo lì accanto, al posto della signora Rosa, e dietro di noi papà Donato che dormiva per terra sopra un mucchio di carte. Benché la cosa mi sorprendesse, sentivo tuttavia che non me ne importava nulla. Mi meravigliava soltanto che Elena non vedesse quelli lì che si erano ammassati vicino alla finestra.
"Ma non li vedete che stanno tutti lì?" dissi.
A la loro abitudine di stare lì - mi rispose lei. - Ma se non gli diamo retta, se ne andranno".
Quelli si guardavano tra loro, si scambiavano un cenno della testa e poi si voltavano a guardare me. lo non gli badavo, sperando che se ne andassero. Infatti, appena furono certi che rimaneva indifferente ai loro sguardi, andarono via.
"Ecco - disse Elena. - Sono andati via. Ma torneranno". "Perché ritorneranno?" chiesi.
"Perché è il loro mestiere di tornare" rispose Elena e io non capivo perché il loro mestiere fosse di tornare. Ma se dovevano tornare, a che cosa era servito non dargli retta? Il loro vocio tuttavia persisteva anche se i foro volti erano scomparsi. Non sono andati via, pensavo, si sono nascosti; ecco perché Elena ha detto che torneranno. E mi tenevo pronto per quando sarebbero tornati. Ero anch'io convinto che sarebbero tornati, altrimenti la loro voce sarebbe andata via con loro. "Eccoli esclamai udendo come uno sciame di calabroni. - Ritornano" e mi alzai per nascondermi dietro lo stipite della finestra. Ma Elena non rispose. Essi tornavano più presto di quanto non mi fossi aspettato, anzi mi sembrava che non sì fossero mai mossi di lì. Aprii poco poco la finestra, sporsi appena il capo in fuori e subito mi ritrassi spaventato. Dicevano ancora: "Che dice? Ma che dice?"
"Ma perché dicono sempre la stessa cosa?" chiesi infastidito a Elena, e mi accorsi che anche Elena era scomparsa. C'era solo papà Donato che continuava a dormire sopra un mucchio di carte, con la schiena appoggiata al buffè alto e stretto, mentre la lampadina oscillava e faceva balzare le nostre ombre sul muro ... Mi svegliai di colpo e mi trovai accanto la signora Rosa che guardava ancora nella strada vuota.
"Oh - dissi. - Ora devo andare. Sono proprio stanco" e mi levai. la signora Rosa chiamò, senza muoversi, la domestica e la pregò di accompagnarmi fino alla porta.

VIII
La mattina dopo, il mio primo pensiero fu di recarmi da Nanetta. Gli ostacoli frapposti al nostro amore erano ora di duplice natura e consistevano da una parte nelle illusioni già constatate e nella prevedibile gelosia di Elena e dall'altra nella tensione verificatasi ultimamente nei miei rapporti con papà Donato. lo avevo sperato che papà Donato sarebbe venuto, come aveva fatto il primo giorno, a casa mia per una spiegazione in merito allo smarrimento del biglietto; ma se la mia attesa era stata delusa, avevo in questo una prova dei suoi mutati sentimenti verso di me. Ciò mi costringeva a usare, recandomi a casa sua, molta accortezza per evitare spiacevoli sorprese. Non temevo tanto di essere messo alla porta - cosa impossibile anche a pensarsi - quanto di vedermi guardato con gli occhi sospettosi del giorno prima, che sarebbe stata un'accoglienza ancora peggiore. Per questo il mio desiderio era che papà Donato non fosse in casa. Ma se esisteva qualche probabilità in questo senso, non avrei potuto in ogni caso evitare la presenza di Elena. Come mi sarei dunque comportato con Elena? E soprattutto come mi sarei difeso dal pericolo della sua gelosia e del suo rancore? Dovevo attendermi infatti un'Elena molto vigile, che avrebbe dato un significato non solo ai miei gesti e alle mie parole ma anche ai miei silenzi, traendo da tutto la materia per i suoi sospetti. Capivo tuttavia che, se volevo Nanetta, non potevo sfuggire a questa prova che sarebbe stata certamente più dura persino di una eventuale opposizione di papà Donato, essendo le manie di un pazzo meno temibili dell'odio di una donna respinta.
Giunsi presso la porta di papà Donato con tutte queste preoccupazioni addosso, e invece la fortuna fu subito - almeno per allora - dalla mia parte, perché venne ad aprirmi Nanetta che mi abbracciò e mi disse: "Siamo soli. Papà è andato dai Fibbia q Elena è ancora a letto".
Era allegra, mi passò la mano intorno alla vita e soggiunse: "Andiamo in giardino. lì staremo più tranquilli".
"E se torna tuo padre?" le chiesi.
"Non ti preoccupare - rispose. - Prima di tutto papà non torna subito, e poi... -soggiunse sorridendo - Che temi? Che ti cacci via?"
Passammo in giardino, tenendoci stretti per la vita, e ci sedemmo all'ombra del glicine. lei disse:
"Quando potremo stare insieme senza preoccupazioni?"
"Quando lo vorrai tu - risposi. - Per parte mia può essere anche subito". Stette pensosa un momento, poi disse: "Ora bisogna dirlo a papà. Dobbiamo dirglielo che ci vogliamo bene. Vuoi?"
"Sì" risposi.
"Oggi stesso. Ora che verrà. Non credo che sia arrabbiato. Ad ogni modo è meglio che gli parli. Forse questo servirà a dissipare i sospetti".
Io avevo i miei dubbi a tal riguardo, ma non li manifestai per non turbare la sua felicità. Dei resto eravamo felici tutti e due di stare insieme, anche se io non mi nascondevo i pericoli che minacciavano questa nostra felicità. Intanto era una felicità incompleta anche quella di quel momento, turbata, almeno in me, dalla paura di un ritorno improvviso di papà Donato, né valeva la spensierata fiducia di Nanetta a dissipare questo senso d'insoddisfazione, perché Nanetta era, non tanto negli anni quanto nello spirito, una bambina e non discerneva ancora la realtà dai sogni. D'altra parte a me piaceva così, anzi era stato proprio questo lato del suo carattere che mi aveva conquistato. Essere così bambina e così innamorato era una coincidenza così felicemente realizzata in lei che io rinunciavo volentieri e senza rimpianto a ogni altra virtù. Mi pareva che nessun'altra combinazione sarebbe stata più propizia a quelle gradevoli sensazioni che l'amore fa presagire. Per conto mio, l'essere più grande di Nanetta non lo ritenevo un elemento di squilibrio nel godimento del nostro amore, siccome anch'io mi presentavo, nonostante l'età, con la freschezza del primo amore, e tutto quello che avrei potuto insegnare a lei sarebbe stato il frutto della nostra reciproca esperienza. E' vero che la mia verginità rischiava di provocare una fatale delusione in lei che, giovane com'era, doveva considerare una dote molto apprezzabile in un uomo - addirittura indispensabile in uno della mia età - l'avere una lunga pratica d'amore. Ma se la mia età mi era sotto certi aspetti sfavorevole, serviva ci darmi però - proprio essa - almeno questo vantaggio, di offrire a Nanetta un'immagine di me superiore a quello che realmente ero, e di creare in lei quella illusione che la mia scarsa esperienza amorosa non era in grado di darle. Da dove avrei cominciato? Mi rivolgevo questa domanda nell'atto stesso che la baciavo (ammettendo con ciò che il bacio era una esperienza superata) e la tenevo stretta a me con una mano, mentre con l'altra palpavo le ginocchia, incerto e timoroso di salire su. lei mi guardava con un sorriso leggermente ironico e sembrava che avesse intuito il mio pensiero. Il pericolo di un ritorno di papà Donato, agendo sopra di me come uno stimolo, mi rese più audace: mossi la mano e superai l'ostacolo della veste, fermandomi dopo ogni piccolo avanzamento, ma mentre pregustavo già la dolcezza dell'ultimo momento, venne un rumore di porta dalla stanza d'ingresso a metter fine bruscamente al mio tentativo.
A papà!" esclamò Nanetta levandosi in piedi tutta rossa.
"Ma ci sono anche i Fibbia" osservai io tendendo l'orecchio a un confuso vocio che si annunciava già nella cucina.
Un momento dopo, i Fibbia apparvero dietro la porta del giardino. lo e Nanetta eravamo ancora emozionati e ci sforzavamo di nasconderne i segni sul volto e in tutto il nostro comportamento. l Fibbia si affacciarono in giardino, si accorsero di me, volsero altrove lo sguardo e tornarono indietro. lo capii immediatamente il significato del loro gesto e, ripreso ormai il controllo del miei atti, entrai nella cucina deciso a chiarire una volta per tutte, e alla presenza stessa di papà Donato, perché essi ce l'avessero tanto con me.
"Buon giorno" dissi.
Essi mi risposero con freddezza e si avviarono contemporaneamente nella stanza d'ingresso con l'evidente intenzione di andare via. lo gli corsi dietro e, trattenendoli prima che fossero usciti, dissi rivolto a quello del tic:
"Se permettete, vorrei parlarvi".
Tutti si fermarono e stettero ad ascoltarmi.
"Papà Donato mi ha detto iniziai senza preamboli - che voi dubitate dello smarrimento del biglietto. vero questo?"
"Sì - rispose quello del tic. - E' vero".
"Una diffidenza gratuita naturalmente, senza una ragione" osservai trattenendomi a stento da qualche atto villano.
"No - ribatté lui calmo. - Il motivo esiste, ed è che abbiamo scoperto che non siete un uomo degno di fede".
Tremavo dallo sdegno. "Scoperto che?" chiesi fremendo.
Papà Donato e Nanetta seguivano allibiti la incredibile disputa.
Quello del tic lasciò passare qualche istante, forse per permettermi di calmarmi, poi disse: "Ier l'altro voi ci avete mentito in casa nostra stessa, quando ci avete detto che avevate visto Emilio dietro il mulino vecchio. Da quanto ci ha riferito papà Donato risulta invece che voi non sapevate nemmeno che Emilio era stato visto in paese".
Una simile contestazione era l'ultima cosa che io mi aspettassi. Mi sentii schiacciato dalla vergogna, soprattutto per la presenza di Nanetta: abbassai la testa e non risposi. Ma papà Donato non era del tutto convinto, ed evidentemente ignorava il fatto, perché si avvicinò a me e mi chiese:
"E' vero, Voi avete detto così?"
"Sì - risposi io senza avere il coraggio di alzare gli occhi su di lui. - l'ho detto".
Si allontanò senza dire altro, abbassò la testa pure lui, passò in mezzo ai Fibbia, aprì un uscio e scomparve. A loro volta i Fibbia aprirono la porta d'ingresso e uscirono in fila indiana. Rimanemmo di nuovo soli io e Nanetta. Poi Nanetta fece anche lei l'atto di scappare, ma io l'afferrai a un braccio e la trattenni. "No - dissi. - Tu devi restare qui, devi ascoltarmi".
"Lasciami!" esclamò lei irosamente liberando il braccio con uno strattone. Se la violenza del gesto poteva essere scontata, la dimostrazione di disprezzo mi demoralizzò a tal punto che persi ogni volontà di resisterle. Avere creduto mia Nanetta in virtù di una semplice prova d'affetto o di desiderio era stato forse un errore a cui non si poteva più riparare se non a costo di distruggere tutto ciò che avevo costruito sulla speranza di un avvenire riscaldato dal suo amore, o di accettare una situazione di fatto con tutti i rischi che avrebbe comportato una convivenza con una donna che potevo a ogni momento e per qualsiasi futile motivo trovarmi di fronte come nemica. Accasciato, dissi: "Va bene. Come vuoi ... Bisogna proprio dire che non ho fortuna. Sappi però che io non sono quello che tutti qui mi sospettate, anche se ho fatto la sciocchezza di dire una stupida bugia in circostanze che né tu né tuo padre conoscete. Non è da questo che si giudica un uomo, e in ogni caso sia ben chiaro che riguardo al biglietto non ho mentito: le due cose sono e devono restare separate. Sono sicuro che un giorno ti pentirai di avere rovinato tutto per un deprecabile malinteso".
Avevo la voce rauca nonostante i miei sforzi di non apparire commosso. Dovevo andare, non mi restava altro ormai, capivo che non mi restava altro e che sarebbe stata la fine. li dolore mi saliva al cervello. Prevedevo che sarei impazzito e avrei maledetto la viltà di quel momento che m'impediva di guardare in faccia Nanetta, facendomela perdere senza che avessi osato nulla per riconquistarla; ma c'era il ricordo crudele del suo disprezzo che mi umiliava e mi respingeva. Toccava a lei, solo a lei, cancellare quel ricordo o mostrarne almeno l'intenzione, con un gesto, con uno sguardo che me ne avesse dato l'indizio, e io sarei caduto ai suoi piedi e avrei implorato il suo perdono. Ma se mi lasciava così, era segno che il suo amore era stato tutto un inganno e ogni mio tentativo di riaccenderlo non avrebbe servito a nulla. Allora perché insistere nelle mie illusioni? Dovevo andare, non mi restava altro ormai. Raccolsi le mie deboli forze e mi avviai lentamente verso la porta. Nanetta non si mosse, non disse nemmeno una parola, ma nel momento in cui stringevo la maniglia della porta per aprire, mi corse dietro e mi afferrò la giacca trattenendomi: piangeva tra le mie braccia e mi chiedeva perdono, supplicandomi che non l'abbandonassi e serrandomi tanto che io non avevo nessuna possibilità di movimento. La esortai a star calma, a non piangere, a non far così. "Non ti abbandonerò - dissi - Non ti abbandonerò se tu hai fede in me. Mi credi? Dimmi, mi credi?"
Le presi le braccia e gliele strinsi forte guardandola intensamente negli occhi, perché volevo che la sua risposta fosse uguale a un giuramento, a un vincolo capace di tenerla legata a me in ogni prova. E quando lei rispose di sì, io non ne fui soddisfatto; la tirai ancora più vicino, fronte contro la fronte, e le dissi: "Sei pronta a mettere sin da questo momento questa tua fiducia a mia completa disposizione? Per sempre, per sempre capisci? Sei pronta a credermi così? Ciecamente! Senza discussione! Sei pronta a farlo?"
Le scuotevo le braccia e forse le facevo male, ma lei non se ne lamentava o non lo sentiva; tra i singhiozzi rispondeva convulsamente sì sì sì a ogni mia domanda, con la preghiera inespressa, ma viva nei suoi occhi, che cancellassi dalla mia memoria il ricordo della sua offesa, per sempre, per sempre, così come io avevo chiesto a lei, senza che nessuna traccia ne rimanesse a turbare il nostro amore. Allora l'abbracciai e la coprii di baci, confessandole tutto il dolore che mi aveva dato, ma di cui ero contento, perché esso mi procurava ora la gioia di vederlo lontano, e mi assicurava anche, col pegno della pace rifatta, che lei era più mia.
Non so a qual rischio ci esponevamo in quel momento, restando così abbracciati mentre il ritorno di papà Donato o la comparsa di Elena era un'eventualità tutt'altro che improbabile; è certo che un tale sospetto nemmeno ci sfiorò, o forse non ne tenemmo conto, tanto ormai eravamo sicuri di noi che ogni altra preoccupazione che non fosse per il nostro amore non ci riguardava. Quando finalmente riuscii a strapparmi alle sue braccia, dissi: "Aspettami questa sera. Tornerò" e uscii.
Me ne andai diritto a casa senza nemmeno passare dalla signora Rosa, mi chiusi in camera mia e mi distesi sul letto. Sentivo ancora il profumo di Nanetta, il calore della sua faccia e delle sue lagrime, e riflettevo al modo in cui avremmo continuato a vederci per l'avvenire. Fuggire: questa era l'idea che si affacciava adesso alla mia mente. Fuggire non come Carla e Emilio, ma da tutti, dai Fibbia in primo luogo, ma anche da papà Donato e da Elena. Avrebbe avuto Nanetta il coraggio di seguirmi per questa via? Trascorsi tutta la mattinata a meditare su questo interrogativo. Non mi accorsi del tempo se non quando udii il suono dell'orologio della piazza. Nel pomeriggio mi recai dalla signora Rosa per sapere come stava Carla e se erano ancora in ansia per i Fibbia, ma soprattutto se avevano ricevuto qualche notizia da papà Donato.
Trovai nell'ingresso una coperta distesa per terra che ostruiva il passaggio. la signora Rosa si precipitò a toglierla di mezzo e disse: "Oh don Gegè, dovete scusare. La mia caso è diventata un albergo".
M'introdusse nella sala da pranzo dove vidi Emilio in maniche di camicia che se ne stava sdraiato su un materasso per terra. La signora Rosa notò il mio stupore e soggiunse: "Certo voi vi domanderete dove siete entrato, ma questa, don Gegè, non è più una casa. Vedete come ci siamo ridotti. Stiamo liberando il salotto perché devono venire i Fibbia".
"I Fibbia qui?" feci io.
"Sì - rispose tranquillamente la signora Rosa. - Papà Donato ci ha fatto sapere che è disposto a dare il consenso, ma verrano i Fibbia per stabilire le condizioni. Anzi sarebbero già dovuti venire e vi confesso che sono in ansia".
Emilio intanto s'era messo a sedere sul materasso, sempre lì per terra, con la schiena appoggiata al muro, e fumava. Vicino all'armadio giacevano senza cura su una sedia una giacca e una cravatta. Ai piedi del materasso c'erano le scarpe di Emilio. La signora Rosa, vedendo che io facevo caso a tutto quel disordine, disse: "Quando abbiamo saputo che dovevano venire i Fibbia, abbiamo dovuto sistemare tutto diversamente, e così Carla passa nella camera di Emilio e Emilio, come vedete, s'è accampato qui. Meno male che la stagione è favorevole. lo poi non ho chiuso occhio tutto la notte, e questa è la seconda che passo così, e speriamo che vengano presto i Fibbia perchè si sistemino le cose".
Era veramente affaticata, aveva il volto segnato dalla mancanza di sonno e di riposo, e tutto il suo comportamento appariva come di una che abbia molto da fare.
Entrò la domestica con delle lenzuola sulle braccia.
"Dove vai con queste lenzuola?" le chiese la signora Rosa.
"Me l'ha ordinato la signorina" rispose la domestica, e la signora Rosa levò le braccia in alto sospirando e disse, rivolta a suo figlio: "Oro tutti ordinano qui dentro, e io che devo assistere a questa confusione! Credo che finirò con l'impazzire".
Emilio continuò a fumare senza scomporsi, come se sua madre non ce l'avesse con lui. La signora Rosa si mise le mani nei capelli ed esclamò: "Dio mio! Se arrivano i Fibbia in questo momento!" Cominciò a correre da un punto all'altra della casa chiamando continuamente la domestica e impartendo ordini. lo rimasi solo con Emilio, il cui silenzio annoiato e indifferente mi metteva a disagio. A un certo punto si udì uno stridore di ferri e un tonfo contro il muro. Accorsi nell'ingresso e vidi la domestica che, armeggiando per tirar fuori dal salotto una rete metallica per lettino, le sbatteva di qua e di la contro l'uscio. Arrivò di corsa la signora Rosa e trattenendo la domestica disse: "Aspetta qui. Ora vado io a parlare con la signorina".
Andata via la signora Rosa, la domestica che era rimasta con la rete in braccio in mezzo all'ingresso in attesa di ordini, si rivolse a me e disse sottovoce: "Il terremoto! E' successo un vero terremoto in questa casa".
Io sorrisi agitando la testa, e lei, incoraggiata dal mio sorriso, soggiunse indicandomi l'uscio della sala da pranzo da cui si scorgeva la giacca di Emilio gettata sulla sedia: "Vi dispiacerebbe di portarmi quella giacca, ché io non mi posso muovere?"
Sentii una ripugnanza istintiva a obbedirle, ma, colto così alla sprovvista, non seppi trovare il modo di esimermi e, benché riluttante, andai a prendere giacca e cravatta dalla sala da pranzo. Quando gliele portai, la domestica le prese con la mano che aveva libera e mi disse:
"Aiutatemi a rimetter giù questa rete".
Questa volta non fui disposto a obbedirle e non mossi un dito; ma lei, credendo che avessi già afferrato la rete, ritirò la sua mano dal capo che era rivolto verso di me, così che la rete, non sostenuta da nessuno di noi due, andò per terra e battendo contro il mio ginocchio mi strappò uno strillo. Accorse la signora Rosa e gridò rivolta alla domestica:
"Ma che succede? Via, riporta indietro questa roba e fai quello che ti ordino io".
Mentre la domestica si piegava per riprendere la rete, venne fuori Carla tutta sconvolta e urlò: "Me ne vado da questa casa, me ne vado".
Saltò la rete che le impediva il passo e andò da Emilio nella sala da pranzo. "Non è possibile continuare così - gli disse. - Parla. Sei tu che devi parlare. lo vedi quello che succede! Come puoi sopportare tutto questo?"
Emilio non fece un gesto, non disse una parola, la guardò annoiato come aveva guardato poco prima sua madre, poi si piegò lentamente su un lato e si ridistese sul materasso. Carla scoppiò a piangere e ritornò in camera sua, saltando per la seconda volta la rete per passare. La signora Rosa, grassa com'era, tentava invano la stessa operazione: nello sforzo inciampò, vacillò e mi venne a cadere tra le braccia. lo faticavo a sostenerla mentre lei gemeva, con la bocca schiacciata contro il mio petto; "Oh Dio mio! Oh Dio mio!"
In quel punto bussarono al portoncino. La domestica andò ad aprire. Comparvero i Fibbia. Questi si arrestarono scandalizzati sulla soglia, e io e la signora Rosa, presi in un grottesco abbraccio e curvi sulla rete così da formare un ponte, li guardavamo confusi e sgomenti, con la testa tutta girata di fianco. Quello del tic, allungando il collo nel vano della porta, in un violento battere della palpebra sinistra, chiese ai suoi compari:
"Ma ... sono proprio don Gegè e la signora Rosa quelli lì?"
Essi gli risposero di sì e immediatamente, a un suo cenno, fecero dietrofront dicendo che sarebbero tornati in un altro momento. Allora finalmente la signora Rosa riuscì a rimettersi diritta in piedi e se ne andò, avvilita, a piangere in silenzio nella sala da pranzo. Anch'io mi avviai verso la porta. "Ve ne andate?" mi chiese la domestica. "Sì - risposi. - Dite alla signora Rosa che ripasserò dopo". Mi allontanai senza una direzione. Camminavo non badando a ciò che incontravo per strada, pieno di vergogna, di rabbia e di disgusto. Avevo paura del ridicolo. Tra poco l'avrebbe saputo Nanetta, tutta la gente avrebbe parlato di don Gegè abbracciato con la signora Rosa e sarei divenuto la favola del paese. Ritornai da Nanetta. Avevo bisogno di rivedere Nanetta, di stare con lei, di dimenticare tutto tra le sue braccia. Sarei mai uscito fuori da una situazione così avvilente? La trovai, come al solito, dietro la porta ad aspettarmi. Appena sentì i miei passi, aprì e mi disse di entrare piano. Poi soggiunse sottovoce, indicandomi l'uscio socchiuso della cucina: "Papà e Elena sono di là, in giardino".
Mi vide accasciato, mi chiese: "Che hai?". lo finsi di essere preoccupato a causa di suo padre. "Tuo padre è arrabbiato con me?" dissi.
"Sì - rispose lei arrossendo. - Dice che tu eri d'intesa con Emilio e sei venuto qui per convincere Carla a fuggire".
"Naturalmente!" esclamai io ironico scaricando in quella esclamazione tutto il veleno che avevo in corpo. Ma mi accorsi di averla mortificata e soggiunsi: "Del resto, di quello che dice o pensa tuo padre non m'importa proprio niente. A me m'importa solo quello che pensi tu, e non credo che tu dài retta a queste sciocchezze".
Lei rispose: "No, te l'assicuro. Solo volevo dirti che non riesco a spiegarmi perché dicesti ai Fibbia quella bugia su Emilio. Non è per me, credimi: ma vedo che tutti, i Fibbia, papà e Elena hanno dato molta importanza al fatto, e io vorrei essere sicura che non c'è stato assolutamente nulla -di grave".
Parlava serena, con molta confidenza, non c'era più nessuna ombra di sospetto nella sua voce. lo le risposi, accarezzandola: "Nanetta, amore mio! Ti assicuro che non c'è stato nulla di grave. Cerca di capirmi. Quella bugia la dissi senza nessuno scopo, semplicemente perché i Fibbia mi avevano messo in soggezione e io, non sapendo come venirne fuori, me la lasciai sfuggire. Ma tu non devi attaccarti, come fanno loro, a una stupida parola. Che importanza ha che avessi o non avessi visto Emilio dietro il mulino vecchio, dal momento che non ho fatto nulla per aiutarlo a fuggire? Anzi, se ben rifletti, è proprio quella bugia che mi salva dai sospetto di complicità nella sua fuga, perché in caso contrario non sarei stato così ingenuo da andare a confermare ai Fibbia la presenza di Emilio dietro il mulino vecchio. Vedi ora com'è priva di senso l'ostinazione del Fibbia a trascurare i fatti per dare importanza solo a delle insignificanti parole?"
Lei accostò la bocca al mio orecchio e mi sussurrò: "Portami via. Sei capace di portarmi via di qui?"
Non ebbi il tempo di rispondere, perché uno stropiccio di piedi nella strada, come di molte persone che venissero a fermarsi vicino alla porta, mi fece trasalire.
"Chi può essere?" chiesi, e Nanetta spingendomi dietro un uscio disse: "Sono i Fibbia. Resta qui finché non ti dico io di uscire".
I Fibbia bussarono e lei corse ad aprire. Cercavano papà Donato. Nanetta li fece entrare e senza la minima esitazione e con tutta calma li accompagnò lei stessa da suo padre. Dopo qualche minuto tornò e mi disse:
"Si recano dalla signora Rosa. Vai via subito".
Ci baciammo in fretta, e io corsi dalla signora Rosa per avvertirla dell'arrivo del Fibbia. Era buio. Trovai la signora Rosa di pessimo umore, ancora sotto l'effetto dello smacco subito davanti ai Fibbia. Appena mi vide, disse desolata: "Ah siete voi! ... Chissà cosa hanno detto, nevvero?"
"Chi?" chiesi io.
"I Fibbia".
"Niente - risposi per metterla su di spirito. - Hanno capito tutto. Tanto è vero che stanno ritornando. A momenti saranno qui".
Fu una notizia che la sconvolse. Balzò, come resuscitata, dalla sedia ed esclamò: "Oh Dio, ritornano! E qui c'è ancora tanto disordine!"
Chiamò: "Dorotea, Dorotea! " che era il nome della domestica. E quando Dorotea venne, le chiese molto agitata:
"In salotto è tutto a posto?"
"Sì, signora" le disse la domestica.
A fiori sono al centro del tondino?" "Sì, signora".
"La tenda è abbassata?" "Sì, signora".
"Che altro c'è ... Ah i cuscini, i cuscini!" "Sono al loro posto, signora".
"Oh Dio mio! - fece la signora Rosa prendendosi la testa tra le mani - Non si è mai abbastanza tranquilli per queste cose". Si volse di nuovo alla domestica e disse:
"Bene. Allora avverti la signorina che si tenga pronta".
La domestica uscì e un momento dopo venne fuori Carla. Aveva una cera terribile. Non rispose al mio saluto, non mi guardò nemmeno. Disse parlando con la signora Rosa: "Vi prego di lasciarmi in pace. Non voglio essere disturbata per nessun motivo".
"Benedetta figlia! - esclamò la signora Rosa congiungendo le mani - Ma i Fibbia vengono per te, lo sai".
"Io me ne infischio del Fibbia e di tutti - replicò astiosa Carla. - Vedetevela voi ... e vostro figlio, se ne ha voglia".
Ciò detto, si ritirò di nuovo in camera sua e la signora Rosa rimase così, con le mani giunte e meditabonda. Poi disse scuotendosi: "E va bene. Vuoi dire che tratterò io. S'è visto ormai che tocca tutto a me".
"La signorina mi sembra di cattivo umore" osservai io.
"E' così da quando è arrivata - rispose lei. - Ma non si rende conto che si fa tutto per il suo bene. Crede forse che io mi ci diverta? Ma mi domando come si possa fare diversamente".
"Cosa pensate che verranno a dirvi i Fibbia?" le chiesi.
"Non lo so. Non riesco proprio a immaginarlo. Ma qualunque cosa mi diranno, quel che importa è che la posizione del due ragazzi venga regolarizzata sotto ogni punto di vista".
"E se vi ponessero delle condizioni inaccettabili?"
"Niente è più inaccettabile di una simile situazione, don Gegè". "E siete sicura che le accetteranno anche Carla e Emilio?"
"Conosco mio figlio - rispose la signora Rosa.- Non farà nulla che sia contro la mia volontà ... Quanto a Carla, ci si abituerà anche lei col tempo".
Io non volevo farmi trovare di nuovo lì dai Fibbia e aprii il portoncino per spiare se venivano. Li scorsi non lontano.
"Eccoli - dissi. - Vengono".
Al buio si vedeva confusamente un gruppo di persone che venivano verso di noi.
"Oh sì, sì, son loro - esclamò nervosa la signora Rosa. - Son proprio loro. Arrivederci a domani, don Gegè. Vi aspetto".
Riusciva sempre meno a mantenere la calma, a mano a mano che i Fibbia si avvicinavano. Mentre richiudeva il portoncino, chiamò di nuovo: "Dorotea, Dorotea".
Io mi avviai verso casa. Pensavo a Carla, e le mie considerazioni si riflettevano sinistramente sulla sorte mia e di Nanetta. A svantaggio di Carla bisognava mettere nel conto l'esistenza della signora Rosa - una circostanza che esulava dal nostro caso - questo era vero; ma esisteva pur sempre papà Donato. Nanetta mi aveva già manifestato il suo desiderio di fuggire, ma fino a che punto sarebbe stata disposta a farlo? Il dubbio che era affiorato in mezzo alle mie preoccupazioni quella stessa mattina, era ancora lì a tormentarmi e a offuscare tutti i miei progetti. Sentii qualcuno che mi veniva dietro e che si sforzava di raggiungermi. Sospettai che fossi pedinato da qualche Fibbia, e non mi voltavo per non dar loro l'impressione che mi ero accorto di lui e ne avessi paura. A questo scopo rallentai anche il passo ostentando calma e indifferenza. Non che avessi realmente paura del Fibbia, ma ero deciso a rompere ogni rapporto con loro e a tornare a vivere nei loro riguardi come prima, quando ignoravo perfino che esistessero. Che cosa poi potesse volere un Fibbia da me, non ero in grado d'immaginarlo. In ogni caso, se pedinamento c'era, questo non doveva essere estraneo al fatto che io persistessi nelle mie visite alla signora Rosa. Ma giunto vicino al portone di casa e voltatomi finalmente indietro, ebbi la sorpresa di vedere non un Fibbia ma papà Donato. Aveva l'affanno, e mettendosi una mano sul petto disse:
"Ho fatto una corsa per raggiungervi".
"E perché non mi avete chiamato?" chiesi io.
"Non volevo dare all'occhio" rispose e mi chiese se potevo concedergli cinque minuti. Io lo feci entrare confessandogli che mi aspettavo quella visita.
"Ve l'aspettavate?" esclamò lui stupito.
"Certo. Perché dopo le cose assurde che sono successe, una spiegazione tra noi era logica e desiderabile. Anzi non vi nascondo che vi attendevo già questa mattina".
Eravamo entrati in camera mia, ci sedemmo e lui disse scuotendo la testa: "No, don Gegè, vi sbagliate. Non è per questo che sono venuto".
Si passò la mano sotto il mento e soggiunse, mentre io lo guardavo incuriosito: "Poco fa in cosa mia voi eravate nella stanza d'ingresso con Nanetta: l'uscio della cucina era socchiuso e io vi ho visti...".
Io impallidii. Lui se ne accorse e disse: "Non è il caso di allarmarvi, don Gegè. Io sono un padre, capite, e certe cose le intuisco. Del resto era stato lo stesso comportamento di Nanetta che mi aveva messo in sospetto. Così l'ho tenuta d'occhio e ho scoperto la verità. Poi quando sono arrivati i Fibbia, sono ritornato subito in giardino. Ad ogni modo, come vi dicevo, non è il caso di allarmarvi, perché la cosa è tanto naturale che non mi ha affatto sorpreso, anzi l'avevo immaginato sin dal primo giorno che veniste a casa mia, altrimenti perché ci sareste venuto? La mia sorpresa è un'altra. In primo luogo il fatto che abbiate pensato proprio a Nanetta. Nanetta è una bambina rispetto a voi, priva di qualsiasi esperienza: io non capisco proprio come abbiate potuto innamorarvene. è per Elena invece che io avevo supposto che aveste delle intenzioni quando veniste a casa: il momento da voi scelto per venire e il modo stesso in cui veniste giustificavano abbondantemente la mia supposizione. Ma ora che vi siete messo invece con Nanetta, che cosa dirà la gente? In secondo luogo ... "
"Un momento - lo interruppi prima che proseguisse. - Io mi rifiuto di continuare un discorso così arbitrariamente impostato. Rimanendo sul piano di simili supposizioni, si dovrebbe infatti dire che anche le visite che ho fatte alla signora Rosa lascerebbero supporre ... "
"No - m'interruppe lui a sua volta. - Mi dispiace, don Gegè, ma il paragone non calza, perché la signora Rosa non ha figlie femmine. Semai le vostre visite alla signora Rosa confermano la mia tesi, perché voi dalla signora Rosa ci siete andato per la stessa ragione per cui siete venuto a casa mia, cioè per lo scandalo di Emilio. Ma che senso avrebbe il vostro interessamento allo scandalo - proprio il vostro - senza quelle intenzioni per Elena di cui ho parlato?"
La mia difficoltà stava appunto nello spiegare il senso di quel mio interessamento, e incapace com'ero di rispondere, mi limitavo a borbottare con molta rabbia dentro, facendo capire che questi erano ragionamenti da matti.
"Non credo" osservò papà Donato che, pur non sembrando, aveva tuttavia afferrato i poco lusinghieri apprezzamenti da me espressi a mezza voce e a denti stretti.
"Non credo - ripeté senza peraltro mostrare di essersela presa. - Dicono tutti così, ma poi non è vero. Anche i Fibbia infatti hanno pensato la stessa cosa che ho pensato io, e perciò vennero l'altro giorno a casa vostra".
"Niente affatto - protestai io alzando la voce. - Dal momento che avete voluto tirare in ballo i Fibbia, allora vi dirò che siete in errore. I Fibbia, venendo a casa mia, mi dichiararono apertamente che il loro scopo era di costringere Emilio a sposare Elena, il che significa - se bisogna dare un significato a queste parole - che essi non pensavano affatto a me".
Papà Donato sorrise bonariamente e disse: "AI contrario era proprio a voi che pensavano. Intanto i Fibbia raramente vanno in casa altrui; se lo fanno, vuoi dire che la cosa li interessa particolarmente. Se essi dunque vennero a casa vostra, ciò avvenne proprio perché sospettavano che voi aveste delle intenzioni per Elena, il che naturalmente avrebbe ostacolato il loro proposito di costringere Emilio a fare il suo dovere. Il loro scopo era cioè di sapere se avevano in voi un alleato o un rivale. Diversamente non si vede a qual fine essi avrebbero avuto bisogno di voi".
A questo punto io reagii come chi, privo di argomenti, manda le carte in aria. "E sia! - dissi - Se avete pensato così, vi siete sbagliati: vi siete sbagliato voi, si sono sbagliati i Fibbia, vi siete sbagliati tutti, perché io a casa vostra non sono venuto con nessuna intenzione. Va bene così? E voglio che questo sia ben chiaro".
Papà Donato sopportò con pazienza la mia manifestazione d'isterismo e aspettò che mi calmassi. Poi disse: "Ma allora, don Gegè, ditemi una cosa: perché siete venuto a casa mia?"
"Per niente - risposi. - Non sono venuto proprio per niente. Ciò non vuoi dire però che voglia esimermi dai miei doveri verso Nanetta, anzi considero questo l'unico argomento meritevole di essere discusso".
Egli mi guardò a bocca aperta, profondamente colpito dalla mia dichiarazione, ed esclamò, senza dare importanza alla parte della mia risposta che riguardava Nanetta: "Avete detto per niente! Voi dunque siete venuto a casa mia per niente?"
"Proprio così - confermai con la stesso franchezza di prima, anche se toccato dalla sua stupefatta espressione di dolore. - Vi sembrerà strano, ma quando io sono venuto a casa vostra, non volevo niente, proprio niente".
"E perché allora ci siete venuto? lo non so immaginare uno che va in casa di un altro per niente".
"Per vedervi, ecco. Son venuto per vedervi, ma senza nessuno scopo che valga la pena di rilevare. Volevo vedervi semplicemente per dire: ecco com'è quando in una famiglia capita una disgrazia. E purtroppo devo confessare che sono rimasto molto deluso".
Papà Donato che mi aveva ascoltato a testa china, rimase in quell'atteggiamento per parecchio tempo dopo che io ebbi finito, e non si decideva a parlare. Finalmente mormorò, sempre senza guardarmi: "E' stato uno sbaglio, e me ne sono accorto solo adesso".
Si alzò, si avviò da solo verso le scale, e continuando a mormorare: "E' stato tutto uno sbaglio" scomparve senza nemmeno salutare.

IX
Tutta la notte non chiusi occhio. Solo verso l'alba mi addormentai e mi svegliai a giorno inoltrato. Il primo ricordo che mi venne in mente fu il colloquio con papà Donato. Non mi soffermavo tanto sull'assurdità delle sue affermazioni, quanto sul fatto che il mio amore per Nanetta era stato scoperto, il che mi creava nuovi problemi e nuove preoccupazioni. Era un colloquio che richiedeva naturalmente di essere ripreso, siccome papà Donato era andato via prima che si fosse giunti a una conclusione o che si fosse presa una decisione. Ma più di tutto mi teneva nervoso il non sapere nulla di Nanetta, se era al corrente della nuova situazione che s'era venuta a creare o pensava ancora a me con l'attesa dei soliti incontri segreti pieni di illusioni. Mi vestii in fretta, non volli nemmeno prendere la colazione e scesi giù nella strada, intenzionato a recarmi in casa di papà Donato. Che dovessi recarmici non c'era dubbio; capivo che prima o poi l'avrei fatto. Tuttavia esitavo e stavo fermo nella strada, appoggiato al portone, col pretesto che l'ora non era la più adatta, in realtà perché avevo paura delle sorprese e cercavo di ritardarne il momento. Forse Nanetta m'aspettava dietro la porta c ome le altre volte, o forse, non ignara della verità, era disperata e si struggeva in pianto, sola nella sua camera. Il pensiero di Nanetta non mi dava pace. Risalii, mi richiusi in camera mia, ridiscesi, poi risalii e non ricordo quante volte feci e rifeci la stessa cosa. Affrontare ancora una volta l'imprevedibile papà Donato! Quale esito avrebbe avuto il nuovo colloquio? Perché era tutta qui la gravità del problema: che da questo colloquio sarebbe dipesa la sorte mia e di Nanetta. E io mi sentivo scoperto contro un simile pericolo. Finalmente mi decisi a muovermi, a staccarmi dal portone, a camminare. Questo fu il primo posso, e ora bisognava procedere così, passo dopo passo, abbandonandomi alle sensazioni del momento. Concentrai i miei sforzi nel cogliere tutte le sensazioni che mi offriva la strada, e riflettevo su questo mio curioso destino, di dovere andare e venire tutto il giorno da un posto all'altro, e mi chiedevo se ero davvero io colui che pensava e agiva così, o non fosse un altro diverso da me ma che possedesse tutti i miei ricordi. Mi riversavo negli altri, mi svuotavo di me al contatto della gente che incontravo per via, tra poco mi sarei svuotato al contatto di papà Donato. Girai mezzo paese, ritornando spesso senza accorgermene nelle stesse strade, agli stessi punti da cui ero partito un momento fa, mi ostinavo caparbiamente in questo giuoco vuoto, senza uscita, col desiderio sempre rinnovato e sempre respinto. di toccare la strada di papà Donato. Alla fine mi trovai davanti alla casa della signora Rosa: raccolsi i miei pensieri e gli detti una forma. Avrei bussato al portoncino, sarei entrato, avrei parlato con la signora Rosa, mi sarei informato dello stato d'animo di Carla e dell'esito del colloquio col Fibbia così com'eravamo rimasti d'intesa la sera prima, avrei a mia volta messo al corrente la signora Rosa del nuovi sviluppi della situazione, e poi mi sarei recato tranquillamente a discutere con papà Donato. Mi avvicinai al portoncino, bussai e attesi qualche minuto. Bussai una seconda volta e un pochettino più forte, finché il portoncino si aprì e venne fuori la domestica che, senza farmi entrare, mi riferì che la signora Rosa mi pregava di scusarla se non poteva ricevermi perchè era molto occupata.
"Ma eravamo d'accordo che sarei passato oggi per avere notizie sulla visita del Fibbia" osservai io contrariato.
"La signora Rosa m'incarica di riferirvi che i Fibbia ci sono stati due volte ieri sera e devono ritornare oggi" rispose la domestica.
"E quando potrei avere qualche notizia più precisa?"
"Non lo so. Anzi la signora Rosa dice che non lo sa nemmeno lei e vi prega di scusarla".
Detto questo, la domestica rientrò e, senza ulteriori spiegazioni, richiuse la porta piantandomi in mezzo alla strada. Era chiaro che la signora Rosa non intendeva ricevermi e non mi avrebbe riaperto se fossi tornato a bussare. Vidi una finestra con le imposte aperte e mi ricordai che doveva essere appunto la finestra della sala da pranzo. Era tanto alta che toccavo appena con la fronte l'orlo del davanzale. Allora mi portai al lato opposto della strada e mi sollevai sulle punte del piedi allungando il collo nella speranza che mi riuscisse di vedere qualcuno, o la signora Rosa stessa o Emilio o Carla. Ma in quello stesso momento le imposte furono chiuse e mi trovai di fronte la finestra come un'orbita senz'occhio. Questo delle finestre chiuse era un linguaggio di cui conoscevo bene il significato per averlo appreso due giorni prima dinanzi alle case dei Fibbia. la signora Rosa aveva avuto ancora due soli incontri col Fibbia e se ne vedevano già i primi risultati. Ero di nuovo solo e senza speranza. Non mi rimaneva che Nanetta. Se la diffidenza scendeva intorno a me come una cortina in cui sarei rimasto prigioniero, Nanetta mi dava l'unica possibilità di uscirne e di salvarmi. Mi pentii di avere sprecato tanta parte della giornata nell'indecisione e in un inconcludente girovagare, e mi recai risoluto a discutere con papà Donato. Mi apri lui stesso. Appena entrato, guardai intorno in cerca di Nonetta: non c'era. C'erano invece, inaspettati e indesiderati, i Fibbia. Erano seduti tutti intorno al tavolo, risposero al mio saluto ma per il resto m'ignorarono. Papà Donato invece si occupò subito di me, e ricollegandosi direttamente al nostro colloquio della sera precedente come se l'avessimo interrotto solo un momento fa, disse agitandomi l'indice della mano sinistra vicino al viso: "In secondo luogo, caro don Gegè - perché ieri sera non me l'avete fatto dire e vi aspettavo appunto per dirvelo - in secondo luogo voi avete agito come Emilio".
"Come Emilio?! - scattai io ripresomi appena dallo stupore che mi aveva colto a quell'improvvisa apostrofe - Che c'entra Emilio?"
"C'entra - rispose lui invitandomi con un gesto della mano a star calmo. Perché anche voi avete agito di nascosto, proprio come ha fatto lui".
Arrossii per essere stato ancora una volta colto in fallo. Ma ciò era vero solo in apparenza, siccome la mattina precedente avevo deciso, d'accordo con Nanetta, di esporgli la situazione come realmente era, se non fosse intervenuto a impedirmelo il malaugurato arrivo dei Fibbia. Mi avrebbe ora creduto papà Donato? Per parte mia provai a dirglielo, ed egli scuotendo scetticamente la testa e sogguardando i Fibbia, osservò:
"Devo crederci?"
I Fibbia non batterono ciglio, ma io rimasi così umiliato che non ebbi voglia nemmeno di protestare. Papà Donato mi capì e cercò di attenuare l'effetto della sua offesa. Disse: "Comunque non voglio discutere su questo. Voi piuttosto vi rendete conto che Elena, povera ragazza, si è illusa e a ragione ... "
"Perché a ragione?" chiesi io interrompendolo.
"Perché dopo una notte passata con voi..."
Mentre i Fibbia si guardavano interdetti, io mi affrettai a correggere lo sproposito di papà Donato precisando: "A conversare. Una notte passata a conversare, qui, in questa stessa stanza e alla vostra stessa presenza".
Quello dei tic sorrise ironico e mormorò:
"Volevamo ben dire! Non basta la signora Rosa!".
"La signora Rosa? - esclamò papà Donato - Che c'entra la signora Rosa?" Me l'aspettavo: prima o poi doveva succedere, e la bile mi salì agli occhi. Mi levai in piedi e dissi, con la mano puntata contro i Fibbia che mostravano ancora il loro risolino sulla bocca: "Dovreste avere riguardo non per me, egregi signori, ma almeno per la signora Rosa prima di fare certe vergognose insinuazioni".
Quello dei tic, pallido in faccia come tutti gli altri e vivamente punto dal mio rimprovero, rispose:
"Non è nostra consuetudine fare insinuazioni".
"Non è vero - ribattei io con fermezza. - Perché voi lo sapete che questa è una insinuazione, ed è indegna di persone oneste. Dei resto è proprio vostra l'abitudine di fare insinuazioni che o sono calunniose - come quella relativa allo smarrimento del biglietto - o quanto meno sono ridicole, come quella su Emilio che se ne sarebbe andato dietro il mulino vecchio a fare i suoi bisogni". Scattarono a loro volta in piedi, tutti insieme come un solo uomo, e mi sbattevano le mani in faccia per rispondere, ma io non glielo permisi e, tenendo testa a tutti, continuai imperterrito: "State calmi, vi prego. So quello che volete dire. Volete dire che ammisi io stesso l'attendibilità di quella sciocchezza quando riconobbi che il vostro ragazzo aveva ragione. Ma lo ammisi perché con voi non si ragiona, e anche perché mi dispiaceva del ragazzo. Però i fatti hanno ormai dimostrato quanto sia ridicola la vostra pretesa di conoscere o di capire tutto".
Cessarono di sbattermi le mani in faccia e si sedettero scornati, senza fiatare. lo, soddisfatto, tornai a papà Donato che era stato per tutto il tempo a guardarci come uno che non si raccapezza, e gli dissi: "Quanto a voi, è perfino superfluo farvi rilevare che certi spropositi vanno evitati almeno per riguardo a vostra figlia".
"Va bene - ribatté lui senza turbarsi. Ho sbagliato. Ma vi par niente confidarsi tutti i segreti a quel modo? Vi par niente? Questo una donna non lo fa se non quando ha riposto in un uomo tutta la sua fiducia e le sue speranze. E allorché io vi ho visto con Nanetta, ho capito subito il dolore che ne sarebbe venuto a Elena. Se al posto mio si fosse trovata lei ieri sera a vedervi, ci pensate? Se non vi siete accorto di nulla, bisogna dire che siete proprio cieco".
"Posso anche essermene accorto - risposi. - Ma questo non cambia nulla". "Grazie! - fece lui con un sorriso ironico - Si fa presto a dire: non cambia nulla. Ma io sono un padre, e certe cose non posso permetterle. Specie quando c'è di mezzo una figlia sfortunata".
La mia attenzione corse di nuovo ai Fibbia, i quali mi mettevano in sospetto, con certe foro espressioni stupefatte, che non fossero ancora informati degli avvenimenti, e chiesi a papà Donato: "Ma questi signori sanno o no di che stiamo parlando?"
Papà Donato, interrotto bruscamente nella foga del suo discorso, non capì a tutta prima a chi mi riferivo e mi guardò disorientato, poi si volse di scatto verso i Fibbia e battendosi la fronte con la palma della mano esclamò: "Oh avete ragione. Sono arrivati tanto da poco che non ne ho avuto il tempo di metterli al corrente".
"Be', allora - mi affrettai a spiegare io prima che lo facesse lui, benché i Fibbia non mi degnassero più di uno sguardo, per non dargli il vantaggio d'impostare il problema a modo suo - dovete sapere che io mi sono innamorato di Nanetta e papà Donato sostiene che ho fatto male perché avrei dovuto innamorarmi di Elena".
"Piano - osservò papà Donato accorgendosi del ridicolo in cui lo metteva una simile dichiarazione. - Voglio rilevare un'inesattezza. lo ho detto, o almeno intendevo dire, non che avrebbe dovuto innamorarsi di Elena, ma più semplicemente che avrebbe dovuto far cadere la sua scelta su di lei. Così il discorso cambia, non vi pare?"
I Fibbia si guardarono per consultarsi, ma prima che si fossero scambiati il solito cenno del capo che autorizzava la risposta collettiva, avvenne un fatto che ci sconvolse. Entrò Elena e sbattendo furiosamente l'uscio urlò: "Basta adesso! Basta con tutti! lo non permetto più, non lo permetto, capite? Non lo permetto a nessuno, a nessuno, a nessuno".
Aveva le labbra livide, e guardava ora me ora i Fibbia e ora suo padre. Accorse anche Nanetta, attirata dalle sue grida, e si fermò presso di me. lo sentii la sua mano vicino alla mia e le presi un dito. lei mi capi e mi si accostò ancora di più. Eravamo tutti ammutoliti. Papà Donato guardava i Fibbia che erano rimasti impassibili, poi mentre Elena mormorava: "Non ne posso più di questa vita, non ne posso più", disse:
"E' impazzita. Bisogna dire che è proprio impazzita".
E, fatto un cenno ai Fibbia perché uscissero, andò via insieme con loro, dimenticando di chiudere la porta.
Elena scoppiò a piangere e fuggì in un'altra stanza. lo e Nanetta ci guardammo allibiti.
"Dov'è andata?" le chiesi.
"In camera sua" rispose Nanetta. "E tuo padre?"
"Credo dalla signora Rosa. So che dovevano andare dalla signora Rosa". "Hai visto? - dissi - E' uscito dimenticando di chiudere la porta".
"L'ho notato" rispose lei con aria impaurita.
"Ma tu sapevi già" le chiesi.
Rispose che lo sapeva e che suo padre aveva detto che non stava bene che si sposasse prima di Elena, e lei aveva pianto tutto il giorno temendo che io non venissi più.
"Ricomincia la storia!" osservai io preoccupato, pensando alle idee fisse di papà Donato.
"E ora cosa intendi fare?" le chiesi subito dopo, baciandola. "Non lo so. Ho tanta paura" rispose.
Le proposi di venire via con me, subito, prima che tornasse suo padre. Ella riflettè un momento e disse: "Ma prima dobbiamo parlare con Elena. Devo spiegarle tutto almeno a lei. Non voglio che mi serbi rancore".
Aprì l'uscio per cui era uscita Elena e mi fece segno di seguirla.
Mi affacciai in una stanza oscura e completamente vuota, arrestandomi sulla soglia.
"E' la stanza dove è morta la mamma - mi sussurrò Nanetta intuendo la ragione della mia esitazione. - Papà ha voluto che rimanesse così".
Entrai, ella m'indicò un altro uscio a destra e disse: "Quella è la camera di Elena. Ma temo che non mi aprirò. Dici che mi aprirà?"
Mi prese la mano e si tenne di nuovo stretta a me.
"Proviamo a chiamarla - diss'io. - Vuoi che la chiami io?" "No -rispose. - la chiamo io".
Andò in punta di piedi verso l'uscio, vi accostò l'orecchio, stette un momento così e chiamò: "Elena!"
Elena non rispose. Lei si voltò con l'intenzione di dirmi: "Hai visto?" e tornò indietro scoraggiata.
"E' inutile - disse. - Non aprirò. E' in collera con me". Si teneva a me e tremava.
"Le vuoi molto bene?" le chiesi.
"E' stata per me come una mamma - mi rispose. - Ma ora mi odia, lo sento che mi odia" e si mise a piangere.
"Non aver paura - le dissi accarezzandola. - Vedrai che aprirà".
Questa volta provai io a chiamare Elena. Dissi: "Aprite, Elena. Nanetta vuoi parlarvi. Se le aprite, io me ne vado. Va bene così?"
Attesi invano una risposta. Veniva tanto silenzio da quella camera che
sembrava vuota.
"Ma tu sei sicura che sia qui?" chiesi a Nanetta.
"E' qui - rispose. - E' qui. S'è chiusa dentro e non vuol rispondere" e riprese a piangere.
Mi avvicinai a mia volta all'uscio e dissi: "Elena! Nanetta sta piangendo. Vuoi parlarvi. Deve spiegarvi tutto. Siate buona, aprite".
Di nuovo silenzio: un silenzio ostinato, invincibile.
Nanetta gridò: "Aprimi, Elena. Ti chiedo solo di aprirmi e poi farò quello che vorrai tu. Aprimi, aprimi, ti prego".
Picchiò irosamente con tutt'e due i pugni, e rimase con la fronte e con le mani attaccate all'uscio, a piangere disperatamente. la durezza di Elena finì con l'irritarmi. Gridai anch'io: "Siete ingiusta, Elena. lo ho avuto per voi molta comprensione, ma mi accorgo che non la meritatavate, perché Nanetta non ha nessuna colpa di quello ch'è successo."
"No - disse Nanetta tra i singhiozzi. - Lascia stare. So che non aprirò lo stesso".
E soggiunse, rivolta a Elena: "Se farò qualcosa, Elena, mi ci avrete costretta voi, capisci?... Tu sei stata sempre buona con me... Quando morì la povera mamma, mi dicesti, mentre io piangevo: "Ci sarò io per te, ci sarò sempre, sempre..."".
Non poté continuare per il pianto e io sperai che almeno adesso Elena avrebbe aperto. Ma anche questa volta l'attesa fu vana, e il ritorno di papà Donato si faceva sempre più imminente. Nanetta smise di piangere e si staccò dall'uscio, si asciugò gli occhi e disse: "Andiamo".
Ritornammo nella stanza d'ingresso e mi pregò di sedermi.
"Aspettami un minuto solo - disse. - Il tempo di prendere la mia roba".
Parlava e si muoveva con molta calma. Sembrava che ogni paura fosse ormai caduta e che lei fosse perfettamente convinta di ciò che faceva.
Uscì dalla porta della cucina e io restai lì ad attenderla. Ero inquieto, nervoso, temevo che arrivasse da un momento all'altro papà Donato. Mi affacciai sulla strada e guardai nell'uno e nell'altro senso. Non vidi nessuno e tornai a sedermi tranquillizzato. Se Nanetta si sbrigava, ce l'avremmo fatto. Spiai nella cucina, mi recai in giardino, chiamai a bassa voce: "Nanetta!" Nessuno rispose. Ma dov'era andata mai? E che bisogno c'era che prendesse la suo roba? Adesso riflettevo che era stata un'idea inutile quella di andare a prendere la roba, tanto quel poco che poteva portare con sé sarebbe stato superfluo: in casa mia avevo tutto, lei non avrebbe sentito la mancanza di nulla, e in quanto al corredo personale glielo avrei rifatto nuovo dal primo all'ultimo capo.
"Nanetta! - tornai a chiamare - Dove sei?"
Mi prendeva stizza e preoccupazione. Cosa avrei detto se all'improvviso fosse arrivato papà Donato? Era una situazione così assurda che non mi consentiva nemmeno di andare via. Ma ancora peggio sarebbe stato se mi fossi messo a girare per la casa spiando nelle stanze. Adesso avevo un'altra paura: che Elena si risolvesse a uscire finalmente dalla sua camera. Ciò che prima avevo desiderato e chiesto con insistenza, ora mi si presentava come una deprecabile eventualità, perché avrebbe messo in serio pericolo all'ultimo momento tutto il mio piano. E la colpa era di Nanetta che non tornava. Maledicevo il momento in cui l'avevo lasciata andare. Tornai nella stanza d'ingresso e allora finalmente la vidi.
"Oh - esclamai rinfrancato. - Sei qui? E io che ti cercavo in giardino".
Ma non aveva la sua roba, un pacco, una valigia, niente: non si era cambiata. nemmeno la veste. Ricomparve perfino coi capelli disordinati e con le tracce delle lagrime sugli occhi, e mi guardava senza parlare.
"Che fai? - le dissi - Non sei ancora pronta?"
"Ho cambiato idea" rispose.
"Non vieni più?"
"Sì, verrò - rispose lei. - Ma non adesso. Innanzi tutto farci vedere insieme per la strada a quest'ora non è prudente. E poi... voglio ancora provare a parlare con Elena".
"Questo significa che non verrai più" dissi deluso.
"Verrò, verrò - insistette lei. - Ma prima devo parlare con Elena". "E se torna tuo padre?"
"Verrò lo stesso".
"Quando?"
"Questa sera. Aspettami questa sera". la sua voce non tradiva alcuna intenzione d'ingannarmi. lo le credetti e dissi: "Ricordati che ti aspetto".
Lei mi rispose sì, sì, e mi sorrise.
Per tutto il resto della giornata mi chiesi se sarebbe venuta. Mentre le ore passavano lente, una dopo l'altra, speravo e non speravo nella sua promessa. Poi mi ritornò la fiducia, chiamai la governante e le ordinai di trasportare un altro letto in camera mia, e come lei faceva due occhi così e non si muoveva, le dissi: "Presto, fai come ti dico, e a tavola prepara per due".
Volevo che tutto fosse pronto per quando arrivava Nanetta.
"Mi raccomando - soggiunsi. - Lenzuola nuove. le più nuove che ci sono. E pulito. Voglio che tutto sia pulito. E una vestaglia... Dimenticavo la vestaglia".
Mi accorsi che aveva difficoltà a raccapezzarsi. Allora dissi: "Sì, stasera mi sposo. E' giusto che mi sposi, no?"
Rimase con una coperta sospesa nella mano sollevata in aria. "Vi sposate? - esclamò - E con chi?"
"Con la figlia di papà Donato".
"Con quella che è stata piantato dallo sposo?" disse lei scandalizzata. "No, con l'altra".
"O Dio!" fece chiudendosi la bocca con le mani e dando un passo indietro. lo capii il suo errore e aggiunsi sorridendo: "Non con quella ch'è fuggita. Con l'altra ancora".
Benché tranquillizzata, la governante mormorò: "Be', se vi siete regolato così ... che vi devo dire?"
Non m'interessava cosa intendesse dire. Forse secondo lei sbagliavo, e non era escluso che avesse ragione, ma io desideravo Nanetta e il mio timore era solo che potesse non venire. Risorgevano i dubbi, ritornava l'ombra del Fibbia, di papà Donato e di Elena, sì, anche di Elena che si era chiusa ostilmente nella sua camera. Se Nanetta sperava di convincerla a non portarle rancore, s'illudeva, perché il rancore di Elena era umano, naturale, anche se ingiusto, e non c'erano parole che valessero a distruggerlo. A mano a mano che passava il tempo, ridiventavo nervoso e perdevo sempre più la mia fiducia. Quando furono accese le luci nella strada, mi sedetti vicino alla finestra e guardai giù. Forse Nanetta avrebbe portato con sé una valigetta con la poca roba che aveva preparata, siccome io mi ero dimenticato di dirle che non aveva bisogno di portare nulla. Ma forse con una valigetta in mano, mi sarebbe stato più facile distinguerla nei buio della strada. Dovevo stare attento alla luce delle lampadine, a ciascuno di quei cerchi bianchi che si stampavano sopra la strada. Attesi per più di un'ora di vedere una valigia e una veste bianca comparire e scomparire rapidamente sotto ciascuna di quelle luci. Finalmente invece di una veste bianca scorsi otto ombre. Comparivano e scomparivano anche esse sotto le luci, ma venivano avanti impettite e compassate, solo una arrancava con la testa all'ingiù come gli asini. Quando riudii il picchio giù al portone, cominciò il dubbio più angoscioso della mia vita. Dovevo aprire? Ormai Nanetta non sarebbe più venuta, e per averla avrei dovuto ricominciare tutto daccapo. Dovevo aprire? Guardavo le luci della strada e sognavo di vedere sotto di esse una veste bianca con una valigetta accanto. Invocavo Nanetta, Nanetta, che non era venuta, e piangevo come un bambino. Al posto di Nanetta c'erano giù al portone i Fibbia con papà Donato, e picchiavano forte perché gli aprissi, mentre io non avevo nessuna risorsa di decisioni, sembrandomi ogni decisione ugualmente sbagliata.
La governante mi gridò:
"Sono quei signori dell'altro giorno. Devo aprire?" lo non risposi. Aspettavo che il picchio diventasse più forte, che mi stordisse, perché non udissi, perché non pensassi. Sprofondato nella poltrona, guardavo il soffitto, inerte, senza volontà. Poi all'improvviso il picchio cessò, non si udì più, e sembrò che la casa si fosse svuotata. Tornò il silenzio intorno a me. Per un momento mi si fermò il cuore.
Quando la governante mi annunciò: "Ho detto che il padrone non può ricevere e sono andati via", ebbi la certezza che tutto era finito.
Uscii, mi avviai verso la casa di Nanetta, volevo sapere perché non era venuta. Dovevo convincerla a fuggire, a venire subito via con me prima che fosse troppo tardi. Bussai, attesi, bussai di nuovo e di nuovo attesi, bussai più forte, avrei rotto i vetri continuando così. Ma non mi fu aperto. Tornai indietro affranto, disperato. Mi misi a girare per il paese senza una meta. Non ricordo se c'era gente a vedermi, i ricordi di quella notte sono confusi e brancico con la memoria in mezzo a essi. Mi fermai in qualche posto per riposarmi? Dormii? Forse delirai. Avevo certamente la febbre. l'umidità della notte mi si afferrò alla testa come una tenaglia, mi sentivo addosso gli abiti bagnati. Ricordo che mi trovai nella strada del Fibbia. Guardavo quelle finestre chiuse. Che strana attrazione provavo in quei momento! C'era in esse come il fascino di un serpente. Se suonavo, mi sarebbe stato aperto. Questa volta sì, ero sicuro che mi sarebbe stato aperto, perché i Fibbia si aspettavano quella mia venuta. Non importava che era notte. Bastava che suonassi, e tutto si sarebbe appianato. Presto, molto presto. Così come era stato appianato il caso di Carla e di Emilio. Non erano venuti essi stessi i Fibbia a casa mia? Se gli avessi aperto, e non mi fossi indurito nell'ostinazione del mio orgoglio ... no, della mia paura? Paura di che, poi? La paura del Fibbia non era in fondo che un'opinione, creata dalla gente o anche da me stesso. Ma esisteva davvero questa paura? Esisteva una ragione di essa? La stessa signora Rosa del resto l'aveva superata ... Elvira, la mamma di Nanetta, era morta di quella paura. Ma Elvira non era mai esistita per me, non era che un'ombra, forse come quella paura. E poi Elvira era una pazza. Non me l'aveva detto quello del tic che era una pazza? E io non avevo nessuna prova per smentire il suo giudizio, anzi tutto ciò che avevo appreso su Elvira concorreva a confermarlo. Perché dunque non dovevo credergli? Egli forse mi stava osservando, non veduto, dietro qualche finestra, o anche dietro un cancello. Ma mi stava aspettando. Mi stava certamente aspettando. Un altro passo più avanti, una premuto al bottone del campanello elettrico, un trillo, non costava niente, e tac! come per opera d'un mago Nanetta sarebbe stata mia. Quella strada non era più come mi era apparsa la prima sera: m'invitava adesso, nonostante il buio. Forse era il ricordo di Mario, del suo sorriso triste dietro le sbarre del cancello. Ecco che ritrovavo del ricordi cari anche in quella strada. Anche se me ne andavo, anche se non suonavo, una parte di me sarebbe rimasta sempre in essa.
La luna non sarebbe sorto quella notte. Guardavo il cielo nero e piovigginoso: una pioggia lenta, sottile, che filtrava nella carne come punte di spilli.
Io solo nella strada. Il paese addormentato. Il silenzio della notte. Il riverbero delle luci contro la pioggia.
Ora la pioggia era diventata l'unica realtà viva, incombente sopra di me, ancor più dei Fibbia o della loro paura.
Avvertivo delle improvvise mancanze. Tornai indietro, ma non avevo la forza di sottrarmi all'ossessione di quella pioggia. Cercavo se c'era almeno una porta aperto, una casa illuminata, un indizio di sicurezza. Tutto buio e silenzio. Rividi il portoncino lucido della signora Rosa. Grondava di pioggia come i miei vestiti. Ormai non c'era più distinzione tra me e le cose che mi circondavano. Eravamo tutti sotto la stessa pioggia. La pioggia era dappertutto, dappertutto, in ogni strada. La strada in cui essa mi attirava era una sola, diritta, lunga a non finire, chiusa tra due file di cose tutte uguali, l'una dopo l'altra, e tutte quazzanti nell'acqua. La ripercorsi da cima a fondo, mi fermai davanti a una porta, intirizzito nella giacca fradicia, al riparo di un muro. Ora tutta la pioggia era lì, concentrata lì soltanto per me. Pensavo a quello che la gente diceva sul mio conto. Non m'importava nulla nemmeno di loro. Guardavo solo quella porta, sempre più fisso, come un allucinato. Se Nanetta stava dietro di essa, se aveva sentito i miei passi, avrebbe scostato un'imposta e, vedendomi di dietro al vetro, avrebbe avuto pietà del mio stato e mi avrebbe aperto; mi avrebbe fatto entrare e, abbracciatomi, mi avrebbe chiesto: perché non ero venuto prima? lei era stata sempre dietro la porto, attenta al suono del miei passi, e aveva pianto, oh sapessi quanto aveva pianto! le lagrime erano ancora lì sulle sue guance, ma si erano fatte di ghiaccio. Era sola, in casa non c'era nessuno, perché non ero venuto prima? Saremmo stati tranquilli, noi due soli, sotto il glicine... sotto il nostro glicine ... solo il glicine e noi... ma la notte era fredda... era tanto fredda... freddo ... fredda...
Stetti dieci giorni a letto con la febbre, durante i quali caddero le mie ultime speranze di riallacciare contatti diretti con Nanetta. Non mi fu più possibile avere nemmeno sue notizie, e anche quando guarii e mi mostrai, ancora malfermo sulle gambe, di nuovo in paese, trovai inesorabilmente chiuse sia la porta di casa suo che quella della signora Rosa. Non mi riusciva nemmeno di vedere papà Donato e sembrava che fossero tutti spariti. Ormai nessuno poteva smentire la verità che ero di nuovo solo, e che non avrei mai più riveduto Nanetta. Soffrii ancora per diversi giorni, poi il tempo mi portò la rassegnazione, al raggiungimento della quale non fu di certo estranea la malattia da cui ero appena uscito e che aveva notevolmente indebolito le mie forze.
Ora vivo di nuovo nella mia solitudine, tirandomi avanti questi giorni grigi, tutti uguali, pieni di malinconia, senza che il desiderio di Nanetta mi abbandoni mai. Spesso ripenso alla sua scomparsa, senza un avvertimento, senza una notizia, e allora ritorno a chiedermi: avrei dovuto aprire ai Fibbia?


Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000