LA CIVILTA' CHE ASPIRA ALL'ETERNO




Tonino Caputo, Gianfranco Langatta



Nell'anno degli Etruschi c'è posto per gli Egizi. E di più: a dispetto delle tante mode egizie diffuse in Occidente in secoli e in età diverse, fin dai Greci e dai Romani, fino all'esplosione settecentesca e a Napoleone, questa cultura resta tra le più "astrali" e risente - ma dovremmo dire "soffre" - ancora della parallela, eccessiva valutazione del mondo greco-romano. Eppure, anche per i meno inclini alle avventure del gusto e tuttavia curiosi di conoscere quali siano le epoche che abbiano veramente costruito ed emblematizzato con la loro presenza il pensiero occidentale, la ricognizione dell'arte egizia è un momento d'obbligo. Non ha detto Aldo Calò che "la piramide è la scultura più perfetta"? E che, più che all'arte grecoromana, un pò tutti noi dobbiamo molto all'arte egizia? Che ha opere perenni e remote, pezzi carichi di mistero e di razionalità, di ripetizione e di novità, di geometria e di fantasia, di bellezza aperta o enigmatica: contraddizioni, magari, ma sempre nel segno di un grande equilibrio, come possono esserlo i frutti di una civiltà solare e notturna che ha lasciato quasi esclusivamente capolavori e monumenti per la morte. Che è come dire la continuazione della vita, con le medesime necessità, con i medesimi riti, e con quel l'aspirazione all'eterno testimoniata dalle scene maestose e affabili scolpite a rilievo nelle tombe della Valle del Re.
Dalla certezza di questa rigenerazione nasce, probabilmente, quella serenità enigmatica, talvolta dolce, talvolta ieratica, quella grande serenità che avvolge gli uomini e gli Dei fino a condurli alle soglie di una realtà immobile e indecifrabile, che è la protagonista più vera dell'arte del Nilo. Non a caso Eliopoli è la città favorita fin dai giorni più lontani, e Abido, il più superbo dei templi, è fin dalla preistoria luogo sacro dei morti.
Preistoria, nella quale l'abilità manuale è già elevatissima. Dall'età arcaica, recipienti dalle forme evocanti geometrismi e seduzioni sottili: come un vaso del periodo gerzeano (3200 a.C), dove sinuose imbarcazioni e animali stilizzati raccontano sulla terracotta ciò che la scrittura, non ancora inventata, non può trasmettere. E un coltello in selce dalle venature variegate (appartenente a un Visir della Prima Dinastia, verso il 3000 a.C.) si confronta con un vaso lucido e screziato in roccia porfiritica. E su tutti prevale , di questa epoca, il capolavoro dell'alabastro (anche le pietre dure significavano un anelito all'eternità), che si piega e si intreccia per simulare corde e nodi su una superficie altrimenti estremamente liscia e pura.
Una civiltà che all'eterno aspira anche attraverso il senso del potere terreno e il culto della personalità dei Farcione, come si direbbe ai nostri giorni. Non a caso chi conosce bene l'Egitto sa quante volte ci si imbatta in rilievi, o statue nelle quali l'immagine del Faraone defunto è stata cancellata a colpi di martello dal successore, per incenerire anche il ricordo.
Ma è dalla fissità del bronzo che emerge, prima opera dell'Antico Regno (dal 2686 al 2181 a. C.), il favoloso Imhotep che Faraone non fu, ma diventò Visir e poi "divino" per la sua intelligenza e per la sua capacità: fu architetto e protettore delle arti e della medicina, e costruì la piramide a gradoni di Sakkara, simbolo dell'ascesa al cielo del faraone Zoser. Ma passano i millenni, e lmhotep gira per il mondo nelle minuscole proporzioni della statua, con gli occhi argentei che non guardano il papiro, ma l'infinito lontano e sfuggente: anche lo scriba, l'intellettuale per eccellenza, dal suo granito bigio scruta il futuro e l'eterno.
Maestoso, ieratico, dalle trasparenze ombrate, è il faraone Chefren (2558-2532 a. C.), costruttore della seconda piramide di Giza; è fermato in un alabastro inconsueto. "Un tipico esempio dei canoni dell'arte egizia", ha scritto il professar Saleh, che dirige il Museo del Cairo, "forte ma non esageratamente robusto, con una giusta tensione fisica e nervosa leggibile nelle braccia e nelle gambe dalle vene sottilmente infilate. Barba da cerimonia, copricapo maestoso, coda di cobra tra le gambe". Un equilibrio, insomma, delle forze fisiche e morali, a simbolo della stabilità del suo impero, Chefren trattiene un fazzoletto, le cui pieghe si intravedono sulla gamba sottostante, per uno di quel mirabili giochi di trasparenza e di "realismo" che si ripetono, in forme diverse, nelle stupende danzatrici disegnate nelle tombe della Valle dei Re.
Quanto al Medio Regno (dal 2133 al 1786 a. C.), un rilievo e una stele sono le testimonianze più immediate di quella vita quotidiana così efficacemente raccontata sulle pareti delle tombe, anche più modeste, di Deir ElBahri, il villaggio degli artisti e degli artigiani. Nel rilievo si assiste alla cottura di polli e di pesci, mentre nella stele i pani, secondo il canone che vuole ogni cosa resa in tutta la sua realtà e interezza, sono esposti in piedi sopra una tavola, là dove i fichi, bevande varie e una coscia di vitello, sono messi a disposizione del prestigioso defunto che, con discrezione, si limita ad allungare una mano soltanto.
Non a caso, gli artigiani. Perchè dove il genio artigianale rifulge splendidamente è nei gioielli: famosi quelli risalenti al Medio Regno, il periodo aperto dai Principi di Tebe, della XI Dinastia, che riunificarono il Paese dopo varie fasi di disordini. E al Nuovo Regno (dalla XVII alla XX Dinastia, cioè dal 1570 al 1070 a. C.), appartiene la "gondola egizia": è in argento, con dieci rematori, e, a guardarla, tornano alla mente i versi che Shakespeare dedicò al ricordo del primo incontro tra Antonio e Cleopatra: "Il barca dov'era lei come un trono splendente sfavillava sulle acque... i remi d'argento cadenti sopra un suono di flauti: e le onde così battute, si buttavano sotto come vogliose di quei colpi". Ma questa gondola non servì per un incontro d'amore: è il simbolo del trasporto funebre dei Faraoni sulle acque del Nilo.
L'Età Tarda, compreso il periodo Saitico (dal 1070 fino all'arrivo di Alessandro Magno, nel 332 a. C.), ha minor interesse, anche se il soffio nuovo delle dominazioni straniere apporta elementi diversi all'apparente immobilità dell'arte egizia. Monili più vistosi e massicci, sculture e statuette di Dei più minuziosamente elaborate e troppo adorne, come la dea Isis che allatta il figlio Horus, o come l'Ibis e la lontra di bronzo, lontani da quelle superbe raffigurazioni rarefatte, geometriche fino alla metafisica, che si possono ammirare ad Abido.
E ci si avvicina, così, al clima che si respira al tempio di Dandara, là dove speciale attenzione è attribuita a Cleopatra e al periodo grecoromano. Tutto si ispessisce, tutto diventa più rozzo, da un nano di forme sgraziate, a un bracciale d'oro nel quale le due sfingi non hanno volti di uomini (come vuole la tradizione), ma di femmine, a tutto tondo. Una curiosità: le prime perle pendenti in un paio di orecchini risalgono al III o al II secolo a. C.
Togliete la suggestione e avrete perduto buona parte dell'incanto della "peregrinazione": il problema non è di salire sulla fantascientifica "macchina del tempo", ma di identificare quell'eterno presente nascosto sia sotto sembianze di epoche remote sia in fantasie e in progetti riguardanti il futuro meno prossimo: l'eterno presente dei Cantos di Ezra Pound, dove l'assedio di Troia è contemporaneo della seconda guerra mondiale. Un itinerario del nostro tipo, dunque, è molto di più di un puro dato o progetto culturale: è un breve, ma in fondo interminabile, percorso lungo il filo del destino umano, alla ricerca delle più lontane spiegazioni di un senso e di una certezza. "E ricordo te - Egitto - perfettissimo rappresentatore di uomini", ha scritto Savinio. "Gli Egiziani, infatti, furono potenti nel fermare la corrente immagine dell'uomo - e non guardarono che il profilo in nero pieno. -Trovarono il punto per stampare l'uomo con la sua faccia, come un marchio, in ogni ricordo. E strigliarono la fisionomia. E resero palese il tipo, come le vene sul dorso della foglia; e non caddero nella melmosa pienezza dell'insieme. Noi sappiamo quanto dobbiamo all'arte micenea e greca. E a quella illirica. Ma ancora non abbiamo coscienza di quanto dobbiamo a quest'altra arte dirimpettaia, l'egizia, che Calò trovava "perfetta nel togliere elementi per rappresentare l'essenziale".

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