3.
La Puglia come universo folklorico
Se dobbiamo continuare questo excursus lungo i sentieri ricchissimi
della produzione storico-tradizionale in Puglia, mi sembra opportuno
fare riferimento a qualche contributo recente, che esce dal localismo
e dal particolarismo - pur così rilevanti ai fini dell'approfondimento
delle realtà storiche - e affronta la Puglia come un universo
folklorico sul quale é possibile avanzare analisi e sintesi che
individuano referenti comuni nell'infinita varietà delle situazioni.
Sotto questo profilo mi sembra singolarmente vivace e intelligente un
volumetto di Laura Faranda (Le tradizioni popolari in Puglia, Casa editrice
Anthropos, Roma, 1983, pp. 127, l. 8000). un volumetto che forse non
ha avuto molta fortuna e che, tuttavia, per la serietà dell'impianto
scientifico, diviene esemplare di metodologie sintetiche che consentono
anche al lettore comune, al non addetto ai lavori, l'aggressione della
realtà culturale pan-pugliese, offrendo, al termine, una buona
guida bibliografica. La struttura dell'opera, che consiglio a chiunque
intenda affrontare una "prima lettura" sull'universo Puglia,
segue lo schema classico, poiché passa dall'analisi della cultura
materiale al ciclo della vita umana, al folklore della natura, alla
poetica e narrativa popolare, ai rituali e culti magico-religiosi. Le
fonti utilizzate sono sempre ineccepibili e sicure, così che
le informazioni si riscattano da consuete nubilosità e sono affidate
a rigore critico.
Qui non é possibile tentare una sintesi dei materiali ricchissimi,
e vorrei soffermarmi soltanto su uno fra gli aspetti meno noti che vengono
dallo studio degli usi funebri nelle culture meridionali. Faranda riprende
(a pag. 42) un uso pugliese ricordato da S. La Sorsa, senza precisi
riferimenti a località e ad epoca: nella veglia funebre notturno,
una fanciulla eseguiva i cosiddetti "vezzi", girando, di stanza
in stanza, con un laccio fra le mani o con una sciarpa o con un fazzoletto
di seta, e lo legava al collo di qualcuno dei presenti, sorridendogli
o cantarellando, fino ad ottenerne una moneta. Passava, poi, fra tutti
i presenti ripetendo la medesima azione cerimoniale-ludica, e provocava,
in un clima di improvvisa distensione, anche qualche parola scherzosa.
Si tratta di un parallelo pugliese di un comportamento ben noto ad Ernesto
De Martino, che si rifaceva ad un esempio rumeno in Morte e pianto rituale.
Ma altri esempi appaiono nell'area abruzzese, per la quale Nobilio (Vita
tradizionale dei contadini di Penne, Firenze, Bibl. di Lares, 1972),
cita il caso di una donna di Penne (prov. di Pescara), la quale normalmente
interveniva nelle veglie funebri per narrare storie quasi oscene. Ed
è, questo comportamento, connesso ad antichissime costumanze
documentate nella tradizione mediterranea ed in altre tradizioni, quella
giapponese e quella egizia: il ricorso all'esibizione della vulva nei
momenti di intensa crisi cosmica o sociale (v. Di Nola, Antropologia
religiosa, Firenze, Vallecchi 1974, pp. 15 ss.). Quando il gruppo parentale
é immerso nel delirio di morte e di abbandono, quanto tutto l'universo
sembra farsi vano per l'emergenza improvvisa del dissolversi e, con
il rituale di lutto e di pianto, "quasi si intende morire"
o ci si adegua alla condizione di chi é morto, le culture, anche
quella pugliese, creano occasioni di recupero della vitalità
offesa e repressa. La fanciulla che fa i "vezzi" richiama
all'ordine messo in crisi dallo spettro di morte e alla vita che, al
di là di ogni consunzione, deve continuare. La quale funzione
salvifica degli impianti culturali é, altrove, diversamente espressa:
per esempio subito dopo il decesso, in alcuni nostri paesi, si impasta
il pane, e a Canzano, presso Sulmona, si distribuisce il pane a quanti
hanno partecipato alle esequie. Gli elementi simbolici del vivere, il
sesso e il pane, si oppongono, nel gioco rituale, all'angoscia della
dissoluzione.
Per continuare nella segnalazione di campionature che non toccano specifiche
subregioni pugliesi, ma l'intera area regionale, va subito qui ricordato
un bel volume di Fiabe pugliesi (scelte da G.B. Bronzini, e tradotte
da G. Cassieri, Milano, Mondadori ed., Oscar narrativa, 1983, pp. 182,
L. 5000). Il precedente della breve raccolta, cui si fa riferimento,
é rappresentato da tre volumi di Fiabe e novelle del popolo pugliese
pubblicati da S. La Sorsa (1927, 1928, 1941): dalla silloge di La Sorsa
deriva la maggior parte dei testi qui tradotti. La novità della
pubblicazione sta nel fatto che i materiali di La Sorsa, non curati
filologicamente e affidati ad una sistemazione acritica, vengono sollevati
alla dignità di un discorso ineccepibile attraverso la chiara
introduzione di Bronzini, che delinea i problemi fondamentali sottostanti
alla origine, diffusione e tipologia delle forme di cultura orale tradizionale,
ampiamente documentate per il Salento, molto meno per la Capitanata.
L'intervento di Giuseppe Cassieri come traduttore é, poi, un
rivivere, con l'esperienza di un grande scrittore, dal seno delle intimità
storiche queste affabulazioni, ricollocandole in un linguaggio che nulla
tradisce dei vigori dialettali e ogni specificità ricolloca in
uno sforzo di resa linguistica autentica, casi che viene conservata
l'ascrizione alle aree di origine dei narrati, "la scarsa incidenza
simbolica e il periodare monodico, ossessivo, dell'uomo dei Tavoliere;
le concrezioni fonetiche delle Murge e dei paesi carsici di confine;
il fraseggio brioso del barocchetto martinese o, sebbene più
raro, il friabile arzigogolo salentino".
La documentazione iconografica di matrice religiosa é degnamente
rappresentata, per l'intera Puglia, dallo splendido volume Puglia ex
voto che, pubblicato da Congedo di Galatina nel 1977, resta una delle
tappe fondamentali delle ricerche che in ogni regione d'Italia si vanno
compiendo su questo particolare settore della religiosità popolare.
Il volume, con le sue numerose foto a colori e in bianco e nero, si
origina da una mostra nella quale operarono la Biblioteca De Gemmis
di Bari e l'istituto di Storia delle Tradizioni Popolari della stessa
città. La puntuale scrittura di Emanuela Angiuli, direttrice
della Biblioteca De Gemmis, riesce ad introdurci negli orizzonti di
miseria e di disperazione della terra pugliese, che si celano nei colori
primitivi e nelle immagini ingenue delle tabulae pictae. In essi passa
tutta quella storia delle subalternità che, opposta all'immagine
di una felicità folklorica inventata dall'egemonia, é
il "costruire un trullo, zappare, seminare, tessere, impastare
la creta, non saper leggere né scrivere, tagliare i vermi, partire
per l'America, partorire venti figli, esser morsi dalla tarantola, fare
ex voto". Né meno incidente é l'intervento di Ettore
De Marco sulla sociologia dell'ex voto. Le aree subregionali sono ben
documentate con 8 riproduzioni a colori per la Capitanata, con 36 riproduzioni
per la Terra di Bari e con 3 riproduzioni per la Terra d'Otranto, mentre
56 riproduzioni in bianco e nero ampliano il precedente palinsesto a
colori. Nella sezione del libro curato dall'istituto di Storia delle
Tradizioni Popolari appaiono importanti studi di A.M. Tripputi, sugli
ex-voto dipinti, di E. Spera, sugli ex voto fotografici ed oggettuali,
e di G.B. Bronzini sul più ampio e complesso tema della fenomenologia
dell'ex voto.
4. La rivisitazione
dei luoghi demartiniani
la Puglia (e, parallelamente, la Lucania) é stata una delle
sedi fortunate della ricerca storico-tradizionale e storico-religiosa,
poiché certamente i] saggio di E. De Martino sul tarantismo
dell'area di Galatina, nel Salento, (La Terra del rimorso, apparsa
presso Il Saggiatore di Milano nell'agosto del 1961, in un'edizione,
oggi introvabile, corredata di un disco di rilievi sul campo) costituisce
una delle tappe fondamentali della metodologia demologica in Italia.
Allora De Martino avanzò quella serie di ipotesi metodologiche,
nelle quali lo spessore descrittivo veniva a fondersi con le più
varie stratificazioni di lettura (economico-marxistica, psichiatrica,
psicoanalitica, storica, simbolica ecc.), che avrebbero trovato il
loro dispiegamento più convincente nella grande opera sull'Apocalisse
mai portato a termine e pubblicata nella serie dei frammenti poco
convincenti (La fine del mondo, Torino, Einaudi, 1980).
Una delle linee di ricerca più interessanti, per quanto può
riguardare la terra salentina, é costituita dal tentativo di
ripercorrere gli itinerari di indagine seguiti da De Martino per stabilire
quanto del tarantismo, che egli vide in fasi salienti, érestato:
che, nella mia impressione, non é pura dilettazione erudita
e diviene, invece, un confronto fra il Salento degli Anni Cinquanta
e quello attuale. E subito ci si accorge che, se il segnale "tarantismo"
é così decisamente declinato nella Cappella di San Paolo
a Galatina, sono contemporaneamente declinate e decadute quelle condizioni
di grande frustrazione storicoeconomica che nell'episodio di Galatina
trovavano il loro complicato esito coreutico, cromatico e rituale.
In questo campo, é forse opportuno ricordare che oggi siamo
in possesso di un testo che De Martino non conobbe e che integra il
palinsesto storicodocumentario del quale egli si servì. Nel
1979 é stato pubblicato in traduzione italiana il Viaggio in
Italia del filosofo inglese e vescovo anglicano George Berkeley (Napoli,
Bibliopolis, trad. di M. Fimiani e di Th. E. Jessop): ed é
un libro che contiene pagine importanti per la storia del tarantismo.
Berkeley, sceso in Italia due volte, fra il 1713-1714 e il 1716-1720,
ha visto personalmente e più volte il conturbante cerimoniale
dei tarantati, non soltanto in Puglia, e ricostruisce, nelle sue memorie,
le cadenze precise del rito. Descrive la danza che, nell'ipotesi demartiniana,
diviene una finzione cerimoniale di liberazione da crisi storiche
e dai rischi del non-essere nel mondo, anche con riferimenti alle
funzioni cromatica e coreutica. A Barletta, Berkeley incontra, il
20 maggio del 1716, il vicario dei Teatini, dal quale apprende che
il tarantismo viene curato a mezzo di nove balli fatti in tre giorni:
"Il padre non crede che sia una finzione... Ogni paziente ha
delle preferenze per il colore degli addobbi". Il dramma salvifico
si scioglie nelle gestualità coreutiche del cerimoniale: il
tarantato si muove, danzando, verso uno specchio, e combatte, con
una spada, contro il male. anche registrato l'improvviso apparire
di una trance: una ragazza osservata da Berkeley "aveva l'aria
assente e uno sguardo immobile e malinconico (22 maggio 1717)".
Berkeley sa anche che il morso della taranta può essere soltanto
immaginario, una proiezione occasionale di sofferenze storiche magicamente
risolta: "Tracce del morso dell'insetto non ce ne sono da nessuna
parte, né si sa quando e come sia stata morsicata" (mi
piace ricordare che ho segnalato per la prima volta questa importante
testimonianza in un elzeviro de Il Corriere della Sera, del 14 marzo
1980).
Ma questa terra salentina, nella quale arcaiche trame mitiche di matrice
greca e grecula (l'"assillo" e il morso che perseguita,
nel quadro tragico, coloro che hanno violato l'ordine) si embricano
in esperienze terapeutiche ed esistenziali medioevali (il culto di
San Paolo), diviene la terra elettiva nella quale molti, dopo De Martino,
hanno consumato il loro proprio pellegrinaggio antropologico, alla
ricerca delle densità esistenziali sottostanti al rituale di
Galatina. Solo per segnalare alcune ricerche, é da ricordare
quelle "Lettere da una tarantata", che Annabella Rossi raccoglieva
e pubblicava nel 1970 (Bari, De Donato); sono le testimonianze di
una contadina pugliese che nascono da una corrispondenza con Rossi
dal 1959 al 1965, e veramente qui il "morso" immaginario,
nella scrittura elementare e ingenua, si fa la grande aggressione
storica della miseria e della sofferenza. Nel 1973 Diego Carpitella
indicava, all'interno del sistema terapeutico del tarantismo, le componenti
erotico-sessuali ricordate, del resto, in molti canti popolari salentini,
nei quali il santo aggredisce le gonadi dei maschi (L'esorcismo coreutico
musicale del tarantismo, in "Musica e tradizione orale",
1973, Palermo, Flaccovio), e, infine, nel 1977, Miriam Castiglione,
una vivida intelligenza troppo presto sottratta al suo progetto antropologico,
connetteva ancora una volta, in una attenta rivisitazione dei luoghi,
il tarantismo salentino al caos delle turbe psichiche e ne faceva
quasi il luogo privilegiato di una terapia precapitalistica, cui tuttora
ricorrono donne pugliesi.
Ritorniamo ad un grande impegno storico-filologico, che rifiuta i
bamboleggiamenti nel facile sociologismo e parte dalla consapevolezza
che anche la rivisitazione del tarantismo va compiuta attraverso le
metodologie storiche, con alcuni scritti di Brizio Montinaro. Già
nel 1974 Montinaro, questo attento osservatore di cose salentine,
aveva visitato Galatina nel giorno di San Paolo, scoprendovi poco
più di una dozzina di tarantati fra i quali tre maschi; e aveva
definito in un'attenta tabella statistica le variazioni di frequenza
fra il suo rilievo e l'epoca di De Martino (i casi di tarantismo fra
le due epoche si erano dimezzati, scendendo da 37 a 16; e, tuttavia,
costituivano ancora uno statuto rituale di notevole ampiezza). Montinaro,
in questa sua prima inchiesta, aveva avvertito che la cultura di masso
avanzava, in forme devastanti, scomponendo sempre più la cultura
cosiddetta subalterna, cui il tarantismo per definizione appartiene
(la relazione di questi rilievi sul campo é in Salento povero,
Ravenna, Longo editore, 1976, pp. 68-75). Su questa stessa rivista
(anno VI, numero 3-4, settembre-dicembre 1980, pp. 108 ss.) Montinaro
tornava sull'argomento riproponendo all'attenzione degli studiosi
due brani pubblicati da Piero Camporesi nel Libro dei vagabondi (Torino,
Einaudi, 1973): un primo brano dello Speculum cerretanorum di Teseo
Pini, relativo ai cosiddetti "attarantati" dell'agro tarantino,
che appartenevano alla straordinaria fauna di mistificatori circolanti
nel XVI e XVII secolo, portati in giro nelle fiere come prodigi e
mostri; un secondo brano di Raffaele Frianoro, traduzione del primo,
nel quale questi strani personaggi "vibrano e sbattono la testa,
tremano con le ginocchia, spesso al suono cantano e ballano, stridono
co' i denti e fanno azioni da matti".
Ma Montinaro si libera dalla ricerca erudita in uno studio di ampio
respiro, che propone i segreti collegamenti fra il tarantismo salentino
e la ricca tradizione paolina di Molta e di altre regioni europee
(si tratta dei tre interventi su "Tradizioni paoline" già
apparsi su questa Rivista nei fascicoli n. 3 dell'anno Vili (settembre
1982), n. 4 dell'anno IX (dicembre 1983) e n. 1 dell'anno X (marzo
1984). Già in De Martino era stata accennata la parentela fra
diversi livelli terapeutico-sacrali del culto di San Paolo: la funzione
salvifica delle acque dedicate al Santo, la protezione contro le morsicature
di serpente e di vipera (e, quindi, di taranta), la qualità
terapeutica delle cosiddette "terre sigillate", che hanno
avuto il loro più notevole esempio nella tradizione di Malta.
Si sa che la devozione antiofidica relativa alla figura di San Paolo
ha il suo fondamento in un celebre passo degli Atti degli Apostoli
(28:2-15), nel quale é narrato come l'Apostolo restò
immune dal veleno di una vipera che lo aveva morsicato quando, sceso
sull'isola, era intento ad accendere alcuni sarmenti per riscaldare
sé e i suoi compagni. Da questa narrazione nasce una tradizione
melitense, che, poi, si estende alla Puglia salentina e alla Sicilia
e che si enuclea intorno ad una vasta tematica: quella del dominio
sulla vipera, sulle acque e i rimedi miracolosi, sulle immunità
territoriali dai serpenti velenosi, sulla stirpe dei cosiddetti sanpaolari
o ciaralli, sulle proprietà curative della terra di Malta e
di altre terre, sulle glossopietre e su altri rimedi. Montinaro ha
ripercorso questi itinerari tradizionali attraverso una sua inchiesta
diretta su Malta, attraverso riletture attentissime di testi antichi
e avvalendosi, infine, di una metodologia antropologico-storica che
appartiene al territorio delle più attuali esperienze di ricerca.
5. Storie di
paesi
Motivi folklorici e storico-tradizionali appaiono inseriti nelle numerose
storie locali, riguardanti piccole aree della Puglia o paesi e cittadine,
e ormai appartenenti ad una produzione pubblicistica di difficile
controllo: gli interventi delle varie istituzioni pubbliche, definiti
nell'ambito di una nuova politica culturale, hanno sollecitato un'ampia
serie di contributi locali, spesso mediocri, alcune volte interessanti.
Subito, fra i contributi di più denso significato, viene alla
mente il volume di atti di un seminario di studi bitontino del dicembre
1978 - maggio 1979 (Cultura e società a Bitonto nel sec. XVII,
Centro Ricerche di Storia e Arte Bitontina, volume collettivo curato
da V. Garofalo, Bitonto, 1980, pagg. 383). Naturalmente tutti i contributi
di quest'opera contengono preziose informazioni sulla storia del costume
e della tradizione, condotta spesso secondo gli spessori di indagine
della "storia della mentalità". Ma é particolarmente
interessante, proprio ai fini di una ricostruzione diacronica del
costume bitontino, la serie di tre processi inquisitoriali che sono
stati studiati da Vincenzo Valente (Momenti di lingua e di costume
nella vita di Bitonto, pagg. 205 ss.): si tratta di tre brogliacci
o incartamenti inediti conservati nell'archivio della Curia Vescovile
di Bitonto, e dalle sintesi documentate e analitiche che ne fa Valente
é possibile riscoprire, a distanza di secoli, la complessità
etnicoculturale del mondo bitontino attraversato, fra la metà
del XVI secolo e i primi anni del secolo XVIII, da fermenti e da curiosità
religiose. Due dei processi toccano casi di apostasia, uno con passaggio
all'Islam dei "Turchi" (1706), l'altro con passaggio all'ebraismo
(1660-1662), nel quadro delle ricche osmosi culturali che accompagnarono
la cronaca bitontina fino alla fine del secolo XVIII. Mentre la conversione
all'Islam fu fatto non infrequente nella storia pugliese, più
rara é la conversione al giudaismo, condensata in queste pagine
processuali esemplari, nella scia probabile, ma non documentata, di
una lunga tradizione giudaico-pugliese, ben nota fra le prime d'Italia,
con i suoi grandi centri cultuali dal Salento alla Capitanata e con
la suo poesia in dialetto giudeo-pugliese. Ma é strano che
questo giudaismo risorga qui a Bitonto, nel secolo XVII, quando sappiamo
che le grandi comunità ebbero fine nel 1492, con l'editto di
Isabella di Castiglia. Il processo é istituito contro due membri
della potente famiglia Barone Vargas, detenuti in prigionia in Roma,
nel carcere del S. Uffizio. L'interesse maggiore delle carte sta nel
l'individuare, attraverso le varie testimonianze, il modo in cui questi
due apostati vissero il loro giudaismo. I due osservano, per esempio,
il sabato: Al detto Diego il sabbato non apriva le porte, né
le fenestre, ma faceva oratione al sole sopra l'astrico e poi diceva
certe parole ad un buco del muro", dice uno dei testimoni. Nelle
deposizioni tutti gli elementi del cerimoniale giudaico vengono malcompresi
e travisati, quasi fossero indice di comportamenti superstiziosi:
così per la celebrazione della Pasqua, così per l'osservanza
della purità alimentare (kasherut), casi per la macellazione
rituale per iugulazione.
Aderente all'esigenza attuale della corretta registrazione della storia
folklorico-religiosa di un centro è il bel libro Trinitapoli
sacra. Appunti per una storia socio religiosa del Sud di Pietro Di
Biase (Milano, Grafiche Jodice, 1981, pagg.207). Qui l'autore, interessato
alle metodologie delle più vivaci correnti di antropologia
storica, traccia una cronaca attuale della situazione religioso -popolare
del suo paese, che diviene molto interessante come campionatura attenta
di una più generale situazione delle terre pugliesi, quella
del transito dai vetusti modelli della società contadinopastorale
arcaica ai sincretismi culturali dell'epoca industriale e post-industriale.
Esemplari sono, nel capitolo "Mondo contadino e religiosità
popolare tra passato e presente", le categorie classificatorie
adottate per l'esposizione: i problemi generali di lettura del dato,
la religiosità quotidiana, le feste e i pellegrinaggi, la Settimana
Santa a Trinitapoli. Veramente, emerge dal documento una società
pugliese dominata dall'affanno del sacro, calata nell'etichetta cerimoniale
delle congregazioni, affidata alle potenti protezioni dei suoi Santi,
in particolare della Madonna di Loreto. E' qui tutto l'universo meridionale
delle antiche disperazioni radicate nella carestia, nella morte, nella
malattia, nella siccità, e sono disperazioni cui i sistemi
mitologici e rituali facevano argine, riconducendo l'invivibile a
vivibilità e lenendo la sofferenza presente nella fiduciosa
proiezione n el futuro. Di Biase, mi sembra, ritiene, e giustamente,
che questi meccanismi di protezione e difesa non siano del tutto spariti
e che persistano vivacemente all'interno della nostra società,
anche se trasferiti su malesseri attuali, che non sono più
il remoto terrore contadino per la siccità, ma le incertezze
del sistema, le oscillazioni dei salari, l'emigrazione. Così
che chi, secondo modalità diverse da quelle antiche, compie
da Trinitapoli il suo pellegrinaggio al Gargano o all'incoronata di
Foggia, sigilla nuovi dolori nel suo cuore di carne. Particolarmente
interessante, poi, è questo uso trinitapolese dei "marrecoun",
una specie di cantata di insulto del Sabato Santo, la quale si dispiegava
contro personaggi e istituzioni potenti e dominanti, in una fase nella
quale il popolo, genericamente inteso, era liberato (ed è liberato)
dalla comune normativa dei rapporti di classe e delle etichette e
può impunemente insultare. La manifestazione è già
importante in sé e, come tale, appartiene a quei comportamenti
di libertà controllata che appaiono in occasione di festività
(per esempio, a Capodanno in alcuni paesi della Campania) o in occasione
degli insulti di incanata che possono essere esercitati dai mietitori,
dai vendemmiatori e dai raccoglitori di olive contro i passanti e
i padroni. Ma il fatto singolare è che questa ritualità
contadina, a Trinitapoli, è trasferita al periodo pasquale,
mentre altrove (meno nei casi di incanata) coincide con la fine dell'anno
e si configura come un cerimoniale di distruzione-inaugurazione del
tempo, anche documentato dalla distruzione di beni caduti in disuso
(oggetti, pentole, vasi ecc.). Resta, al di là delle interessanti
pagine di Di Biase, un problema: come mai a Trinitapoli - e non so
se nel territorio pugliese sono state registrate analogie - la ritualità
connessa alla distruzione-inaugurazione del tempo appaia trasferita
a Pasqua, che viene così assunta, almeno in senso funzionale,
come un Capodanno.
A questo ordine di approfondimenti areali va ascritto l'importante
volume di Vita Orlando (Feste, devozioni e religiosità, Ricerca
socio-religiosa in alcuni Santuari del Salento, Galatina, Congedo,
1981, pagg. 277), che, in un impianto di interessi pastorali fondato
su rigoroso metodo sociologico, investe l'analisi minuta di tre Santuari
della Diocesi di Ugento: San Donato di Montesano, San Rocca di Torrepaduli
e Santa Maria di Leuca.
Subito il lettore laico, come chi scrive, deve compiacersi di campionature
di ricerca come questa, che attestano i radicali mutamenti metodologici
della pastorale cattolica. Adeguandosi agli insegnamenti conciliari,
essa, nella precisa scrittura di Orlando, supera lo iato che esisteva,
profondo e incolmabile, fra posizione interpretativa laica e posizione
ecclesiastica. Veramente, in queste pagine circola una sottile sensibilità
per il dato folklorico pugliese, che non è più relegato
nel limbo emarginante delle "superstitiones paganorum",
ma e riconsiderato nelle sue pregnanze e significanze di contestualità
storica (si guardi, principalmente, la seconda parte dell'opera).
Per una costruzione della religiosità contadina, Orlando ci
documenta, per esempio, su rituali arcaici come quello della "seduta"
nel culto di San Rocca a Torrepaduli: chi aveva ricevuto una grazia
compiva il sacrificio della seduta, che consisteva nello stare una
giornata davanti alla statua, non andando, a volte, neppure a mangiare
o mangiando nella stessa chiesa. Né mi sembra scientificamente
secondaria la relazione di Orlando sulle folle dolenti di fedeli,
straniati e attraversati dall'epilessia, che accedono, talvolta avanzando
all'indietro o carponi, nella chiesa di San Donato. Sono il quadro
di simbolismi nascosti nella vicenda pugliese, che dicono al lettore
attento molte più cose di quanto non sia possibile recepire
dai tabulati e dagli schemi statistici, cui pure Orlando é
propenso, per la sua stessa professione di sociologo.
6. Il problema
del visionarismo e della profezia
Recenti ricerche ripropongono la tematica del visionarismo e della
profezia popolare in Puglia: guaritori, annunziatori di prossime apocalissi,
veggenti ottengono, a quanto sembra, un facile consenso in molte campagne
pugliesi e il fenomeno, nella polivalenza dei suoi significati, ha
interessato molti studiosi (si vedano, fra gli altri: M. Castiglione,
I professionisti dei sogni. Visioni e devozioni nella cultura meridionale,
Napoli, Liguori, 1981; 1-. Faranda, Le tradizioni popolari in Puglia,
cit., pagg. 116 ss.; R. Cipriani, Maghi e Madonne nella cultura popolare,
in "Sociologia della cultura popolare in Italia", Napoli,
Liguori, 1979; G. Sanga, Il peso della carne. Il culto millenaristico
del profeta Domenico Masselli di Stornarella, Brescia, Grafo edizioni,
1979).
Vorrei fossero chiare alcune premesse di natura informativa, che integrano
il panorama della religiosità popolare pugliese finora tracciato.
Il personaggio Domenico Masselli, di Stornarella, nella piana di Foggia,
studiato secondo due diverse prospettive da Cipriani, da M. Castiglione
e da Glauco Sanga, ha, il 2 dicembre del 1959, la sua prima visione
della Madonna e inizio da quell'epoca un culto millenaristico-apocalittico
con un proprio centro devozionale, il cosiddetto "oratorio",
di tipo prevalentemente mariano. Vede in estasi la Madonna Immacolata
del Rosario (già nella titolazione si confondono ben due diverse
epifanie cattoliche della Vergine!) nei primi tre venerdì del
mese e riceve dalla Vergine messaggi catastrofici sulla prossima fine
del mondo e sulla corruzione del genere umano. Compie miracoli e guarigioni;
pretende di realizzare la cosiddetta "levitazione", il sollevarsi,
cioè, del corpo contro ogni legge di gravità; riceve,
dopo il 1972, le stimmate alle mani e al costato; aggrega intorno
a questi temi un largo numero di fedeli.
Miriam Castiglione ha ben documentato la strana vicenda profetico-apocalittica
connessa al culto della Madonna di Altomare, in San Ferdinando di
Foggia, con la funzione centrale, nei primordi, di una Marietta D'Agostino
e posteriormente di un Michele Acquaviva, ex guardia campestre, che
si dichiara erede e reincarnazione di Padre Pio. La stessa Castiglione
informa, con la solita sua precisione, di un altro culto connesso
alla figura di Giuseppe, che, in Capitanata, si costituisce come reincarnazione
dello stesso Dio.
Chi intende approfondire questi argomenti riscontrerà nella
breve bibliografia indicata ogni elemento integrativo. A noi, in questa
sede, conviene avanzare alcune considerazioni. Innanzitutto, le indagini
sui profeti e i veggenti in Puglia, pur condensate in notevoli e pregiati
lavori sul campo, sono state fatte in modo sconnesso e asistematico:
è, per esempio, a mio parere molto grave che un'indagine intelligente,
come quella di Glauco Sanga, ignori i contributi definitivi che erano
precedentemente venuti da Miriam Castiglione, da questa straordinaria
creatura che dedicò i suoi anni al sondaggio delle realtà
subalterne del paese pugliese.
D'altra parte, mi sembra che non possa essere affermata una specificità
"pugliese" o foggiana o salentina del visionarismo e della
profezia: fenomeni analoghi sono purtroppo presenti in tutte le periferie
culturali del Paese, anche al Nord, e corrispondono, in sostanza,
ad una traumatica crisi dei valori razionali, in presenza dello smarrimento
emergente dalla devastazione culturale provocata dal modello post-capitalistico.
Né, direi, siamo distanti da questa fenomenologia all'interno
delle stesse città, nelle quali al modulo tradizionale della
visione, del l'apparizione, della comunicazione profetica diretta
si sostituisce il banale incantesimo di espedienti magici, che approdano
all'astrologia, alle scienze occulte, ai sondaggi nell'ignoto e nel
l'immaginario. Ben ha percepito la sostanza del problema Sanga, quando
ha collegato i fatti pugliesi al più ampio orizzonte culturale
delle crisi economiche che portano alla percezione apocalittica e
catastrofica, così che, in Puglia, forse queste determinanti
storiche, rappresentate fondamentalmente dall'incertezza del vivere,
divengono più pressanti e meglio spiegano l'insorgere di movimenti
come quelli che abbiamo appena citati.
Nè escluderei, in questa analisi condotta a posteriori, la
grande influenza che sulle culture popolari può avere esercitato
un visionarismo ufficiale ed ecclesiastico, che trascorre attraverso
le dimenticate rivelazioni ottocentesche della Madonna della Salette
e quelle, recenti, della Madonna di Lourdes e di Fatima o del Divino
Amore, a Roma: esempi di assenso del potere ecclesiastico a calare
lo spessore razionale ed etico dell'esperienza religiosa nel gioco
sottile dell'irrazionale.
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