§ SUD CONTROLUCE

POZZUOLI UNO E DUE




Nello Wrona



4 Ottobre 1983. Mortedì.
Dopo le otto, con gli uomini si è risvegliata anche la terra. Magnitudo 4,0, settimo grado della scala Mercalli, spallata feroce, quaranta secondi di rantolo per la città maledetta.
Eppure, mai come nel passato il disastro era sembrato meno imminente. Sotto i limiti della tolleranza l'attività dei pennini nei sismografi, scuotimenti regolari già ampiamente convogliati nell'artificiosa normalità dello "sciame sismico", intorbidamento trascurabile dell'acqua nei pozzi e nelle "fumarole".
Tranquilli, soprattutto, gli animali, consacrati, a questa latitudine antropologica, a soli ed unici profeti attendibili del terremoto. Moderatamente ottimisti geologi e vulcanologi. Il fenomeno si è stabilizzato - dicono - e non dovrebbe riservare ulteriori sorprese. Il suolo continua a lievitare, tre millimetri al giorno (due metri e mezzo dal marzo 1970), d'accordo, ma la situazione è sotto controllo, "in tutti i sensi".
Più cauto ("intelligentemente disperato"), invece, Haroun Tazieff, commissario della Protezione Civile francese. Ha seguito, e studiato, i terremoti dei Belice, del Friuli e quello, più recente, dell'irpinia. Ha fondati motivi, e l'esperienza necessaria, per essere preoccupato, convinto com'è che le forze in tensione lì sotto, a trecento metri di profondità, si scateneranno quanto prima. Vorrebbe ufficializzare la suo opinione (come nel 1970, quando il suo intervento fece fallire il tentativo di terrorizzare gli abitanti del Rione Terra), ma qualcuno lo invita a controllarsi. Chi e perchè?
Diffida la gente, non ci credono gli esperti, e nemmeno il "toto" clandestino che, tra i pronostici del calcio, ha inserito, con cinica disinvoltura, la voce "bradisismo". Lo danno perdente, a quote altissime, in base alle scosse delle ultime ore.
A fine settimana, la notizia che il toto èstato sbancato. Trecento milioni da rendere ai fedelissimi del terremoto che, per scaramanzia, o per disperazione, hanno scommesso sulla propria e altrui sciagura.

5 ottobre 1983. Mercoledì.
Il terrore e la confusione hanno fatto il resto. Crollati gli edifici, sventrate le case, Pozzuoli ha riversato per le strade tutta la sua misera nobiltà. Hanno trascorso la notte nelle automobili, nelle tende, in scatoloni di latta o di cartone fatiscenti, sotto gli alberi, in riva al mare, infreddoliti e spenti come manichini.
Al riverbero di incerte fiaccole, contano le ore e le scosse, annusando il puzzo infernale della Solfatara, pompato ritmicamente nelle arterie di anemici vicoli.
Terremotati di professione, raccontano l'arte del sopravvivere con il disincanto di una esperienza dolorosa, non morale ma terragna, maturata nei secoli.
Michele, pescatore, ha visto sbriciolarsi la casa. I genitori, nell'80, perirono sotto le macerie di Pagani. Sulla banchina del porto, squarciata come una ferita da mannaia, ha capovolto la barca e vi ha ficcato dentro moglie e tre figli.
Divideranno, per due giorni, una forma di pane in cinque.
Nunziatina si è lasciata andare al sonno, stringendo all'apostolico petto tre marmocchi pallidi e sparuti. La scossa l'ha schiaffeggiata sul balcone senza ringhiere, ad un passo dal vuoto. Al militare che cercava di portarla in salvo ha ruggito: "Prima loro, sono innocenti. A culpevole sta accà!". Pubblica sposa di mille uomini, vittima inconsapevole di un "auto da fé" controriformistico, cristianamente oscuro, è ben lontana dal capire il tradimento della grande Madre, mentre Marta la pazza - due fiori, una preghiera, cento lire -, un calendario di rughe nel volto, continua a puntellare l'unica parete della sua stamberga, abbandonandosi per terra, alle prime luci dell'alba, come uno scolorito manifesto strappato dal muro.

6 ottobre 1983. Giovedì.
La macchina dei soccorsi si è ingolfata prima ancora di partire. Da Napoli, Avellino, Caserta, lungo tutta la tangenziale, si è snodata per ore la carovana degli aiuti. Quasi sempre spontanei, a gruppi, alla spicciolata, sono arrivati a Pozzuoli, dove, in pochi minuti, è stato il caos completo. Saltato il coordinamento predisposto dalle autorità comunali, e da un'arrancante Protezione Civile, l'emergenza si è infranta nel valzer delle competenze, dei ruoli, delle sovrapposizioni burocratiche.
Il 1980 ha insegnato ben poco, da queste parti. Gli errori si ripetono sulla pelle di gente ignara, e poco propensa, oggi, ad accettare ritardi ingiustificati.
Si parla già di verifiche, di controlli degli stabili lesionati, di indagini a tappeto per una reale e oggettiva stima dei danni. Si parte con le carte, e con le marche da bollo, con aridi questionari - una croce, un destino -, mentre basta affacciarsi alla finestra per capire che il momento dell'operatività non può essere più rimandato. Ma chi darà il via, in questa bolgia? Chi coordina le operazioni di soccorso?
Il Comune è assediato, i suoi duemila dipendenti intontiti dall'imprevisto, i Vigili del Fuoco, con l'organico ridotto per recenti crisi economiche e gestionali, sono occupati a smantellare le case con rischio immediato di crollo, la Polizia imbottigliata nella ragnatela di un traffico indemoniato, le USI- ridotte all'impotenza da grumi di persone che richiedono già tributi in danaro. E una Protezione Civile imbavagliata che attende direttive dall'alto. E dai vertici, come in passato, si intuisce, con un'ombra di sospetto, che il semaforo verde non si accende perché esiste incompatibilità istituzionale, meglio, impermeabilità operativa, tra i ministeri interessati.
Il piano di emergenza prevede quattro punti di raccolta delle famiglie: mercato ortofrutticolo, Villa Avellino, Via Campana, Lungomare Yalta. Le persone, invece, sono ammassate altrove.
Amministratori scomparsi, Giunta fantasma, "smarrito" persino l'elenco già redatto degli alloggi disponibili da assegnare, la storia si perde negli angoli delle strade, si fa voce improvvisata di popolo, affonda e si avvilisce nelle liti e nei tafferugli, dove anche i bambini intervengono armati, per un posto nelle interminabili code, irrompe negli uffici vuoti e senza risposta, arriva sulle grandi vie e sui raccordi da dove, ormai sera, si intravedono le prime colonne degli automezzi militari.

7 ottobre 1983. Venerdì.
Nell'ingovernabilità assoluta, lo stillicidio delle prime cifre. Centinaia di case lesionate, 30.000 i senzatetto, interi quartieri abbandonati per crolli a catena, decine di feriti e di contusi. Un morto. Ma a Napoli, infarto miocardico.
Inizia l'esodo. Ma senza una destinazione. Dal novembre del 1980 è una caccia aperta agli alloggi sfitti. Le abitazioni disponibili sono poche, spesso lontane chilometri. Chi non èriuscito ieri, per iniziativa degli amministratori o per intermediazione della camorra, a trovare un tetto, si accampa in trincea, aspettando una soluzione radicale sulla quale, in questa nevralgia, è illogico fare affidamento. Lo sgombero è allucinante. Non c'è programmazione. Il manifesto del sindaco, Gennaro Postiglione, che dispone l'evacuazione immediata, tempo ventiquattro ore, acuisce il panico.
Più che un popolo colpito dal sisma, sembra un esercito in rotta. La confusione diventa sistema. Il serpente impazzito delle automobili, dei camion militari, delle ditte di trasporto (che realizzeranno affari d'oro "vendendo" a caro prezzo la propria disponibilità di movimento) s'imbriglia nei meandri di un paese che non ha più strade e marciapiedi.
I più fortunati hanno trovato, o requisito con la forza, una tenda o una roulotte. Chi dispone di denaro liquido ha contrattato, con i "buoni uffici" della piovra malavitosa - l'unica ad avere le idee chiare in questo momento - un rifugio sicuro. Gli altri, gli ultimi, sono rimasti per le vie. Accampati con le poche cose sottratte alla voracità della terra.
Sulla Domitiana, la più lunga carovana dei mezzi dell'Esercito che si ricordi da queste parti. Immobile, perchè nessuno sa dove indirizzarla. Le iniziative autonome degli uomini con le stellette non sono ammesse. Paura di una prova di forza? Diffidenza per le divise? Timore per la contropartita di un futuro prossimo venturo?
Assente lo Stato. "Gente di Pozzuoli, ribellatevi al governo, bisogna ribellarsi", gracchierà l'altoparlante pirata fino a notte inoltrata. Nessuno, però, ha più la forza di reagire.

8 ottobre 1983. Sabato.
Definite le fasce di rischio. La prima, ad altissima pericolosità (A-1), è compresa tra il Posto e la Solfatara; la seconda (A) va dallo stabilimento Pirelli ad Agnano, fino a La Pietra; la terza, a rischio ridotto, comprende Bagnoli, Nisida e Miseno; l'ultima, Agnano, Fuorigrotta, Pianura e Soccavo.
La polemica scoppia violenta, senza precedenti. Con quali criteri sono state individuate le zone di massima pericolosità e le restanti aree di relativa stabilità? Perchè una casa fatiscente, a pochi metri dalla "A-1", non è inserita in quel cerchio rosso che ha tranciato la città con un reticolato di oggettiva insofferenza? Quali interessi, più o meno privati, navigano nella penombra di una ordinanza che pretende di stabilire l'abitabilità di un locale senza averlo neppure visionato una sola volta?
Il Comune tace. Dal prefabbricato che lo ospita, pochi cenni sulle intenzioni degli amministratori. Una sola cosa certa Pozzuoli deve essere sgomberata. E al più presto. Per le discussioni, le ripicche, le rimostranze ci sarà tempo e spazio. Ma dopo.
Piovono, intanto, i primi contributi.
250-300 mila lire ad ogni capo famiglia; ma il "generoso aiuto" governativo con convince. Primo, perchè il denaro viene assegnato "sulla parola", quindi senza una adeguato documentazione anagrafica. In secondo luogo, perchè èsolo un palliativo per diminuire la tensione del dopoterremoto, e non risolve, di conseguenza, il problema nel suo insieme. E poi, come controllare l'erogazione delle sovvenzioni pubbliche?
A cinque giorni dalla scossa che ha travolto la cittadina, nulla di ufficiale èstato fatto per affrontare l'emergenza. la gente ha traslocato da sola, ha scelto la nuova dimora - casa, tendopoli o baraccopoli che sia -; Protezione Civile ed Esercito si sono tamponati nel collo della bottiglia.
In questo clima, e in questo stato, 250 mila lire sono una elemosina gettata ai piedi di uno straccione. La forma più spicciola, e sbrigativa, per calmare i rimorsi della coscienza. Ma anche la più vergognosa.

9 ottobre 1983. Domenica
Primo giorno di festa nel campo profughi di Licola. 1500 persone stipate in tende e in containers preparati a tempo di record dai genieri dell'Esercito e della Protezione Civile.
L'ambiente è disumano. Interi gruppi familiari ingabbiati, nella più squallida promiscuità, in alloggi di fortuna. Situazione igienica ampiamente degradata. Prima comparsa di pidocchi e di malattie infettive, in un ambiente dove l'ignoranza è un titolo di rendita.
Gli ospedali da campo di Napoli e di Caserta provvedono alla routine sanitaria del l'attendamento. Ma sono soli. Le postazioni della Croce Rossa e della Protezione Civile rimangono inoperanti perchè non ispirano fiducia. Per avere una fiala di medicinale, o un antibiotico, bisogna riempire dei moduli. E la carta della burocrazia non può suscitare, oggi come oggi, grandi simpatie da queste parti.
Non si distribuiscono i generi di prima necessità. Introvabili i pannolini per i neonati e per le donne. Scarseggiano persino latte e pane.
Nelle tende militari è un'ossessionante peregrinare di madri e di bambini, affamati. Un pezzo di formaggio può valere, nel baratto della necessità, dieci minuti d'amore o un pacchetto di sigarette. Non si trova nemmeno l'alcool etilico, indispensabile in questi casi. La paura è che venga riciclato in bottiglie molotov. Insensato.
Da Napoli, e da Roma, sono partiti automezzi carichi di ogni genere di. conforto. Dove si sono fermati?
E' iniziato il periodo dell'attesa. E quello del l'incontrai labile insofferenza. I politici che hanno tentato di visitare la tendopoli sono stati sbrigativamente allontanati da un fitto lancio di sassi e di sterco animale. Non è venuto più nessuno. E mentre nella "bidonville" la vita continua a dipanarsi precaria e densa di pericoli, qui, come a Cirus, Lucrino, e in tutti gli altri ritrovi della zona, la gente ha capito e si è adeguata. Questa sera, tra tende che sanno di amarezza e di pianto, in mezzo ad una frotta di bambini scalzi, ènata la prima via: Contrada della Speranza.

10 ottobre 1983. Lunedì.
Iniziate le requisizioni di case sfitte nei centri di quattro province: Napoli, Salerno, Caserta e Latina. Tre milioni anticipati al proprietario che cederà l'uso della seconda abitazione.
La camorra ha corretto il tiro. Con quattro milioni si può ottenere immediatamente una casa, scavalcando le lungaggini burocratiche degli elenchi e delle verifiche amministrative.
Pozzuoli è morta. Ufficialmente. Evacuato il centro storico, ridotto ad un cimitero il Rione Terra, chiuso il porto, in fuga il resto della popolazione, azzerata l'attività commerciale e turistica, nei quartieri dell'antica Puteoli, fiore all'occhiello del Tirreno, i passi del visitatore risuonano lugubremente nel silenzio.
In una settimana si è consumato l'olocausto della civiltà più avanzata d'Europa. Perchè, con Pozzuoli, è scomparso anche un pezzo geografico e umano dell'Italia. Perchè non esiste soluzione di continuità con la vicina Napoli e con i suoi terremotati a vita. Perchè, soprattutto, quando il Sud starnutisce, tutta la Penisola prende il raffreddore.
Restano della città, dopo l'"arretramento", le tracce di una antichità portentosa e intelligente: Serapide e il suo Tempio, l'anfiteatro Flavio e il suo cuscinetto di sabbia che lo rende immune dagli scossoni della terra, la Solfatara e i suoi misteri. La città risorgerò, dicono i tecnici, mentre c'è già chi specula sulle abitazioni abbandonate. Difficile stabilire quando, forse fra anni, ma riprenderà corpo e dimensione.
Primi smottamenti, intanto, ai fianchi delle operazioni di recupero. Disaccordo tra geologi, politici e urbanisti sulla zona che ospiterà la "Pozzuoli-bis"; stanziamenti ridotti all'osso, ma "rivitaminizzati" con fondi economici della Comunità Europea; braccio di ferro tra chi (Ministero della Protezione Civile e Governo) privilegia l'emergenza e chi (Università e geofisici) insiste sul graduale e progressivo ripristino del nucleo antico. Tempi lunghi per inevitabili polemiche infuocate. "Nulla èmeno spettacolare di un flagello e, per la loro stessa durata, le grandi sciagure sono monotone", diceva Camus. Ma oggi, si rasenta l'assurdo della disfunzione organizzata, dei vuoti incolmabili, dei silenzi colpevoli.
Dopo una settimana, il dramma di 40.000 persone è scivolato pesantemente nelle ultime pagine dei giornali. Riaffiora, di tanto in tanto, con la stesso innocente leggerezza del sughero. Ma è stato già archiviato nella continuità di un evento - naturale e umano - che si protrae "inevitabilmente" da decenni. Senza infamia e senza gloria.

UN ANNO DOPO

A distanza di un anno, e dopo seimila scosse, l'aspetto è quello di un avamposto di frontiera precipitosamente abbandonato nelle mani pietrose del deserto. Evacuati tre quartieri su cinque, inutilizzabile il porto, azzerata l'attività commerciale, in diaspora più della metà della popolazione. l'altalena di innalzamenti e di inabissamenti, iniziata nel 63 a. C., si è risolta nel 1984 a favore della terra e del vulcano che dorme nell'intestino di Pozzuoli.
Vittima "eccellente" nel disastro strisciante dell'Italia Meridionale - che, in due secoli, ha assorbito 1/5 di tutti i terremoti più critici del Mediterraneo -l'antica Puteoli è l'esempio, oggi, di come una economia ed una cultura possano essere soffocate dall'incuria, dal l'imprevidenza e dall'immobilismo statali.
Ma la città era virtualmente condannata a morte già dal 1970, quando la sorveglianza scientifica dell'area flegrea registrò i primi sollevamenti del suolo ed una timida, anche se sospetta, "migrazione" delle scosse dal mare verso l'interno. Anche allora, come nell'ottobre 1983, vennero ridestati gli incubi dell'eruzione sottomarina e di un terremoto altamente distruttivo. Si ottenne, con la paura della "catastrofe a scelta" e con le armi più sottili delle persuasione occulta, lo sgombero del Rione Terra, e la vendita, a prezzi stracciati, di immobili ed abitazioni riconvertiti, a distanza di pochi anni, in ville ed alberghi di lusso. Molti gridarono allo scandalo, pochi si opposero, mentre la scienza ufficiale, in mancanza di mezzi e di fondi, si spaccava nei tronconi di un antagonismo sterile ed inconcludente. la fuga dal centro storico (che era, paradossalmente, il riassunto di tutta la produttività e dell'interscambio dell'area circostante) destabilizzò l'intero apparato urbano, con -il progressivo esodo verso le periferie metropolitane di Napoli e di Caserta, ma spesso anche all'estero, e con il conseguente strangolamento di un terziario fino ad allora ampiamente in attivo.
Sopravvivevano - ma senza energie propulsive - l'attività mercantile - anche se in concorrenza spietata con la vicina Napoli - e il turismo. Praticamente inesistenti, nel sottobosco, contrabbando e criminalità organizzata.
Il colpo di grazia nell'ottobre dello scorso anno. Novanta centimetri di innalzamento nell'arco di pochi mesi, scosse particolarmente violente, crolli di case antiche e costruite con il tufa, lesioni agli edifici in cemento della speculazione edilizia. Lo sgombero, questa volta, è totale, anche se "anonimamente" pilotato. Di ufficioso solo un manifesto, redatto in tutta fretta e senza firma giuridica, con il quale si invita la gente a lasciare le case, soprattutto nella zona ad altissima pericolosità. "Zona" - si legge - "dove si è registrata la massima densità degli epicentri dei terremoti, dove quindi è più elevata la possibilità che si verifichino nel futuro le scosse di maggiore energia": un golpe bianco, perchè gli scienziati e i vulcanologi non hanno mai prospettato l'eventualità di un simile rischio. L'equivoco, in ogni caso, funziona, e la città viene gradualmente abbandonata. Quel che resta precipita inevitabilmente nella spartizione territoriale, e politica, del clan della Nuova Famiglia, con una segmentazione delle "sacche" di influenza - Porto, Mercato Ortofrutticolo, Stabilimento Olivetti, fascia costiera fino a Bagnoli - e con la stratificazione, su medie e piccole imprese, dei traffici economici dell'eroina e della cocaina. Taglieggiati, con il sistema della "perequazione progressiva" (più danni minor onere del contributo) quasi tutti i negozianti, mentre il Rione Solfatara, a ridosso della grande bocca del magma, è diventato il terminale ideale per le contrattazioni con la mafia siciliana e con quella turca, e per gli immancabili regolamenti di conti fra bande rivali.
Socialmente, la caduta è verticale. Ma lo è anche antropologicamente, se è vero che l'unica persona rimasta nei quartieri antichi - un anziano paraplegico - deve pagare alla camorra il diritto di poter transitare per le strade con la sua sedia a rotelle.
Come l'Araba Fenice - dicono - Pozzuoli risorgerà dalle proprie ceneri. I progetti sono già pronti, e le prime "tranche" di finanziamento in arrivo. Ma i precedenti non sono confortanti. La storia delle calamità naturali che hanno devastato morfologicamente il territorio italiano nell'ultima secolo non offre sufficienti smagliature per previsioni ottimistiche. Dal terremoto di Casamicciola, nell'isola di Ischia, del 1883 (1), attraverso le cronache e lo stillicidio dei morti e dei danni di Messina (2), di Avezzano (3), del Belice (4), di Tuscania (5), del Friuli (6), dell'Irpinia (7), alle spallate dell'ottavo grado in Abruzzo di quest'anno, la cancrena del dissesto idrogeologico si èestesa progressivamente nei vari fronti -del sisma o dell'intervento umano -prodottasi nella Penisola. Ma non solo terremoti. E' una storia anche di frane, di alluvioni, di smottamenti, di città che sprofondano in mare, come Venezia, o scivolano a valle, come Perugia; di centri storici che marciscono dietro i piani di recupero ambientale, come nel caso dei "Sassi" di Matera (8), e dei quartieri fatiscenti di Napoli, quelli del "terremoto freddo".
"Libera costruzione in libero Stato", si predicava alla fine del secolo scorso, dopo ogni calamità: ma di nuovo si èvisto ben poco. Le emergenze sono state affrontate, prima dalla Chiesa (9) e poi dallo Stato, con leggi e leggine speciali, con interventi limitati nel tempo e circoscritti nello spazio, senza un disegno organico finalizzato al recupero dell'antico contestualmente alla creazione delle infrastrutture moderne. "Dopotutto" rilevava nel 1756 J.J. Rosseau "non è la natura che ha ammucchiato là ventimila case di sei-sette piani". L'intuizione era felice, ma destinata a non avere un seguito.
E così, nel 1984, il problema (o la prova del nove) è il seguente: i 40.000 sfollati di Pozzuoli, i senzatetto vecchi e nuovi, i "dipendenti" del terremoto, avranno finalmente una città, a misura d'uomo, dove abitare, al posto di tende e di roulotte? O meglio:
è possibile, oggi come oggi, pensare ad una nuova Pozzuoli?
Le prime, sommarie, indicazioni del Governo, della Protezione Civile e dell'Università degli Studi napoletana propendono per il "sì", anche se i dubbi a questo proposito non son pochi.
Il 19 novembre 1983 viene firmato, tra Ministero per il coordinamento della Protezione Civile, Comune di Pozzuoli e Università, una convenzione che vincola quest'ultima a una "consulenza tecnica tesa a risolvere le questioni connesse sia alla documentazione dello stato dei luoghi sia alla elaborazione di soluzioni per il complesso problema del reinsediamento delle popolazioni evacuate o nelle località di provenienza o in nuove zone di urbanizzazione". In tutto 240 docenti (10), impegnati a titolo gratuito, stante "l'alto valore sociale del l'iniziativa". La convenzione dura quattordici mesi, e l'Università parte con le prime proposte. Viene individuata l'area di futura fabbricazione: Monte Ruscello, alle spalle del Rione Toiano, a tre chilometri dalla città, considerata la zona meno pericolosa nell'ambito del territorio di Pozzuoli. Giunta e Consiglio comunali deliberano la localizzazione dell'insediamento, mentre il Parlamento approva a tempo di record, in dicembre, il decreto legge che fissa a 420 miliardi il finanziamento per le opere di ricostruzione. Con il rastrellamento del denaro, attinto, in parte, dalle casse della Comunità Europea, viene accantonato definitivamente il progetto, ideato (ma senza eccessiva originalità) dagli amministratori puteolani, di realizzare in meno di un anno una baraccopoli dove "parcheggiare" i senzatetto, in attesa del ripristino, con l'edilizia popolare, del centro storico.
Le polemiche non si fanno attendere. Il WWF disapprova la scelta di Monte Ruscello, perchè "troppo vicino alla città, e quindi esposto geograficamente al rischio del bradisismo". Indica Villa Literno come sede ideale per il nuovo insediamento: lontana, però, decine di chilometri dal centro. Una vera e propria "deportazione" in aree extra-comunali, risponde la Sinistra.
Sostanzialmente differente (almeno come punto di partenza) la posizione dell'I.N.U. (istituto Nazionale di Urbanistica), contrario all'occupazione delle zone agricole esterne, "nell'indifferenza ai problemi di riqualificazione delle preesistenti strutture abitative". Come dire: non andiamo lontano; espandiamo, invece, Napoli e il suo hinterland (Pozzuoli compresa) in un'unica metropoli lineare lunga 70 chilometri, da Villa Literno a Torre Anniunziata. Per il Comune, però, la costruzione "avveniristica" non regge perchè "verrebbero sacrificate nella conurbazione le caratteristiche economiche e sociali della cittadina". Con un particolare danno - sembra di capire - per quelle industrie di trasformazione (sub-fornitrici o ausiliarie) che dovrebbero alimentare l'indotto dell'Italsider di Bagnoli, perennemente in crisi.
Nel contesto delle polemiche si legge, tra le righe, la diffidenza per il sovrapporsi di autorità speciali (Protezione Civile) su autorità elettive (Regione e Comune), e per i rischi della confusione dei ruoli e delle prerogative. Ma si intuisce, soprattutto, il sospetto che il bradisismo abbia involontariamente creato una nuova emergenza per far affluire, da queste parti, capitali rimpolpati da "gestire" con la massima libertà. lo si deduce dall'incapacità dei vari organi - pubblici e privati, intervenuti nel dibattito sulla ricostruzione di Pozzuoli - di formulare ipotesi e alternative seriamente concrete.
Insomma, non è tutto terremoto quello che scricchiola, anche se, per gli esperti e per i politici, va privilegiata in ogni caso l'emergenza. E tra crateri, mare e montagna da una parte, non è poi assurdo spostarsi verso l'interno.
Dunque, 20.000 vani a Monte Ruscello. Riduzione dell'abitabilità nelle due attuali concentrazioni edilizie della città vecchia (39.000 abitanti) e di Arco Felice (28.000 abitanti). Ridistribuzione dell'intera popolazione (75.000 persone) lungo una direttrice di sviluppo lineare orientata verso l'interno. Infine, ma non per ultimo, il recupero del Rione Terra, con servizi e strutture che non richiedano, però, la "stanzialità" della popolazione.
A questo punto, una seconda polemica, non meno lacerante della prima. In termini di "recupero edilizio", ma anche di opportunità politica ed economica, la precedenza spetta al "mega-rione" o al centro storico? E, dato per scontato che quest'ultimo debba essere necessariamente decongestionato, quali saranno i collegamenti "vitali" tra il nuovo insediamento e la città antica?
Per Governo e Protezione Civile, nessun dubbio sulla necessità di procedere a ritmi serrati con la costruzione del "nuovo" (10.000 persone vivono ancora accampate in tende e alloggi di fortuna, con il secondo inverno alle porte).
Per Uberto Siola, Preside della Facoltà di Architettura e coordinatore del Comitato di consulenza scientifica dell'Università di Napoli, invece, non si può "accettare un piano volumetrico al di fuori delle logiche del recupero di quanto esiste". Cioè: più che varare la "Pozzuoli-bis", occorre ridisegnare l'intera mappa della cittadina, con i suoi nuclei storici e con le nuove infrastrutture. In pratica, il risanamento deve essere contestuale alla creazione del nuovo.
Alla base di tutto, il timore che vengano soffocati i raccordi, sul piano dell'identità culturale ed economica, tra i due spezzoni agglomerativi. Si propone, così, l'abbassamento della densità edilizia ed abitativa mediante il diradamento verticale delle superfetazioni e il diradamento orizzontale degli edifici pericolanti; la creazione di un parco archeologico-paesaggistico nel quale ricomporre le aree della Solfatara, di via Campana, dei laghi Lucrino e Averno, di Licola e di Cuma; la delocalizzazione dalla fascia costiera di fabbriche ingombranti o nocive; la sostituzione, per il commercio marittimo, dei moli a quota fissa in cemento armato con piattaforme galleggianti, del tipo "offshore", ancorate alle banchine esistenti. Buone le idee, ma scarsi i fondi per realizzarle. Un solo dato certo, per il momento. Passeranno ancora molti anni prima che il centro storico possa essere restituito al suo antico splendore e alla sua funzione di mediazione tra attività primarie e attività secondarie, tra passato e futuro.
Scartata per forza di cose l'idea di privilegiare, nei piani di intervento, i vecchi quartieri (con l'insediamento "temporaneo" degli sfollati nei ghetti dei container e dei prefabbricati, strada scelta da Zamberletti nell'inverno dell'irpinia, "per non rompere l'economia del piccolo"), l'attenzione si concentra sul rione-raccordo di Monte Ruscello.
Nelle intenzioni, si tratterà di una città di medie dimensioni, costituita e caratterizzata da piccoli isolati, da edifici di dimensioni limitate, da piazze e giardini, nonchè da strutture policentriche (licei, dipartimento universitario, "campus" scolastici, laboratori di ricerca dei CNR, cinema, teatro, impianti sportivi).
Per la ricostruzione, un bando europeo e una gara d'appalto vinta da diciannove consorzi italiani e stranieri. Prezzo concordato "chiuso", cioè non soggetto né ad anticipazioni né a revisioni, anche se lo slittamento dei tempi per la realizzazione degli alloggi imporrà il rifinanziamento dei fondi di investimento.
Intanto, nel riassetto complessivo del territorio, Pozzuoli sarà così divisa: una zona a mare (da una parte Arco Felice e Lucrino, dall'altra Rione Terra e via Napoli); Rione Toiano, attualmente ridotto a poco più di una "bidonville"; Monte Ruscello; zona a mare Licola e Cuma, e cuneo di penetrazione verso la montagna spaccata, dove è previsto un insediamento produttivo di tipo artigianale.
Riassumendo: la convenzione tra Protezione Civile, Comune di Pozzuoli e Università di Napoli ha definito i termini e, anche se indirettamente, la responsabilità politica dell'opera di ricostruzione. Il lavoro dei docenti universitari (scelti dal coordinatore, "sentito il Ministro", all'epoca dei fatti ancora Vincenzo Scotti) si è paralizzato nella proposta "Monte Ruscello". Il Parlamento ha varato la legge di finanziamento. I lavori, già iniziati, vengono affidati a un "pool" di ditte specializzate nel settore della cantieristica pesante e antisismica.
Ma, tra le varie fasi del progetto, in un anno, non poche ombre e non poche sfasature.
In primo luogo, il rischio che Pozzuoli diventi un precedente scomodo (non il solo, comunque) nella storia dell'assistenzialismo di Stato, con contributi ed incentivi a pioggia che deformano la micro-economia locale e immobilizzano l'apparato produttivo del "sommerso". In secondo luogo, la possibilità (non tanto remota, alla luce della cronistoria degli ultimi dieci anni) che il nuovo "braccio" abitativo si trasformi in un quartieredormitorio, soprattutto se i lavori s'interrompono per mancanza di fondi o per insolvibilità delle imprese interessate.
Ed ancora: la probabilità che la nuova propaggine cittadina possa, in un futuro immediato, ricadere nella minaccia sismica, in una geografia, come quella flegrea, soggetta da sempre a periodici scuotimenti e a crisi del sottosuolo.
Il problema è stato correttamente impostato da Barberi, vulcanologo: "Il vero rischio sismico sta nel modo di costruire e nello spazio destinato all'edilizia popolare. Un rischio che non riguarda solo Pozzuoli. Prendiamo i 44 paesi dilagati disordinatamente sulle falde del Vesuvio, con una popolazione complessiva di circa 600 mila abitanti: gli esperti hanno compilato in base alle ricerche le carte sismiche, che indicano le zone dove è pericolosa l'espansione edilizia. Bene, chi va da quelle parti, oggi, può notare che le case sono sorte proprio nella zona di massimo pericolo. Un esempio per tutti: l'Ospedale Civile "Maresca" di Torre del Greco è stato realizzato a pochi metri dalle bocche eruttive del Vesuvio (11). In altre parole: fate attenzione a dove posate la prima pietra.
In attesa degli sviluppi di questa che èstata già definita la "sfida di Pozzuoli", un rilievo sconcertante. Di fronte ai tre "legati ereditari" del Sud - malaria, frane, terremoti - evidenziati da G. Fortunato, poco o quasi nulla è stato fatto. Il debito da "terremoto" corre verso i 70 mila miliardi di lire, ma esistono ancora paesi, nell'osso appenninico, che non rientrano nella carta sismica preparata dal CNR. L'Italia frana, tanto ad Est quanto ad Ovest, ma si tagliano drasticamente i fondi di ricerca nelle Università. Si gonfiano artificialmente i redditi di una delle poche industrie meridionali senza rischio di crisi involutive - quella della cantieristica e dei prefabbricati - salvo accettare commesse, in caso di calamità, solo da regioni del Nord (Lombardia, Piemonte, Trentino-Alto Adige) o dall'estero (Francia, Jugoslavia).
"Si può pianificare il Sahara, o costruire una città in pochi mesi by planning come in Arizona o in Siberia" (12), mentre nel Sud non si va oltre la politica dei 12) umani", sotto l'ombra di un disboscamento che dura da secoli. Si assiste alla riconversione, anche economica, di altre due zone del globo interessate dal fenomeno bradisismico -la Long Valley in California e il territorio di Rabaul in Nuova Guinea - mentre da noi si prospettano solo piani "S" di sgombero o di "arretramento", se non addirittura l'emigrazione di intere comunità con il nomadismo dell'emergenza. Sono passati più di cent'anni dalle prime intuizioni nel campo della geodinamica. In Giappone e nella stessa Cina si possono prevedere, con un certo margine di anticipo, terremoti di vaste proporzioni, mentre nel nostro Sud non si riesce a concepire un'alternativa costruttiva alla "fatalità geografica".
Ecco, in controluce, Pozzuoli è lo specchio anche di questo. Ma èsoprattutto la conferma (se ce ne fosse bisogno) di una terza Italia, geografica e umana, quella dei terremotati, inclusa tacitamente tra le zone più depresse del mondo, dove comuni sono i caratteri e le tendenze antropologiche, le aspettative storiche e, persino, le trasposizioni letterarie.
In questa guerra tra poveri, tra i non eletti della teocrazia cristiana e dello statalismo deformante, ma garantista, a metà strada tra ostentazione e plaisir de paraître, la certezza che all'uomo abbiano tranciato una gamba in nome della Storia. E che lo abbiano fatto, e continuino a farlo, senza spiegargli che la "sua" storia, per il momento, la scrivono gli altri.
"In questo mondo non c'è posto per la ragione, per la religione e per la storia" commenterebbe Carlo Levi: e i suoi "cafoni", quarant'anni fa, avevano già proiezione universale.


NOTE
1) 2.131 morti, tra i quali i genitori e la sorella di Benedetto Croce. Dieci milioni di danni in lire dell'epoca. "Carlo III di Borbone aveva proibito che si fabbricasse a Casamicciola, perchè zona franosa e cavernosa. Essendosi trascurato i suoi ordini, si ebbero i disastri del 1828, del 1881 e quello presente" si legge ne "Il Secolo", Gazzetta di Milano, del 6-7 agosto 1883. Più di mille persone, a distanza di un secolo, vivono ancora in baracche di legno, ricoperte di zinco e di ferro, costruite per quell'emergenza e costate 30 mila lire.
2) 28 dicembre 1908. Distrutte Messina e Reggio Calabria; 90.000 i morti, raso al suolo quasi tutto il parco abitativo delle due città. Approntate, con la prassi dell'insediamento "permanente", 36.000 baracche delle quali, oggi, 4.000 regolarmente abitate. Un calcolo effettuato negli Anni Cinquanta evidenziava che, dei 532 miliardi di lire accumulati dal Governo con l'escamotage dell'"imposta addizionale per Messina e Reggio", solo 85 erano stati investiti per finanziare i piani di ricostruzione.
Si veda, anche, D. De Stefano, "Terremoto e sottosviluppo. Considerazioni", Ed. Casa del Libro, Reggio Calabria, 1976.
3) 13 gennaio 1915. Sconvolta la piana bonificata del Fucino, nella Marsica; 70.000 le vittime, tra le quali la madre di Ignazio Silone. Di proroga in proroga, il ghetto ereditato dal sisma rimarrà in piedi fino al 1971, anno in cui si varò una legge sulla "Eliminazione delle baracche e degli edifici malsani costruiti in Abruzzo in dipendenza del terremoto del 13 gennaio 1915".
4) 14 gennaio 1968, Sicilia occidentale: scompaiono Gibellina, Montevago, Salaparuta. Ridotti ad un ammasso di macerie Poggioreale, Santa Margherita, Santa Ninfa e Menfi. 400 morti, 50.000 senzatetto, 400.000 terremotati. Il primo provvedimento governativo consiste nel favorire l'emigrazione (a "boom" economico non ancora esaurito), con il rilascio di un passaporto a vista e di biglietti di viaggio gratuiti fino alla frontiera.
Centinaia di miliardi erogati, ma nessun controllo sulla ricostruzione. Se ne occuperà, alla fine (dieci anni dopo), una Commissione Parlamentare di inchiesta. Conclusioni: mille miliardi spesi per opere "esuberanti" (strade e viadotti per 260 chilometri, il doppio dello sviluppo regionale), 40.000 baracche al posto di abitazioni in muratura (tutte "occupate" ancora oggi), 33 procedimenti giudiziari in materia di appalti, collusioni e permeabilizzazioni tra potere politico e mafia economica. Con il denaro pubblico, edificati palazzi e "residence" a Palermo, Trapani e Agrigento, città non toccate dal terremoto.
5) 6 febbraio 1971, contenuto il numero dei morti (32), ma danni inestimabili al patrimonio artistico. Stanziamento iniziale di 11 miliardi per il recupero del centro storico e di un miliardo per i beni culturali. Dopo due anni, la legge non è stata rifinanziata e si è dato corso, indiscriminatamente, alla "politica della ruspa facile".
6) 6 maggio 1976; 965 morti, 90.000 gli sfollati, stravolto l'apparato produttivo di 137 comuni. Nasce il "modello friulano" della ripresa. Ma il miracolo appartiene solo alla eccezionalità di una Regione a statuto speciale, dotata di poteri legislativi autonomi, e al dinamismo della mobilitazione popolare. Il governo Moro, da parte sua, nomina un Commissario Straordinario per le zone terremotate, Zamberletti, mentre il CNR, tra le polemiche, presenta il progetto finalizzato geodinamica. In Friuli, i baraccati sono ancora 35 mila.
7) La storia è a portata di mano. 23 novembre 1980; 4.441 morti, 313 Comuni devastati insieme con l'economia di base, 21.224 miliardi di lire in danni (secondo le stime del Ministero del Bilancio), 150 mila i senzatetto.
Ricostruzione anemica, in gran parte appaltata alla camorra e alle grandi "holding" dell'edilizia popolare. Nella sola Napoli, 20 mila persone vivono, a tutt'oggi, in roulottes e in edifici scolastici.
8) In più di trent'anni, leggi a raffica per il recupero degli antichi quartieri materani: ma "bruciati", in pochi mesi, tre miliardi e mezzo per ritardi burocratici. Quasi mille (sui 3.329 censiti) gli immobili suscettibili di tutela o di risanamento, mentre si discute sulla possibilità di radere al suolo quanto di degradato ancora esiste a ridosso dei nuovi quartieri-dormitorio.
9) Dopo il terremoto di Norcia del 1859, lo Stato della Chiesa varò un Regolamento Pontificio che prevedeva criteri di costruzione e norme antisismiche, sul modello delle leggi borboniche del 1785. Di nuovo, l'istituzione di "Commissioni di sorveglianza" con ampi poteri discrezionali contro i trasgressori (pene pecuniarie e corporali). Appena vent'anni prima, il Vescovo di Reggio Emilia, commentando i danni provocati dal sisma del 1831, abbinò il "castigo di Dio" al "fatale sconvolgimento delle idee, in forza del quale, spezzato il freno delle debita sudditanza, si osa minacciare alle legittime autorità". Un "auto da fé", quindi, a carico del fallito moto liberale di Ciro Menotti.
10) In rappresentanza di otto Facoltà dell'Ateneo napoletano: Ingegneria, Scienze Politiche, Economia e Commercio, Lettere e Filosofia, Agraria, Architettura, Scienze Matematiche Fisiche e Naturali, Giurisprudenza.
11) In "L'Europeo", 29 ottobre 1983, p. 29.
12) Alberto Ronchey, "Atlante ideologico", Ed. Garzanti, Milano, 1973, p. 297.


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