§ L'INEDITO

da "MASTRO COLA CREATORE"




Francesco Cappiello



Gli uomini in Feralgìa non erano valutati e distinti per i differenti apprezza
menti d'intelligenza e di buaggine, d'integrità e di spudoratezza, di laboriosità e di trufferia, ma per l'appartenenza al Colismo o al Macarismo; e Colismo e Macarismo, a seconda della tendenza degli adepti, accumulavano nei partigiani tutti i valori morali e negli avversari tutte le malvagità. Non si era inoltre nemmeno d'accordo circa la derivazione dei programmi, perché i Macaristi sostenevano e si persuadevano vicendevolmente dell'esistenza in tempi lontani (la frazione più audace affermava la sopravvivenza) d'un mitico Cola; e i Colisti affermavano che Cola non fosse mai esistito ma che il popolo avesse personificato l'abitudine del lavoro e l'elevazione morale in un personaggio mitico: Cola perciò da colere e non da Cola vissuto ed operante nell'attributo di mastro Cola. Pei Colisti poi il Macarismo esisteva come aspirazione dell'animo ma non come realtà operante: si poteva ammettere un'idea macarista ma non individui macaristi. Eppure, nonostante quella negazione logica, i Macaristi esistevano schiamazzanti, fracassanti, urlanti la felicità per tutti, purché non fossero più vissuti gli avversari, e fosse annientato finanche nel ricordo mastro Cola. Questi, nell'irriconoscibilità di Saggio Colante, subiva quasi una deificazione da parte dei Macaristi, i quali attribuivano a lui l'idea ispiratrice e le dimostrazioni inconfutabili di una palingenesi. Dai giornali, che per tanti anni avevano col suo nome stampato articoli su ogni questionaccia e questioncina, per necessità di propaganda si compilavano raccolte, commenti, estratti; ed ognuno li accomodava, interpretava, mosaicizzava a suo modo, e trovava non una ma interminabili prove della continuità e della saldezza d'un'azione rinnovellatrice. Saggio Colante aveva preveduto e studiato le differenti questioni anche nei rapporti astronomici: non aveva infatti una sera parlato dei Seleniti e della necessità della luna in Feralgìa? Sulla luna in Feralgía erano tutti concordi, e il grido di lotta dei Macaristi era "Vogliamo la luna"; ma non erano unanimi circa la determinazione delle circostanze per l'annunzio della luna in Feralgía. GI'intransigenti sostenevano che la sera tale, in quel posto, con l'abito confezionato così e così, Saggio Colante avesse bandito tra il tumulto infernale dei Colisti, la necessità inderogabile della luna con dati precisi e tuttora inconfutabili (citavano per riprova formule matematiche e filze di cifre astronomiche); i moderati documentavano che non avesse parlato Saggio Colante, ma che avesse indotto quella sera, in quel posto, con abiti confezionati così e così, due grandi astronomi, venuti dalla Caldea, ad annunziare la necessità della luna in Feralgía; ed un terzo gruppo, quello dei pacificatori, che per disciplina di partito guadagnava maggior consensi, proclamava che quella sera, in quel posto, con l'abito così e così Saggio Colante fosse apparso coi due astronomi, che costoro avessero letto un suo discorso: né era pensabile che avessero parlato improvvisando, perché per essere caldei, non conoscevano la lingua di Feralgía.
Il meglio sarebbe stato interrogare Saggio Colante; ma se questi rappresentava la previdenza la luminosità l'onniscienza nei rapporti culturali, nessuno si occupava della sua persona tangibile. Era in tanti volumi e giornali mitizzato per la folla, e nella realtà giornaliera costretto a restare in casa; viveva lì fastidioso a sé e agli altri per la sua presenza, perché Arruffina, temendo di una storditaggine, aveva dato ordine alla servitù di non permettergli l'uscita. Egli nella tempesta d'esaltazioni e di sempre rinnovati progetti di felicità, immancabile perché voluta, cominciò a dubitare della sua stessa identità e a concepire un altro Saggio Colante lontanissimo e imprecisabile, il quale mutasse aspetto ad ogni girare di sole e da una bocca immensa buttasse parole stranamente accoppiate, che rendevano gli uomini deliranti come per filtri afrodisiaci. Ma a chi domandare conferma del sospetto?
Una sera sorprese nel viso di Arruffina un'espressione di calma, e ne profittò per chiedere notizie precise di quel lontanissimo ed imprecisabile Saggio Colante. La moglie gli sorrise compiaciuta come nei primi anni di matrimonio, quando egli per qualche bicchiere bevuto in più all'osteria rincasava col cappello a sghimbescio e con una fiamma furbacchiona negli occhi, e chiese: - Sei in vena di scherzare? o vuoi creare uno scisma tra unitari e dualisti? Saggio Colante è una comoda finzione per fissare un punto di partenza, un riferimento ed un legame, ai quali attaccare le funicelle invisibili dei tuoi bambocci e muoverli ora a destra ora a sinistra. Essi non avvertono le funicelle, ma credono ad un Saggio Colante ed a lui attribuiscono le loro stamberie. Certo guai se Saggio Colante, cioè tu in carne e ossa volessi schiarire la loro mente e convincerli che il creduto sapiente sia mastro Cola in persona, lo stessissimo che un giorno li sbozzò con l'ascia e con lo scalpello i Nel furore ti schiaccerebbero come un insetto immondo, perché la folla non perdona ai menomatori dei propri idoli. Ed ha ragione! Costa sforzi costruire un idolo, e questo, quando è costruito, rende servizio col risparmiare il dubbio e la ricerca. Credi tu che io potrei dare la felicità questa volta veramente universale, se gli uomini dubitassero dell'esistenza e della volontà di bene di Saggio Colante? A me soltanto è riservato e per causa tua il non essere tranquilla, perché tu non vuoi credere nel nostro Saggio Colante, e puoi commettere per la tua ostinatezza chissà quale rovina di famiglia e sterminio sociale. Per amor mio, Saggio, - e Arruffina gli buttò carezzevole le braccia al collo, - credi tu pure al nostro Saggio e non dubitare un momento, affinché non ti sfugga un'incertezza che divenga sospetto nei tuoi pupi e li scinda in lotta furibonda. Come sarebbe possibile allora colore per tutti la felicità assoluto? Se io avessi dubitato... Ma credi che avrei vestito i tuoi pupazzi? li avrei seguiti con premura nelle loro manifestazioni? e avrei reso realtà l'aspirazione dei Macaristi? Ma io ho creduto nel mio Saggio Colante.
Il marito premette la mano sulle braccia e sul capo di Arruffina, si pizzicò un orecchio e si tirò una ciocca di capelli, per convincersi che lui e Arruffina in quel l'atteggiamento affettuoso non fossero una visione improvvisamente dileguabile, e chiese: - Ma esiste la felicità, la vera, quella che rasserena ed accresce la volontà di vita? - Ma altro! trovarla è difficile, perché proprio le idee più semplici sono le più lente a venire. Da domani vedrai la gioia dei tuoi pupazzi. Oramai siamo fuori di incertezza; e questa notte si propagherà fulmineo la rivoluzione. Non una goccia di sangue! In altri tempi gli uomini si uccidevano bestialmente e si schiacciavano a vicenda per i loro incubi di giustizia e di pace. A te questa sera (m'hai promesso di non dubitare di Saggio Colante) vorrò mostrare l'origine arcana della nuova vita. - Arruffina gli prese la mano e lo guidò come una mamma premurosa. Davanti la porta del salone spiegò: - Guarda a destra ed a sinistra: il corridoio appare prolungato, ed è stato esteso davvero non per le nostre stanze soltanto, ma in lunghezza di chilometri con un passaggio sotterraneo. I congiurati moveranno in ordine e distanziati dalla sede dei Macaristi: nel salone subiranno la loro trasformazione e prenderanno poi di qui il cammino in modo da ritrovarsi nello stanzone della Borsa, riconoscersi scambievolmente, prendere i primi accordi e iniziare la felicità di Feralgía.
Spinse l'uscio e introdusse nel serbatoio della felicità il marito. Questi quasi non riconobbe il vano che era servito per le adunanze costose e per i banchetti d'un tempo. Raschiate dai muri le pitture consuete di putti alati e di donnette con cetre e veli svolazzanti, e sostituite con striature e sbuffi di rosso ed azzurro, sgombrati i mobili lucenti e i ninnoli fragili per fare posto a scaffaloni carichi di ceste, sembrava un magazzeno di grasce in attesa d'inaugurazione. Una diecina di uomini con giacchettucce nere e pantaloni aderenti erano disposti guardinghi e silenziosi presso i vari scaffali. Dal soffitto irrompeva la luce violenta a mezzo di due riflettori elettrici. le ceste erano facilmente tirabili. Saggio Colante provò con una, e la trovò colma di bracciali con la stampiglia "organizzatori"; ne smosse un'altra, e vide altri bracciali con la scritta "costruttori"; ed ancora altre ed altre e lesse "legislatori, fornai, critici, facchini, propagandistici, sguatteri"... tutte le professioni e tutti i mestieri. Al suo sorriso di sorpresa, Arruffina spiegò: - Nel passato tutto è andato male, perché gli uomini erano impiegati a casaccio, ed ognuno non era adatto alla propria attribuzione. Inoltre i Colisti erano diabolicamente perseveranti nell'oscurare e perturbare lo scopo della vita stessa: la felicità.
- Erano molti i Colisti?
- Moltissimi.
- Ed ora?
- li abbiamo individuati e numerati, e non ammetteremo perturbamenti ed intrusioni: da una parte i Colisti, dall'altra i Macaristi; ed ognuno avrà ricompense ed incombenze, delle quali sarà degno. La rivoluzione sarà pacifica: un vero ordinamento spirituale, che darà a tutti la felicità.
Saggio Colante non poté, per ordine di Arruffina, assistere alla metamorfosi beatificante dei feralgini; ma dalla soprastante camera avvertì, tra sonnolenza e bruschi risvegli, che nel salone la folla doveva essere immensa e tumultuante. I primi gruppi di Macaristi infatti erano sfilati dignitosi e concilianti, avevano preso i bracciali loro offerti e li avevano infilati giulivi per le parti loro assegnate; poi erano sopravvenute schiere urlanti per i loro meriti speciali e non rassegnate a cariche umili; orde di energumeni, che avevano travolto i distributori e si erano picchiati a sangue nella scelta delle attribuzioni; saccheggiatori e profittatori, che avevano agguantato quattro o cinque di quelle bende stampigliate per rivenderle a prezzi di favore; e folla sempre nuova, schiamazzante, fracassante e rissante. I bracciali erano tutti scomparsi; e fiumane di gente irrompevano ancora. Si erano per necessità adattate camicie, mutande, lenzuola; strappati e tagliati cortinaggi, tendine, tappeti; e impresse stampiglie con furente rapidità sino a due o tre su un medesimo cencio. Non restava più un palmo di stoffa; e si ammassava ancora folla, e nella ressa e nella violenza per agguantare erano balenati coltelli e rintronate rivoltellate. Cursore, Arruffina, i capi della congiura erano in tempo fuggiti terrorizzati ed avevano sollecitato l'intervento di guardie e di pompieri. Non erano mancati feriti e morti; ma dopo una lotta di due ore erano stati sgombrati salone e corridoio, sbarrati gli accessi, dispersa la folla tumultuante e salvate dal saccheggio la dimora di Arruffina e le abitazioni ricche del quartiere.
Donde erano allagati tanti Macaristi? Tra gli stessi capi della congiura il disaccordo era tumultuoso: chi gridava d'avere sempre sostenuto che il Macarismo era una irruzione di folle e che s'era perduto tempo nel rimandare la rivoluzione; chi accusava altri di fiacchezza e corruzione per avere aperto i cancelli ai Colisti; chi sosteneva la necessità di un'immediata decisione; chi propendeva per un accrescimento di adepti in vista di una possibile reazione; e chi gridava per gridare. Tra i gruppi di tendenze, riuniti in luoghi diversi, non erano capitati morti, ma seggiole fracassate, occhi e nasi pesti, capi sanguinanti e sventagliamenti d'immoralità pubbliche e private.
Gli spiriti si calmarono nelle ore gelide del mattino: gli uomini fortunati per godere, dell'evento, i profittatori per ingraziarsi i potenti, i camuffati per celare il loro passato di Colisti, gli scontenti per preparare in silenzio nuove scissioni e nuovi sovvertimenti; e i moltissimi, che nulla capivano e molto speravano, per esperimentare l'adattabilità al guadagno. Feralgía sembrava un attruppamento sterminato di girelloni in vacanza: uomini che s'abbracciavano e prorompevano in grida di gioia, giovanotti e ragazzi ballanti nelle piazze, caffè affollati, fabbriche deserte. Tutti avvertivano nell'occasione gl'inconvenienti della pessima edilizia, perché la mancanza di finestre e di balconi verso le strade non consentiva esposizione di drappi ed impediva alle donne di ammirare i loro eroi nelle strade. I giornali annunziavano in gara d'iperboli lo svolgimento tranquillissimo dei Macarismo, la rivoluzione avvenuta nella concordia e con ordine esemplare, la felicità finalmente attuata in Feralgía. Si rilevava con troppa insistenza che nella notte nemmeno un pugno fosse stato scambiato, e si citavano episodi meravigliosi di civismo e di galanteria. Come gragnuola fitta piovevano lodi su tutto e su tutti: sui distributori, sugli organizzatori, sui primi accorsi, sugli ultimi arrivati, sulle donne pudiche e sugli uomini ardimentosi; ma non v'era nemmeno un accenno alle guardie e ai pompieri, che avevano salvato Feralgía dallo scompiglio. L'intonazione nei giornali era eguale; ma il linguaggio era quanto di più ibrido e stridente potesse capitare nello stesso paradiso dei Macaristi: svarioni, parole in gergo, rievocazioni anacronistiche, sconclusioni... "Esuberanze di fattivo entusiasmo", commentavano i furbacchioni; "dall'albero i frutti!" insinuavano gli scontenti inguaribili: "hanno dato i bracciali di redattori a tavernieri, conciabrocche, becchini". Una constatazione era ovvia; dopo l'avvento dei Macaristi l'accordo per l'esaltazione era completo nella stampa, il disaccordo era immensurabile tra i lettori: sembrava anzi che l'intonazione laudativa dei primi, a seconda dell'intensità, fosse il termometro della depressione, del fastidio, dell'insofferenza del pubblico.
Eppure questo godeva di una stampa libera: tale riconoscimento era uno dei capisaldi del movimento, ma per varie ragioni il principio era più proclamato che attuato. I giornalisti erano infatti sottoposti alle stesse necessità degli altri Macaristi, dovevano cioè provvedere ai bisogni comuni e indispensabili della vita, come il bere il mangiare il vestire; i giornali nel loro formato gigantesco erano costosissimi, e per tale motivo impiantati e sovvenzionati dalla Banca; e i giornalisti comprendevano bene che dovevano anzitutto piacere alla Banca, la quale pagava. Perciò per Arruffina, Cursore, Saggio Colante e per la glorificazione del Macarismo lo stesso vocabolario nella dovizia di parole encomiastiche fu presto esaurito.
Si adoperavano superlativi, e, per surrogato alle parole trite, voci a mosaico di termini greci, come callogatia per la bellezza benigna di Arruffina, euprassia per l'attività operatrice di Cursore, neomatesi per il pensiero innovatore di Saggio Colante. Per giunta i vecchi giornalisti, dopo il primo smarrimento dell'oscurità e della miseria, avevano dimostrato come già avessero preveduto e favorito il nuovo movimento; qualmente fossero stati costretti a tacere dal prepotere della vecchia fazione; e che il dannabile passato avesse per loro subìto attacchi invisibili ma implacabili. Furono perciò riammessi nel branco e, perchè avevano meglio esercitata la voce e più rapida l'intonazione, divennero i cantanti di cartello: sapevano dove battere e battevano bene. Il Macarismo era il ritrovato più bello, perché, accordando a tutti assolute e impensate libertà, garentiva la felicità. La storia, con l'avvento della felicità, si divideva in due periodi: prima e dopo il Macarismo; quanto si era pensato ed attuato prima era oppressione, sfruttamento, terrore; quanto dopo diveniva inondazione di beatitudine. E non si restò alle parole; le opere nuove pullularono con la simultaneità del lampo e del tuono.
I primi a lavorare con ininterruzione ossessionante furono scultori e storici. Da calcoli approssimativi, poi discussi e precisati, risultò che tra grossi monumenti, statue e targhe marmoree erano riprodotte le sembianze di 6560 illustri trapassati. Gli storici dimostrarono che i 6560, nessuno escluso, erano stati o rozzi legislatori e scienziati plagiari o falsi patrioti o poeti sgrammaticati e tutti, come proclamavano i giornali, fetidi Colisti. Bisognava cancellare la memoria della passata abiezione; e gli scultori avrebbero dovuto lavorare anni a scolpire massi di marmo se Cursore nei primi anni di Feralgìa non avesse disposto che tutti i monumenti fossero costruiti con teste smontabili. Così si modellarono nuove teste, e di queste, per affrettare il lavoro, si acquistarono nel reame di Feralgìa e dai musei stranieri intere collezioni. Quando fu ammassata una provvista sufficiente non solo ai bisogni immediati ma anche a quelli di venture generazioni, in due notti si procedette allo smontamento e montamento di vecchi e nuovi immortali. Nonostante la luce vivissima delle lampade, o per sbaglio di cartelli o per storditezza di accomodatori o per nuova espressione di arte, capitarono faccioni vitelleschi su busti mingherlini, teste con elmi solenni di guerrieri greci su corpicciuoli coperti da giacchette o da finanziere, capi ricciuti e visi apollinei su torsi piantati come sacchi gonfi su cavallucci con una zampa alzata. Furono proteste, accoramenti degl'intenditori come per una sciagura nazionale; risate e commenti lieti nel pubblico; allarme di controrivoluzione nei giornali. Ma i matematici calcolarono che, per provare in movimenti distinti l'adattabilità di tutte le teste su 6560 colli, occorresse un numero interminabile di anni. I giornali avvertiti proclamarono che l'arte non è riproduzione ma visione dell'artista e composizione d'ispirazioni differenti; i preposti alla monumentalità fecero scalpellare i vecchi nomi ed incidere i nuovi; e il pubblico non rise più e si adattò a celebrare e portare corone a guerrieri con teste sognanti di poeti ed a legislatori con vezzosi sorrisi di Dionisi inebriati.
Ma la rivoluzione immediata fu nella poesia. Tutti concordi sostenevano che non poteva attuarsi il Macarismo senza un rinnovamento della modulazione e del l'espressività del linguaggio; e i più persuasi di rinnovamenti, tormentati da una satiriasi di novità ed originalità, erano i bertuccioni che per anni e anni avavano ricalcato motivi e disposizioni consuete di parole. Per costoro la poesia doveva essere visiva, in parte uditiva, essenzialmente innovatrice. E per innovare non mancavano la voglia e le possibilità. Vennero per l'occasione giornali e giornaletti a turbini prima con nomi di ardimento (Scotimento, Rompivoci, Turbine, Ariete), più tardi, e per conferma delle innovazioni o per ricordo dei più riusciti tentativi, con denominazioni animalesche ed anatomiche (Colombella, Ranocchietta, Tartaruga, Orecchio mozza).
Nei primi giorni, a leggere tanti fogli differenti anche per i colori della carta giallina azzurrognola verdastra rossiccia, si avvertiva un'intonazione di risorta Arcadia: tutti grandi, tutti originali, tutti in rottura col passato retorico ozioso inconcludente sillabante. Poi qua e là apparvero screzi: l'indiscusso X nell'anno tale aveva lodato un libro di versi dalle sillabe contate, perciò era sospetto; l'ardente Y non aveva scritto nulla ma frequentava i circoli colisti di cadaverica letteratura; il dottissimo Z, con l'avvento dei Macaristi in improvviso atteggiamento scapigliato, aveva prima guadagnato un premio letterario sostenendo l'immutabilità della parola e la rigidezza della grammatica. Gli screzi divennero. presto tagli e in un crescendo continuo fessure, crepacci, rovine, abissi incolmabili di furore e di odio. I giornali risposero finalmente ai primi titoli, perché divennero scotimenti di consuetudini corrette, rompivoci di parolacce, turbini d'insulti, arieti cozzanti con furia bestiale. E coi giornali fu rapida la formazione di attruppamenti di giovincelli, di cenobietti di maturi, di chiesuole e cori di giubilati. Gli spiriti erano così furenti nell'attacco, che ogni fazione non badò nemmeno ad una possibile difesa: erano tutti nella posizione di conquistadores, che bruciassero i vascelli, decisi allo sterminio ed alla conquista di terre avverse.
La lotta non compiuta con cannonate ed archibugiate e nemmeno con lancio di frecce e di pietre, ma con nugoli di parole: nugoli che si opponevano a nugoli e che non disorientavano né stancavano i gruppi degli assalitori. Questi anzi, spostando continuamente bersaglio, si scambiavano le parti, divenendo difensori di quanto prima avevano accusato e viceversa, quasi con le medesime parole: i letterati a Feralgía credevano soltanto nelle parole. E poiché nel più intricato labirinto, per troppo girare smarrirsi e battere qua e la il capo, un'uscita si trova, gli scrittori vecchi e nuovi finalmente si persuasero che a Feralgìa non era mai, esistita una letteratura, non si era mai adoperata una lingua adatta, non si era mai pensata e sentita artisticamente una passione, che si poteva perciò bruciare tutti i libri senza danno dei posteri (libri che a Cursore erano costati non pochi quattrini per le sole rilegature), e che la nuova letteratura cominciava dai loro giornali e dalle opere che presto non sarebbero mancate.
Difatti non mancarono, e furono quali l'indole e gli scopi di Feralgìa richiedevano. Gli scrittori si rivelarono poeti, critici e programmisti insieme; ognuno possedeva il suo bravo recipe, per guarire il male della passata e animare una nuova letteratura. I primi passi furono un pò guardinghi (violazione di sintassi, sconcatenamento di pensieri, mutilazione di parole), poi ognuno prese coraggio e decisamente propose e attuò le sue vedute. Un giorno fu decretata e sostenuta come necessità inderogabile la soppressione degli aggettivi, un altro giorno l'indeterminatezza dei verbi, poi l'aggrovigliamento delle parole e finanche la necessità della loro incomprensione. Improvvisamente si parlò di poesia viva e di figure animalesche che quella doveva attuare; e si disposero le parole in modo da attuare aquile tartarughe ranocchi. Ma qui la critica sorse implacabile e sferzante, perché a parte il furore degli adepti a singoli animali, e che si nomavano aquilotti tartarugoni ranocchianti proboscidali ecc., molti impunemente frodavano. Con la diligente collaborazione del prato e con accorgimenti sottili combinavano caratteri diversi, smozzicavano e gonfiavano Ie paroIe in modo da formare figure perfette. No! l'arte non poteva rinunziare alle proprie leggi, e le nuove retoriche non ammettevano deroghe: o la decrepita poesia (la classificavano così dopo qualche mese appena di vita) con libertà di parole o la nuova con la rigidezza dei vocaboli: niente frammischiamenti. le tempeste per fortuna si scatenavano tra nubi tanto lontane che alla masso dei feralgini perveniva soltanto l'eco. Eppure tutti scrivevano e pensavano per la massa, e questa era divenuta d'uno stupefacente disinteressamento: non manifestavano nemmeno gratitudine per i numerosi poeti, che l'avevano liberata dal tormentare l'animo e gli occhi nella lettura di lunghi racconti o nella commozione di sentimenti consueti. Nella massa ancora suscitava incanto e rapimento la lettura di libri spregiati d'un'arte che si diceva bambinesca: Le mille e una notte, Morgante, Lu cuntu de li cunti.
Invano si tentarono rimedi drastici. Tra gli scrittori critici si propagò una tregua di Dio: si parlò di tradizione che era innovazione, d'idealismo che diveniva realismo, di comprensione che significava espressione; ed a turno, da buoni amici, ogni settimana fu bandita l'apparizione d'un capolavoro. Ma i capolavori si ammucchiavano intonsi nelle biblioteche, nelle sale di lettura, nei raduni letterari, finanche nelle sale di aspetto delle stazioni. Gli uomini erano disperatamente decisi a non leggere che libri stantii. Allora la crisi ebbe il suo ravvedimento: giacché soltanto i libri vecchi erano letti, bisognava cogliere di questi il segreto e rimanipolarlo per dosi nelle nuove produzioni; e affinché nella ricerca non capitassero errori, si applicò il metodo matematico, e si proclamò sovrana la statistica. Nei giornali letterari capitarono improvvisi allagamenti di numeri sulle parole più usate in vecchi e non morti libri, su quelle meno usate, sul numero più frequente di vocaboli in ogni riga e delle righe nei periodi diversi, rapporti sui singoli autori sulle opere d'uno stesso autore con grafici e riferimento di secoli. E i calcoli erano così ponderosi e complicati, che si avvertiva necessità di fondare archivi, di proclamare scienza ufficiale la statistica delle parole, e di nominare insegnanti ed archivisti i tanti poeti-critici con attitudini contabili.
Per tale necessità capitò improvviso una mattina Baldo Ventarulo da Saggio Colante: - Finalmente, caro amico, posso vederti. Diavolo! che lusso e come difficile l'accesso: poco mancò ieri sera che, scambiatomi per un furfante, non si chiamasse la polizia, perché io dissi di conoscerti, di averti ospitato ad Albatrillante, e che tu mi avessi aiutato nell'arredamento della casa. A proposito sono tornati i miei genitori; ed io sposerò tra due mesi. Ma tu sei guardato come in una fortezza!
- Chiamala gabbia.
- Toh! sai tu pure, e nulla tenti per uscirne. Ieri sera, dopo che fui scacciato con parolacce e grida, mi vidi seguito dal servo più furibondo, che mi raggiunse in un vicolo. Mi fece intendere che avrei potuto vederti stamane per opera sua, e che egli intanto si raccomandava alla mia buona grazia. Si mercanteggiò sulla buona grazia: una sterlina, ed eccomi a te. Sei davvero una bestia rara, perché ti si vede a prezzo casi caro. Ma la rivoluzione dei Macaristi è scoppiata sul serio.
- Hai saputo tu pure?
- E con quale rapidità! Ad Albatrillante non si leggono i giornali di Feralgìa. Si seguono le notizie su un foglio edito due volte la settimana nel capoluogo. la mattina stessa dell'avvenimento fu pubblicato un numero straordinario; ed appresi così le meraviglie della rivoluzione, della quale tu stesso mi avevi parlato: l'infernale rivoluzione, che vorrà dare la felicità a tutti. Mi auguro che non si sogni di attuarla per Albatrillante: che a noi rimangano le lacrime, perché tra le lacrime c'è il sorriso! Ma la mia meraviglia è ancora un'altra: vedo nel giornale del capoluogo indicato te come il nume ispiratore o, com'era stampato "volante rapido dall'ancòra più rapida macchina". Allora nel dubbio d'un diverso Saggio Colante ricerco altri giornali, do incarico ad un conoscente d'acquistarli a Feralgía, e in tutti trovo sempre te: te grande, te magnanimo. te fontana perenne di pensiero. la testa e le idee mi si confondono. Veggo finanche presentata la nostra marioleria della luna come un annunzio e a rivoluzione e grandi questioni sulle nostre reali persone e sulla tua parte essenziale. Sono così tutte le notizie dei giornali di Feralgía?
- Quasi...
- Ne parleremo per porre un po' di ordine nella mia testa. Ora ho fretta per Acrisio, perché temo di non fare a tempo; e tu mi sei necessario.
- Acrisio? ah! quello della luna e che compiva statistiche sulle parole.
- Quello, quello in persona, mio caro, l'uomo grande nel vostro avvenimento e di cui nessuno parla, perchè avvolto nell'oscurità, e perché forse... non legge i giornali. Tu verrai con me; lo troveremo, e lo metterai tu in luce, con la tua autorità butterai uno dei tanti tuoi articoli: il più lungo, un articolo chilometrico per il mio amico!
- Io? Ma se non ho scritto mai un rigo per i giornali...
- Eh! vuoi scherzare? Della modestia tua parleremo dopo: ora mi preme la fama e l'avvenire d'Acrisio. Pensa: tutti i giornali (ne ho veduti parecchi, Colombella, Ranocchietta, Tartaruga e simiglianti animali) non parlano che di una scienza: la statistica delle parole. Chi ha avuto veramente questa idea, prima che qualcuno ne immaginasse la possibilità? Non lo sai. Ebbene te lo dico io: Acrisio. Ora tutti si fanno belli, e pretendono cattedre, direzione d'archivi, prebende, e fra tanti lestofanti nessuno ricorda il primo e vero esecutore della statistica applicato ai poeti.
- Ma se è stato lui il primo, perché non scrive e domanda anche lui?
- Come sei ingenuo tu! Non ricordi le parole e il viso sconvolto di Acrisio durante l'annunzio della luna? E' l'unico selenite che viva su questa terra. Non solo il cervello, ma la vista sua è lassù. Gli daremo noi consistenza. Troverai tu subito un editore per i suoi scritti. Testimonierò... anzi testimonieremo nei giornali che la prima idea fu la sua; e lo metteremo su su, più in alto della stessa luna, in uno dei pulpiti universitari, pei quali si adunano sempre reverenti uditori, anche per le fandonie... specialmente per le fandonie.
- Ma io... se io...
- Basta! non parliamo di te; mi dirai poi delle tue strane mascherate. Se si perde tempo, il mio amico (miope com'è) non troverà più la strada: a migliaia si buttano sui possibili posti, e chi primo s'incammina, giunge primo. Trascinò Saggio Colante in tassì dalle strade immense ai vicoletti delle casacce scalcinate, dove dimorava Acrisio. - Acrisio, Acrisio, - gridò, - no! al diavolo Acrisio: Verdone, Verdone! - con voce casi forte che l'amico apparve sul pianerottolo: una figura di dissotterato, resa ancora più patita dalla lunghezza spropositata del collo per la mancanza di colletto e cravatta, dagli abiti che gli cadevano giù afflosciati per magrezza, dagli occhi smarriti di miope, che sembravano ancora più sporgenti per i grossi occhiali sollevati sulle sopracciglia. - Vittoria, Verdone, vittoria!
Un sorriso debole schiarì di questo il volto pallido; poi le mani si stesero come per un sostegno. Acrisio si buttò nelle braccia robuste dell'amico, dette prima in un riso nervoso poi, per una crisi improvvisa, in un pianto singultante.
- Che è? su, coraggio! - gridò con voce un po' aspra Ventarulo, mentre con la destra gli carezzava i capelli lunghi e spioventi sulla fronte e sul collo.
- Non reggo più, non reggo! - Era infatti divenuto pallidissimo, e goccioline di sudore gli s'addensavano sulla fronte. Saggio Colante e Ventarulo lo sollevarono e lo adagiarono sul sofà sgangherato. lì egli guardò rasserenato gli amici e sorrise debolmente.
- Che hai? sei malato? - domandò Ventarulo.
- Malato io? oh! no, ero malato; ora rinasco. Ma la convalescenza dopo una malattia occulta e lunga esaspera i nervi. Dentro si avverte che la vita ritorna, ma il corpo non regge alla vita nuova. - improvvisamente si levò in piedi e gli occhi gli brillarono febbrilmente. - Guardate! non vedete nulla nella stanza?
Gl'interpellati non mossero il capo e fissarono con insistenza gli occhi del gio
vane.
- Non credete voi? Io non soffro allucinazioni.
Baldo Ventarulo credette di essere lui preda di una allucinazione, quando staccò gli occhi dall'amico e guardò intorno. Gli sembrò che in quella misera stanzetta lo spirito della distruzione avesse infuriato per ore: libri strappati, scatole e cassetti sfondati, fogli buttati qua e là, e giornali a mucchi negli angoli, sulle sedie, presso la sponda del letto. Sul pavimento una larga chiazza nera e i cocci del vetro mostravano che era lì caduto o era stato buttato il calamaio.
- Non viene la domestica? - chiese Saggio Colante, non per curiosità ma per rompere il silenzio penoso.
Il viso di Verdone si era intanto composto in un'improvvisa serenità. - La domestica? Siete anche voi lontani dal notare la verità che ci è sempre presente e si rivela in mille aspetti - A quel preambolo gli occhi di Ventarulo, per un sospetto di loquacità delirante, si velarono di lacrime, - Baldo, che hai? mi divieni ancora più triste? Eppure si sorride, se un uomo prende un abbaglio. Ecco, il nostro amico domanda della domestica, e non si è accorto, salendo per la scaletta logora, entrando nel corridoietto buio e nerastro, guardando la desolazione di questi mobili, che la padrona è tanto povera che deve fare tutto lei, e tanto vecchia che non riesce a far nulla. Qui avrebbe nettato, ma non valli io, perché volevo assistere e contemplare la rovina d'un mondo. Che frase grossa I Ma ognuno chiama così il bugigattolo dov'egli si muove e l'armeggio e egli stesso esegue. Ecco lì la rovina: quei grossi volumi sventrati e strappati rappresentano cene e cene saltate per comprarli; quei due mucchietti di cenere la mia miopia per decifrare cartacce fetide e sbiadite di archivio; quei cumuli di fogli lacerati le veglie di mesi continui, dì rinunzia al sonno all'aria alla luce, a quanto gli animali più rudimentali compiono e godono. Ma che strano malattia mi ebbi! e come mai accorsero anni, perché il male si apparisse improvviso! -. Non attendeva risposta, perché parlava rapidamente con tonalità ora cupe ora violente. Si avvicinò alla finestra. - La mia guarigione è venuta improvvisamente da questo angolo. Vedete? - accennò un ragnatelo nerastro. - E' la conferma che io guarissi, che vedessi, che anche il sole per me brillasse, io la ebbi da tutti quei giornali.
Saggio Colante chinò con espressione tristissima il capo; e Baldo Ventarulo tentò distrarre l'amico da quella che egli sospettava pazzia lucida: - Ma prima tu non m'hai accennato mai nulla: forse un medico...
- Ah! un medico, un medico tu dici, - Verdone interruppe il suo sorriso amaro. - Che vuoi che il medico capisca all'infuori di catarri, flussi intestinali, gonfiori e simili rivelazioni. Quando la malattia è qui -, si picchiò con forza la fronte, - e cova lenta seria e dignitosa, il medico non vede e non può capire. Mi crederebbe ora malato, ora che finalmente guarisco. La rivelazione del male mi è venuta da un calabrone, anzi da un calabrone e da un ragno, non per l'avventura e per la moralità bellamente esposte da un favolista, ma perchè coi miei occhi ho veduto i due animali nell'implacabilità della vita e della morte.
Verdone passeggiò a passi concitati per la stanza, come se non avvertisse il silenzio prolungato dei due lì presenti; poi si fermò improvvisamente, pose la mano sulla spalla di Ventarulo: - Guardami. Mi credi veramente malato?
- No! anzi, stai bene. E' vero, Colante, che l'amico sta bene? un colorito normale...
- Hai bisogno di una testimonianza per convincerti che io stia bene. Ma non domandi a me, non sei curioso di sapere? Ah! ah! la storiella del calabrone e del ragno, un delirio di mente malato...
- Pensavo che tu scherzassi. Sarà stato un avvenimento nuovo, come dire? rivelatore.
- La storiella è brevissima: il ragno ha ucciso e poi lentamente succhiato il calabrone. Un avvenimento che si ripete per milioni di volte ogni secondo nello spazio sterminato, perchè miliardi di ragni attendono la preda nelle loro reti e, presala, la succhiano spietatamente. Ma per me la morte del calabrone fu la nuova, la vera rivelazione. Da anni, qui dentro, non vedevo più nulla, cioè distinguevo bene gli oggetti e le persone, ma l'animo mio era estraneo, la mente diretta ad un solo scopo, perchè non vedevo, nel significato di notare e trovare, una qualsiasi rispondenza e necessità della mia vita. La mia visione era la statistica delle parole, rimate e libere, divise per accenti, soppesate nella quantità delle sillabe, agganciate per somiglianza di consonanti e per identità di vocali. Quella era follia: la vera, la follia lucida. Una mattina, ero lì al tavolo notando gli o chiusi ed aperti non distinti dal Tasso nella combinazione delle rime, quando un sibilo leggero mi fece interrompere la statistica. Una pallottolina minuscola volava con giri ora lenti ora rapidi nella stanza e ronzava ora piano ora forte. Sbatté contro la finestra, si attaccò al vetro, rimase lì quieta: era un calabrone. Mi colpì il giallo dell'addome: e vidi improvvisamente un campo di anemoni e insetti di tutte le specie svolazzare, muoversi a sciami, arrampicarsi con zampe goffe, stendere mandibole mostruose lungo i fiori, gli steli, le radici. Era la visione della mia giovinezza nei campi; ed ebbi improvvisa la percezione che nel cielo, di là delle nubi di fuliggine, fosse primavera, e che, aprendo la finestra, io dovessi sentire l'aria libera e profumata, che vibrava ai sensi più acuti del calabrone prigioniero. Aprii la finestra: un ronzio improvvisamente acuto ed un silenzio. Pensai che il calabrone fosse volato via; mi volsi tuttavia a guardare, e lo vidi lì, incappato nel ragnatelo. Due animali con istinti e metodi diversi erano avvolti nella medesima uccisione. Il calabrone scoteva violentemente le zampine, tendeva il pungiglione; e l'avversario ne osservava cauto i movimenti e, senza sfiorarlo, a brevissima distanza, di tempo in tempo gli tendeva fili vischiosi. Poi improvvisamente gli si buttò contro, lo strinse nei tentacoli: l'addome del calabrone si mosse con ritmi sempre più lenti. Una lunga agonia! Il vincitore rimase attaccato alla vittima, anche dopo la morte, succhiandola, svuotandola degli umori, sinchè non lasciò che una buccia fragile. Vidi allora la vita: necessità di riproduzione e di distruzione, groviglio di agguati, attese, implacabilità, distruzione del proprio nemico. Ed io uomo, per anni ed anni, non ero vissuto. Chiuso qui, a che cosa? a contare parole. Era vita quella? contare parole, quando gli uomini sveltiscono mani ed animo in caccia selvaggia; quando come il ragno ognuno attende paziente la preda per succhiarla e divorarla: la preda che alla sua volta ha succhiato e divorato altre bestie.
- Ma non vedeste chiaro, mio caro - intervenne e s'interruppe Saggio per l'improvviso atteggiamento d'irrisione di Verdone.
- Mi attendevo da voi simile interruzione. Voi siete Saggio Colante, il sapiente di Feralgia che proclama e impone le sue vedute, e nulla vede e nulla sente specialmente della realtà immediata. lo ho letto i vostri giornali, e mi è venuto il terrore di Feralgia, lo spavento di voi tutti. Dormite tranquilli, mentre si addensa già la distruzione della guerra.
- La guerra? - ripeté Baldo Ventarulo triste per la follia del suo amico.
- Si, la guerra, la guerra che colpirà me, te e tutti nella spaventosa impreparazione. Perchè mi guardi così? Mi compassioni?
- No, ma perchè pensi a simili tormenti? La guerra... se il mondo è in tanta pace! Pensare, per giunta, alla guerra con lo splendore della primavera... Qui in tanto grigiore di cielo non appare; ma ad Albatrillante su su per la collina gli alberi sono di lontano fasci di rosso di candido di lilla per tanti e tanti fiori. Verdone sorrise mestamente: - Tu vuoi dire: vieni con me, ritorno ad Albatrillante e guarirai. Ma sono guarito, mio caro; e la tragedia è qui: voi sani mi apparite malati -. Poi continuò con foga per impedire interruzioni e parole confortevoli: - Albatrillante... Oh,! sì il ricordo di Albatrillante e della vecchia Lena e della diga immensa del lago artificiale. Eravamo ragazzi, e la rovina capitò di questa stagione. La vecchia Lena abitava sola in una casaccia, in cima al monte. Era fuggita e maledetto dalle altre donne, ed essa fuggiva e odiava tutti, perchè era creduta una strega, che operasse il malocchio sui bambini e sui giovani sposi. Non avevano paura di lei i mulattieri e gli spregiudicati. Ed a costoro aveva predetto un giorno che la diga sarebbe crollata e che Pertosino Gallicchio Noceto sarebbero stati coperti di acque e di fango. La notizia si era diffusa ad Albatrillante; e si era riso, e in molti si era ribadita la convinzione di una malvagità impotente della vecchia. Rovinare la diga, impossibile ! Era di solida muratura, a costruirla avevano atteso i più valenti ingegneri e non mancavano commissioni di controllo. Si era anche riso (ricordo) a casa mia con gli amici. Una mattina i fanciulli erano tornati a ruzzare per le scarpate della collina, le greggi al pascolo su per le balze erbose, le donne a sciabordare la biancheria nelle acque serene, ed era un cielo luminoso, e tutto la campagna era allora fiorita, quando improvvisamente si levò un tuono immenso, e segui un fragore di rovina come se la terra crollasse tutta. Campi distrutti, case crollate, uomini travolti, ma lo strazio fu di quei corpicini di fanciulli ritrovati dopo settimane coperti di melma. La popolazione furente avrebbe trucidato la vecchia Lena, se anime benigne non l'avessero sottratta in tempo alla cieca vendetta; né la gente si è persuasa che la rovina non fosse dovuta a malocchio. Tale convinzione perdura perchè, se non mancarono commissioni perizie controlli, la causa vera del disastro è sconosciuta. La sai tu? - Veramente se ne è parlato, se ne parla; ma ognuno da una spiegazione diversa.
- Ed è così; e le spiegazioni sono tutte vere e giuste, perchè le cause sono migliaia e tutte valide; ed ognuno vede quella che, dal canto suo, crede essenziale: la popolazione di Albatrillante pensa che l'unica causa sia stato il malocchio. Ma non questo ora m'interessa. Il mio tormento è un altro: come mai i modesti, i semplici, i più deboli ed oscuri ricevono la rivelazione della realtà immediata o lontana e gli uomini in fama di sapienti no? lo, un recluso, e la vecchia Lena, una scema, sì, e gli altri no?
- Scusate, - volle attenuare Saggio Colante, - se ho ben capito, voi studioso e intelligente, volete paragonarvi con una misera vecchia; ma che senso c'è?
Verdone lo guardò appena, e si diresse al suo amico:
- Non ti pare sorprendente il caso? Perché non rispondi? oh! tu non sai che cosa rispondere. Coloro che fanno professione di conoscere tutto, i sapientissimi, si abbagliano nella suggestione del loro creduto splendore, e non vedono nulla, e nella realtà non colgono uno solo dei mille e mille indizi, i quali sono evidenti agli occhi dei semplici. Si dice che le bestie avvertano un'ora prima la furia del terremoto e non gli uomini coi loro delicati strumenti e coi loro calcoli precisi.
- Santo Dio! - interruppe Baldo Ventarulo, - spiegati una volta chiaro: dove hai trovato questa certezza di guerra?
- Dai giornali.
- Questo poi! - esclamò Saggio Colante.
- Dai vostri giornali, ripeto. Da anni non li leggevo. Ma quando vidi lottare il calabrone e il ragno, e questo irretire e succhiare la preda, io ebbi improvvisa la visione della vita e ne chiesi la prova ai vostri giornali. E da essi ebbi una visione di terrore; ecco fogli politici e letterari da mesi non trattano che statistiche: statistiche di parole, di accenti, di rime di vocaboli vecchi e nuovi. Gli uomini sono malati, sono accecati dalla mia trascorsa malattia, e non vedono, non possono vedere la tempesta che si addensa. Mi sono ricordato della triste successione dei secoli: le rovine precipitarono, quando gli animi erano perduti e distratti dal gladiatore favorito, dal colore della veste degli aurighi, dalla gola d'un cantante, da un processo celebre, a Feralgìa dalla ricerca delle parole.
-Ma se nessuno vuole la guerra, - osservò Saggio Colante, né banchieri né ministri né generali; come potrà questa sfrenarsi? Non è una bazzecola la guerra.
- Ah! sì - conchiuse con un riso silenzioso Verdone. - come se la guerra dipendesse da un ministro, da un banchiere o da un generale! - Sembrò improvvisamente stanchissimo e infastidito. - Parliamo d'altro! o meglio lasciatemi un pò solo: ho bisogno di sistemare poche faccende. Ritornate fra due ore. Verrò con voi dove vorrete.
Quando Baldo Ventarulo e Saggio Colante si trovarono nella strada, questi commentò: - Povero giovane! qualche cosa ha disorientate le rotelline, - e si toccò la fronte; - ha bisogno d'un medico.
- Vedremo di persuaderlo noi. Basterebbe un mese di Albatrillante; ma come si fa a condurlo via? E' sospettoso, irascibile e apparentemente normale.
La pazzia vera, la pazzia lucida.
Quando ritornarono, la padrona consegnò loro una lettera a nome di Verdone, che da più di un'ora era uscito. Egli pigliava congedo dagli amici e specificava: "Mi credete impazzito; eppure sono uno dei pochi uomini rinsaviti nella follia generale. Scappo lontano, perchè il terrore della guerra mi soffoca. Quando il male si scatenerò, ritornerò tra voi per soffrire insieme".

IL CROLLO

A Feralgía si cercava raggiungere le molte mete dalla rivoluzione prefisse. Una soprattutto accendeva d'entusiasmo e d'impazienza i cuori: la possibilità di contemplare la luna. Si lavorava con fervore, ma la luce dell'astro, e per gli edifici di altezza sproporzionata e per la nuvolaglia degli alti forni e per le piazze ancora coperte da tettoie, non brillava rasserenante per i visi che si levavano in alto; e non mancavano con la delusione mormorii ed accuse per gli uomini preposti alle gravi faccende. Si tentò di attutire i risentimenti e sviare un'indignazione concorde col diffondere a mezzo dei giornali voci incontrollabili ed insieme alimentatrici di speranze. Si sussurrava che la luna si fosse soffermata con una stellina, collocata nel mezzo della sua falce, sopra la terrazza d'un mastodontico caffè; che due innamorati l'avessero sorpresa in burlevole apparizione dinanzi i passi cempennanti d'un ubriaco; che sulla piazza deserta del Pterocino si fossero misteriosamente adunati i cani e i gatti di lontane contrade per sbizzarrirsi, al suo apparire, in miagolii ed urli. Ed ai sussurri si credeva perchè a migliaia le speranze erano collegate all'evento ogni giorno più febbrilmente atteso: la zitellona sognava un riverbero per le sue trecce stoppose ed una lucentezza negli occhi per accendere un desiderio od un sorriso nelle bocche trismiche degli uomini; l'impiegatucolo, soffocato da cumoli di carta e dall'acidume dei caposezione, attendeva per costui un rilassamento di nervi e per sé un'accresciuta rimunerazione; lo spasimante un addolcimento della donna spietata; lo strozzino un maggior pullulio di vizio ed una crescita di giovani eredi; gli scrittori ambienti nuovi per scene logore; sarti, calzolai, pasticceri, lustrini, avventurieri, indovini la misteriosa filtrazione di oro nei cassetti anneriti, nelle tasche sdrucite, nelle mani chiudentisi a vuoto... I feralgini si destarono dalle carezzevoli fantasie, non per la caduta dell'astro notturno sulla città, ma per il crescente fragore ed il tuono inconfondibile della guerra.
I cuori agghiacciavano di sbigottimento, le labbra pronunziavano balbettii, e da tutti si cercava la ragione dell'incalzante uragano e come nessuno, pur sapendo, non avesse detto parola. Invece nemmeno quelli che non smaniavano per la luna o che, lontani da Feralgía, avevano agio di contemplare il suo volto immobile e pensoso, della guerra avevano notato un indizio. Gli stessi ambasciatori se ne avvidero, quando l'opera loro, per l'improvvisa circostanza, era divenuta inutile; ed allora scrissero particolareggiate relazioni circa i propositi aggressivi dei nemici e l'implacabilità d'un odio, che non salvava nemmeno le apparenze, e che avrebbe già da tempo operato, se il tatto la frase sibillina la presentazione impacciata del l'ambasciatore A, dell'addetto B, del consigliere C non avessero ritardato l'esplosione. A Feralgìa, per scambievole conforto, si era tutti d'accordo che la nazione assalitrice era depravata, incivile e bestiale nei suoi esponenti, in quei tali cioé che i propri diplomatici avevano frequentato, e quali erano spesso apparsi per amichevoli incontri nelle fotografie dei giornali; ma il giudizio di condanno morale non mutava in nulla situazione: la guerra, non formalmente dichiarata, e già in atto per i preparativi e per la polarizzazione degli animi all'evento spaventoso.
Cursore sembrava un uomo, cui venisse meno l'ossigeno nella respirazione: tutti i grossi Macaristi attendevano suoi ordini; ed egli se ne stava a sentire proposte su proposte con la bocca spalancata, il respiro corto e gli occhi opachi. Vedeva un rovinìo continuo d'industrie e di imprese vicine e lontane, e l'oro, ammassato in tante banche, prodigiosamente liquefarsi, divergere in ruscelli lungo un suolo sabbioso e lì scendere giù giù dileguando per sempre. Di ordini egli poteva, se mai, darne uno solo: raccogliere quell'oro, custodirlo, irrigidirlo, ma dove? se da solo colava misteriosamente fuori dalle casseforti. I ministri, abituati a pensare muoversi e parlare per volontà della Banca, sembravano uccelli costretti repentinamente a voli vorticosi per uno spauracchio improvviso ed a picchiate dolorose contro le gretole d'una gabbia: temevano inoltre tutte le responsabilità, che la complicata macchina di Feralgía poneva per groviglio della loro azione nella forma di governo di libertà incondizionata. Questa poi operava in aspetti contraddittori, fantasiosi e passionatamente ostili nei giornali, nelle riunioni politiche, negli oratori impulsivi e spuntanti impensatamente da turbe sconvolte; ed erano accuse sanguinanti, interviste cervellotiche, rivelazioni di tradimenti inesistenti e finanche avanzate e sconfitte di una guerra non ancora iniziata.
Tante fiammate si spensero improvvisamente per due ordini seguitisi a breve intervallo: il re avocava a sé tutti i poteri militari per la durata della guerra e poneva la stampa sotto il suo controllo. Il re? a Feralgía dal giorno della vestizione non s'era più a lui pensato; e quella improvvisa comparsa, se non rinfrancò gli animi, li calmò nella speranza di uno che desse una spinta ed una direzione qualsiasi: soprattutto i ministri provarono in quelle decisioni uno schiarimento dei loro cervelli annebbiati. Senza il re avrebbero dovuto decidere loro e provvedere allo svolgimento della guerra, sebbene per lunga abitudine di codici di discussioni e di diatribe non solo non avessero pratica di azioni di guerra, ma non possedessero nemmeno la tecnica del linguaggio. Cursore poi, lungi dal sentirsi menomato, in quell'intervento del sovrano vide una possibilità di curare le faccende sue essenziali e di stagnare quella persistente visione di oro squagliantesi. l'unica a soffrire e divenire furente per i provvedimenti sopravvenuti fu Arruffina, più per rabbia contro Cursore ed i ministri che contro lo stesso sovrano. Era abituato dalla fondazione di Feralgía ad essere informata, a dare il suo parere e spesso anche a decidere in faccende di secondaria importanza; ed o ra, per un avvenimento così grave, non solo non si rivolgevano a lei, ma con tutta la sua persistenza non riusciva ad avere idee precise sulle differenti decisioni. Alle volte nella varietà delle notizie, dubitava finanche che la guerra sarebbe avvenuta. I suoi amici non erano pochi né di scarso rilievo (Cursore ed i ministri); ma, a parte la non completa conoscenza delle decisioni sovrane, per non perdere il prestigio, fingevano di non potere confidare gravi segreti o alle parole davano significati sibillini. la stessa Arruffina, che di tale consuetudine soffriva, interrogata da amiche e da persone notevoli, osservava il medesimo atteggiamento per evitare una possibile disistima. Ed era quello il comportamento di quanti si lusingavano di pesare o molto o poco sulle decisioni e sugli apprezzamenti della politica, e dal loro linguaggio nella massa spiravano come da venti instabili le notizie più fantastiche. Era poi venuta la moda di parlare dei re, che dal giorno della vestizione era stato più un mito che una persona operante; e tutti gareggiavano nell'esaltarlo e nel vantare possibilità lontanissime di -relazioni e di passate conoscenze. Da tali vanterie sorse in Arruffina la speranza di attingere notizie alla fonte e di umiliare così gli amici, che finanche a suo riguardo si chiudevano in dignitosi riserbi: Saggio Colante in fondo non era che mastro Cola; e mastro Cola (sebbene ufficialmente risultasse sperduto per scioperataggine) era suo marito; e a Biaccone lo stesso mostro Cola aveva raffazzonato il re e i suoi guerrieri.
Una sera perciò dette ordine alla servitù di dire che non fosse in casa, di non disturbarla per qualsiasi motivo e di non entrare dopo cena, se non per una sua chiamata, nella sala da pranzo, dove si sarebbe trattenuta col marito. Saggio Colante, soddisfatto di ritrovare cibi succulenti, (la cucina era stata preparata con arte), bevve a profusione e mangiò con appetito senza avvertire nel godimento le occhiate amorevoli e le premure di Arruffina nello scegliergli le porzioni. Poi guardò intorno con occhi beati, riempì un bicchierone di vino, accese il sigaro e, sorseggiando e buttando grosse boccate, divenne loquace: - Si è mangiato bene. Mi è parso di trovarmi in una di quelle serate deliziose di Biaccone, quando capitava un buon guadagno, e la sera ci si allargava la pancia con un mezzo capretto peperoni e noci e con bevute di vino, senza bicchieri, nei boccali dal beccuccio levigato e combaciante al labbro. Lo sento ancora discendere il vino gorgogliante e pastoso. Quella sì, era vita! non pare a te pure, Arruffina?
- Certo, qualche ragione tu l'hai, ora specialmente: specialmente con questa guerra...
- Via! la guerra ci sarà? ma non parliamo di argomenti tristi dopo questa cena magnifica.
- E quando vuoi che si parli? In questa caso non si trova mai tempo per parlare delle nostre faccende: sempre estranei, sempre postulanti. Siamo divenuti i servi di tutti.
- Lo dici a me?
- Ma io ho sperato sempre che ti movessi, che ti ricordassi una buona volta che il capo della famiglia sei tu, e che in dati momenti occorre prendere le necessarie decisioni.
- Ah! è così: lascia fare a me. Domani, cara Arruffina vedrai tuo marito: un calcio a mezza servitù; controllate le spese; fuori le pettegole e gli sgorbiacarte che si chiamano poeti. Non ti pare?
Arruffina sorrise con studiata distrazione per avvertire il marito che altro ella intendeva: - Non questo, coro Cola; oppure anche questo, ma ad altro tempo. Ora ci interessa il re.
- Il re? Ma se non è venuto mai qui. Dal giorno della vestizione non l'ho più veduto. Si comincia soltanto ora a parlare di lui. Chi pensava in Feralgía al re? - Colpa tua, caro Cola, perché se tu avessi voluto e volessi ancora...
- Sarà colpa del vino: ti ha un po' ribaltato la testa od ho sentito io male. Non mi chiamo più Saggio Colante ma Cola: beh! il vino svela i falsi. Ma il re! che ho a vedere io con lui? e che colpa ho io se è scappato via da quella marmaglia adunata per la baldoria dei tuoi concetti.
- Quello che è stato è stato. Che io ti chiami Cola... Tu mi permetterai ogni tanto in nome del vecchio amore: qui non ci sente nessuno. Guardati però di rivelarti col nome vero alla presenza degli altri. Non è in fondo il nostro sovrano una tua creatura?
- Mio figlio ora il re!
- Ma sì, ma sì tuo figlio. E' uscito così dalle tue mani, lucente ed armato da capo a piedi. E vuoi che non ti riconosca? Che non porti anche rispetto a mastro Cola d'un tempo.
- Ma quando io lo modellai, era un pupazzo, ed ora è un re.
- Uscì solo lui dalle tue mani? Ora i tuoi pupazzi sono a migliaia tutti viventi. - Non mi riconoscono, non m'hanno mai riconosciuto, in quattro e quattr'otto mi avrebbero fatto la festa.
- Il re ti conoscerò, ti onorerò: egli è il re, non uno della grossa marmaglia. - E chi mi assicura, ora che solo lui conta, non mi faccia fermare a mezza strada, disporre delicatamente una cravattina al collo e za! uno strappo con l'annunzio a Feralgía: "O Macaristi, ho compiuto la vostra vendetta: ho impiccato quel birbante di mastro Cola".
- No, no! assicuro io, non sarà, non sarà mai... - e mastro Cola più che dalle parole si lasciò convincere dal tono flebile, dall'accenno alle lacrime di Arruffina e dalla sua stessa curiosità di vedere a quanta potenza fosse montata una sua creatura; e promise di recarsi al quartiere dei re su nell'alto della montagna, di tentare tutti i modi di parlargli, di sapere da lui che pensasse della guerra, e di porre in chiaro le benemerenze a suo riguardo di mastro Cola di Biaccone, divenuto a seguito di misteriose circostanze Saggio Colante di Feralgía.
- E se il re, dopo avermi riconosciuto, svelerà tra gli ufficiali l'entità mia, porterò a casa le costole sane?
- Vuoi che sia un pettegolo il re come la ciurmaglia degli altri tuoi pupattoli? Basterà che tu gli raccomandi il segreto. Anzi, pensaci bene, potrebbe essere una buona occasione perché io conferissi col sovrano. Studia tu il modo di dirgli che la graziosa Arruffina è in grado di spiegargli le misteriose cagioni perché mastro Cola viva e operi nella finzione di Saggio Colante.
Questi avvertiva che le immagini, per le gustose bevute, gli si aggiravano rapide nella mente; ma percepì distintamente quale garbuglio avrebbe operato Arruffina, se mai chiamata dal re, e decise in cuor suo di non fare cenno né della moglie, né delle ragioni misteriose del suo nome, gli avesse oppur no creduto il sovrano.
Saggio Colante dette ordine all'autista di non allontanarsi dal posto di guardia e di attendere lì il suo ritorno. Egli era stato ammesso a conferire col sovrano nel pomeriggio; ma la strada da compiere non era poca e non tutta percorribile con mezzi celeri. Un soldato lo scortava sin su, per risparmiare il fastidio d'importune fermate e per introdurlo sollecitamente nella tenda reale. Intanto, cammino, gli sembrava che la montagna formicolasse di militari giovani e vecchi parlanti dialetti differenti. Molti non lo guardavano nemmeno, ma gli anziani lo fissavano come un vecchio conoscente e movevano lievemente le labbra per l'articolazione mentale del suo nome: mastro Cola. Per disciplina militare, vedendolo affiancato dalla guida reale, nessuno osava fermarlo. Non apparivano visi contratti ed occhi furibondi! attendevano quasi tutti ad esercitazioni di allenamento e di pratica di armi, come se maneggiassero strumenti inoffensivi o la minaccia di guerra non li preoccupasse. Cantavano; ed i canti non celebravano la ferocia, ma rievocavano episodi di vita comune e giocondità di famiglia e di lavoro: il mazzolino di viole ancora bagnate di pioggia recente e serbato per la bella, i baci scambiati sotto il ciliegio fiorito, l'accorrere festoso del cane al ritorno nella casa paterna, la nonna attorniata nipotini. Ed erano voci fresche, armoniose, spontanee. Saggio Colante pensava intanto al poeta nudo, che sino dal primo giorno era andato via da Feralgía coi re e coi guerrieri, e per costoro aveva colto nell'armonia delle parole la grazia della vita, rinnovantesi negli affetti umani e nella visione della terra.
Il sovrano accolse in piedi Saggio Colante fissandolo con un lieve sorriso di riconoscimento e stringendogli con vigore la destra. Era proprio il San Giorgio scolpito per il pulpito si Macchiadoro: la stessa chioma calante a buccoli sulle spalle, la fronte alta e dominatrice, lo sguardo fisso e la bocca fortemente serrata nell'imminenza della lotta col drago. Saggio Colante invece più fissava, più dubitava se quella fosse la riproduzione sua d'artefice. Tutto si rassomigliava e tutto era diverso: i capelli erano lievemente inargentati, la fronte contratta da un pensiero persistente, e l'occhio alle volte manifestava la dolcezza di un'anima aperto alle rivelazioni umili ed essenziali della vita. Le armi erano poggiate su uno sgabello; su un tavolinetto era spiegata una carta topografica; e nel mezzo del tendone un attendente aveva preparato una cena modesta per due persone.
- Sedetevi, mastro Cola. Cenerete con me: chi sa se ci vedremo ancora.
- Mostro Cola... mastro Cola... - mormorò il vero mastro Cola, - ma sono io! Come conoscete il mio nome?
- E perché piuttosto non dovrei conoscerlo? O debbo io vergognarmi del mio antenato, che tentò di rendermi vigoroso e bello, e se non riuscì a pieno nel fisico, mi dette un animo temprato alla sofferenza?
- Voi non vi vergognate di essere stato un giorno un legno scolpito; ed io... - mostro Cola impallidì, - sono giunto a rinnegare me stesso. Mi faccio chiamare Saggio Colante, e permetto che tutti carichino d'insulti il povero mastro Cola, che era un lavoratore perseverante.
- Per necessità ognuno costruisce o si adotta alla piccola bugia nel caso vostro, o alla grande come in Feralgía da tantissimi si fa. Per vivere nella luce della verità bisogna spingersi alle conseguenze estreme, là dove non si può aggiungere o togliere più nulla.
- Oh! - confessò corifidenziaImente mastro Cola, - ora capisco il detto popolare di Biaccone: tre sono i potenti, il re il papa e chi non ha niente. Ma allora tutta l'opera mia non è stata una menzogna: io ho modellato voi e il povero, che siete liberi e potete vivere nella verità. Che dono meraviglioso la verità! - Congiunta e proporzionata al dolore.
- Il dolore? Per il mendicante sì, ma per voi? col vostro potere e con gli uomini a voi proni?
- Siamo simili, mastro Cola, io ed il mendicante, nella sofferenza, che non ha una comune misura. A lui dal basso ed a me dall'alto le brutture dell'egoismo, dell'avidità e dell'ingiustizia si rivelano nell'essenza immediata; e ci aggiriamo soli di esperimento in esperimento e di contrada in contrada; e tutte le sofferenze a noi si denudano nell'implacabilità e nella cecità delle turbe; e la nostra azione è sempre inefficiente nel combattere il male, il mendicante offrendo a Dio la preghiera per i sofferenti, ed io la vita dovunque il pericolo mi chiami. E spesso il nostro amore è corrisposto con furore distruttivo dalle turbe. Voi non prevedevate ciò, quando mi modellavate.
- Io? ma ero tanto lontano dal pensare al male, che credevo ne esistesse pochissimo sulla terra: il mio, che vedevo grandissimo e quello, che pensavo di eguale misura, di qualche conoscente di Biaccone. Inconsapevolmente ho commesso malestri e danni: ho dato a voi e a migliaia d'individui la sventura. Ma sono incolpevole: credevo di forgiare pupazzi!, ed è scappata fuori... come dirla?
- Non osate! dite pure: la vita. Ma la vita non l'avete infusa voi! Rasserenatevi, mastro Cola: il dolore è l'espressione ed il nutrimento della vita come la linfa delle piante. Donde la vita poi venga e perché venga, non è a me concesso né spiegare né indagare. Ma sul dolore, cui ci si abitua, sul dolore, che ci avvolge come l'aria che si respira, improvvisamente si erge la sofferenza potenziata da milioni di sofferenze: la guerra.
- Odiate voi la guerra?
- Chi non odia la guerra? Ma la guerra esiste: ecco la tragedia. Anche il marinaio non vorrebbe la tempesta; nel mare tuttavia la tempesta improvvisamente si scatena, e l'uomo deve affrontarla per salvarsi. I viaggiatori trascorrono beatamente il tempo prima della bufera, perché non avvertono di questa l'annunzio; ma il marinaio sa. Ed è simile il destino dei re: i popoli vivono talvolta in festa; ed i re vedono i segni precursori e attendono e si preparano all'urto inevitabile. Eppure la guerra non sarebbe, se gli animi si educassero ed amassero la pace; se il comandamento "non uccidere" allontanasse anche l'idea della possibilità dell'uccisione. Quanti lutti e distruzione e sciagure irreparabili con la guerra!
- Voi sapevate...
- Dal giorno che mi ritrassi su queste montagne -. Mostro Cola dinanzi a tanta previdenza si sentì meschino e smarrito, ed ebbe la misura tangibile della suo povertà di mente, non appena gli sfuggì di bocca l'osservazione: --- Se i re non volessero, la guerra non sarebbe -. Scorse un sorriso lievissimo negli occhi del sovrano, poi uno sguardo penoso e pensoso insieme. La voce si velò, come se rispondesse un'anima assente: - Quando nell'autunno inoltrato le gru emigrano, dinanzi ai larghi branchi vi è una di punta, che fa da guida. Un fanciullo potrebbe pensare che, se quella si togliesse, un'altra marcerebbe avanti, e se anche la seconda sarebbe la terza e se la terza, sarebbe la quarta e via via sinché rimarrebbero due, delle quali una piglierebbe il comando. Le gru non emigrano, perché una si pone alla testa, ma perché il corso del sole, che non dipende dalla volontà loro, determina le necessità di clima e di pasto. - Così, anche voi non voleste, la guerra vi sarebbe, perché voi dite che non dipende da voi la guerra.
- E se un re riuscisse per un potere impossibile a sottrarre il popolo suo alla guerra, quando il bisogno della difesa o della conquista è assoluto, opererebbe come una gru-guida che convincesse il branco a non migrare. Nessuna via di scampo: la morte di fame per gli alati, la schiavitù per una nazione. Sono milioni di volontà che precipitano in una massa sola: le ambizioncelle, i piccoli odi, le passioni sfrenate divengono un uragano di sterminio. Si distrugge talvolta in un giorno la fatica di anni; e un furore di follia travolge perfidi e buoni. - Un sorriso improvviso addolcì l'espressione severa del sovrano.
- Via, mastro Cola! voi pensate ai vostri pupazzi, e forse non concepite per loro la possibilità della schiavitù; ma i vostri pupazzi sono entrati nella vita, hanno comune l'esistenza con milioni d'individui, comunque egoisti sono legati ad un destino comune, ed io pure sono legato allo stesso destino; e nessuno si può sottrarre se non disonorandosi. Voi per primo, mastro Cola, non avreste piacere che io, da voi ideato come guerriero impavido, alla prova tradissi il fine, pel quale mi avete modellato. Come mi giudichereste voi?
- Io? io sono rimasto mastro Cola di Biaccone, e le mie creature, divenute libere, vedono più largamente e più addentro di me; sono rimasto com'ero, curioso di sapere. Ecco, la guerra si farà: oramai capisco che nessuno può frenarla perché non sapremo estirpare l'odio di Feralgía e delle contrade nemiche. Ma vinceremo? Acquietatemi l'animo. Vi prometto che non fiaterò comunque mi rispondiate. Parlatemi con sincerità: vinceremo?
- Come re non soltanto dovrò dire, ma gridare che vinceremo; anche il nemico dice che vincerà, e non mentisce com'io non mentisco. Ma come uomo... Sapete da che dipende la vittoria? quando ci penso, avverto l'angusta veduta della mia mente e l'ansiosa preoccupazione dell'avvenire.
- Ma non abbiamo noi più quattrini e maggiore quantità di cannoni e di armi e generali valenti?
- Ne abbiamo; e il successo sarebbe sicuro, qualora riportato a paragoni quantitativi per due o tre fattori. Ma credete che se fosse così, se fosse prevedibile l'avvenire per quantità misurabili, vi sarebbero guerre? Perché Davide oserebbe colpire Golia, quando questi potrebbe schiacciarlo con un pugno?
Davide dovrebbe fuggire; eppure il giovine imberbe affronta il gigante e l'atterra con un lancio di fionda. Le combinazioni sono innumerevoli.
- Come nel gioco.
- Casi innumerevoli come quelle del gioco, ma non casuali: sono collegate ed ubbidienti a milioni di cause precedenti.
- In tal modo, se si vince una guerra, non la vince il re?
- Anche lui vince la guerra, ma con lui i contadini, che hanno coltivato ed operosamente coltivano i campi, gli operai, gl'ingegneri, gli scrittori, i medici, i differenti uomini che compongono una nazione.
- Non comprendo con chiarezza.
- Mi spiegherò con esempi. Per la guerra occorrono ufficiali: ne abbiamo noi e i nemici ma a guidare non sono i tre o quattro generali che prendono la responsabilità dell'azione, ma le migliaia di uomini che inquadrano la truppa. E chi forma e mette in evidenza gli ufficiali? il maestro elementare che educa i bambini, le scuole medie che operano la cernita dei bravi, la società che determina gl'intelligenti. Immaginate le scuole trascurate ed una società fiaccato dalla corruzione e dal nepotismo: ufficiali ne avrete ma indegni, corruttori e mediocri. I loro dipendenti ubbidiranno, ma attenderanno l'ora della ribellione ed opereranno fiaccamente. L'esercito non è composto di statisti e banchieri, ma da uomini semplici, i quali vedono la patria nella cerchia del loro paese, la libertà nella loro vita moralmente ed economicamente tutelata, e l'integrità nella condotta degli uomini premessi alle cariche pubbliche. Gli uomini non ubbidiscono a forze meccaniche, ma ai valori eterni della morale e dell'intelligenza. Finché si vince e tutto si svolge con facilità, un popolo si mantiene riunito; ma la prova terribile è nelle sconfitte, perché per sopravvivere è indispensabile rinvigorire l'azione morale e, se questa difetta, la povertà spirituale accelera la dissoluzione. La pace per tragica volontà umana non è pace, ma preparazione alla guerra; e se la preparazione è stata scintillante nell'apparenza ma corrosiva nell'interno, un popolo precipita nella prova delle armi. Dio è coi forti, si dice, perché la forza di una nazione è nella moralità della sua vita. Un popolo moralmente costituito può essere vinto, ma non sarà mai abbattuto, dopo pochi decenni si rivelerà ricostituito; e popoli apparentemente trionfanti crollano e scompaiono. Come la malattia fisica rode il corpo, così una sola malattia spirituale rovina le nazioni.
- L'ozio.
- Si chiama con nomi diversi e non col vero: è l'ateismo, il disprezzo cioè di Dio e la violazione del suo attributo essenziale di giustizia. Così la sconfitta diviene, punizione d'indegni e alleviamento dei sofferenti per la nuova giustizia del vincitore o cancellazione di tutta una stirpe, quando l'ipocrisia l'avidità il favoritismo hanno spento qualsiasi lume divino. E il legno marcio, che si brucia. Ma quando il vincitore è accecato di furore e travolge e giustizia e lavoro, anche lui precipita nella sua follia.
- La guerra è perduta! - esclamò con voce triste mastro Cola. -Perchè?
- Perché, se Dio è giustizia, a Feralgía nessuno crede più in Lui: uomini che mentiscono, che rubano, che si associano nella delinquenza...
- No! Feralgía non è tutto il reame: questo è immenso. Vedete. - Spalancò il finestrino del tendone ed invitò mastro Cola ad avvicinarsi.
Si levava possente dalla Chiesa, costruita sulla vetta del monte, l'invito della campana al riposo ed alla preghiera della sera. Mastro Cola vide pianure e pianure mareggiare di grano maturo; madri levare in alto i bambini come offerta al Signore; giovani vigorosi domare e guidare cavalli; volti severi di studiosi schiariti dallo sguardo sereno di una giovinezza perdurante. Si rasserenò pensando al pari dei re: "Feralgía non è tutto il reame! ". Poi domandò: - Ma perché col vostro potere non intervenite a incoraggiare i buoni e ad impedire il male?
Il re sorrise bonariamente: - Voi mi avete concepito, mastro Cola, come un santo guerriero e sono poi divenuto un re guerriero, ma con obbedienza allo Spirito Divino. Dio non dotò gli uomini di libero arbitrio? Non saremmo più uomini, se ogni nostra azione fosse regolata da una volontà esteriore. Meglio allora restare come voi ci avete modellati: pupi insensibili e collocabili in un posto o in un altro.
Nell'andar via mastro Cola chiese un consiglio: - Se scoppierà la guerra, come dovrò comportarmi?
- Non occorre domandare come, né io saprei consigliarvi. Vi dirà il vostro cuore; ubbiditegli. Quella voce nei momenti supremi parla al manovale al sapiente, a tutti con verità. Siate uomo, vi ripeto: siate uomo.
Dalla tenda del re mastro Cola si allontanò gravato di pensieri e rassegnato all'ineluttabilità, e quando nell'automobile rapidissima vide apparire Feralgía, mormorò: "Ecco la bugiarda Feralgía, dove io stesso irrimediabilmente mi tramuto in Saggio Colante: si respira e si vive in tanta menzogna, che la realtà stessa, se non è falsata, non è creduta. Tutti parlano di guerra, ma nessuno crede e tanto meno pensa alla sua responsabilità nello spaventoso evento".


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