§ IL CORSIVO

LO SCIALLE DEL SUD




Sergio Zavoli



Mi piacerebbe rendere giustizia a quell'abito nero che ancora rabbuia la contadino, soprattutto del Sud, rugosa d'anni e fatiche. E vorrei saperlo fare oggi. La foggia funerea fa rivivere, a ogni sua apparizione, quel legame tra la donna e la rinuncia da cui il Sud pare non riesca a liberarsi. La triste rappresentazione tuttavia mi è cara: perchè è la stessa che circondò la mia infanzia dentro la grande miseria dell'entroterra romagnolo, è perchè quella lontana divisa della sofferenza qua e là perdura anche dalle mie parti. Non credo che in altri luoghi d'Italia siano vissuti contadini e braccianti così colmi di povertà e di orgoglio, di umiliazione e di rivalsa, come in Puglia e in Romagna. Nati su una terra tutta d'altri, mitiche le città e le fabbriche, distanti i traffici, tranne quelli del piccolo contrabbando, protesi verso l'uva e gli ulivi da una parte, piegati sulla canapa e la barbabietola dall'altra, i "cafoni" e gli "scariolanti" hanno conosciuto lo stesso inferno: quello d'essere nati per lavorare a giornata, e di vendersi al mercato delle braccia nella piazza di Minervino o di Faenza. In Puglia: Gaetano Salvemini, Tommaso Fiore e Giuseppe Di Vittorio; in Romagna: Andrea Costa, Nullo Baldini e Giuseppe Massarenti. Stesse violenze, stessa malaria, stessi santi e lunari dietro le porte; e un giorno vennero i medesimi uomini a cavallo, con il teschio sul berretto o sulla camicia, pronti a domarci. Un editto del 1600, promulgato a Ravenna e fatto volere in tutta la regione, al comma 19 diceva. "Poiché si vede che li contadini vogliono ancor'essi sfoggiare molte cose, il che all'ultimo tende ai danni dei Patroni, si proibisce alle donne contadine di portar alcuna cosa di seta, in specie colorata". Non di rado, soprattutto dove le campagne si inoltrano nelle valli e poi salgono verso i calanchi inerpicandosi sull'Appennino, i resti di quel divieto permangono. Rannuvolate in abiti di cotonina nera, col fazzoletto anch'esso nero sul capo, vivono le ultime ombre di generazioni consumatesi intorno alle "piume", alle anguille, alle frutto e alle vigne: figlie e nipoti di uomini da vanga e da frodo, ma soprattutto di femmine austere e incattivite che, sotto sotto, amarono il Passatore e si batterono per le idee di Camillo Prampolini, di Aurelio Saffi, e di Amilcare Cipriani.
Queste donne prive di ogni diritto e di qualunque desiderio, ingiallite dalla malaria (e dall'aceto e dal tabacco che dovevano tenerla lontana), con l'aria fiera di chi governa la caso in una nascosta e rischiosa scommesso con tutto, indossano oggi l'abito di satin perchè il nero luccichi un pò, senza però lampeggiare come la vera seta: un modo di restare tra il decoro e il divieto. Non è più la rassegnazione di una volta, perchè in qualche modo i derelitti si sono schiodati dalla proprie crisi; semmai è la consapevolezza che qualcosa non va dimenticato e bisogna anzi rammentarlo, a sè e agli altri, persino con l'antica divisa.
In queste donne luttuose la morte appare come lo strappo benefico da una realtà che ha sempre offeso la vita. Per questo, ad esempio, festeggiano da penitenti persino la Pasqua. Per chi è vissuto fuori dal tempo, la morte è il panno nero che ci fa cittadini dell'unica possibile società, quella del dolore. Se la vita è stata già un sepolcro, la Pasqua deve fare i conti con ciò che non si è avverato, con il vuoto patito, con l'identità negata. Il colore di questi panni vuoi dire che i poveri muoiono tutti i venerdì: almeno in Puglia e in Romagna, dove la terra, assai più del mare, ci lascia le lezioni e i riti dell'esistenza.
Adesso sappiamo che il prefetto Cesare Mori, malgrado fosse di ferro, non avrebbe potuto piegare neppure un giunco. Sono passati quasi cinquant'anni -abbiamo imbrigliato l'atomo, vinto la forza gravitazionale, sconfitto una serie di virus - ma la mafia è ancora lì, viva e rigogliosa. C'è di più: a tanti anni dallo sbarco sulla Luna veniamo a sapere che addirittura John Kennedy, il Presidente del "grande balzo", sarebbe stato ucciso da un paio di schioppettate di marca mafiosa! Qui certamente si esagera; ma le morti violente del boss newyorkese Carmine Galante e dell'avvocato lombardo Giorgio Ambrosol, sono stati i segnali autentici di quel gemellaggio a canne mozze che costituisce la più vecchia e la più solidale delle parentele italo-americane.
Limitiamoci a qualche nome che, quanto a origini, non consente equivoci: il "padrone" di New Orleans si chiama Carlos Marcello, Aniello Della Croce quello di Brooklyn, Funz Tieri quello di Boston, Angelo Bruno quello di Filadelfia, e così via. Tralascio i morti, anche recenti - come Carlo Gambino, Salvatore D'Ambrosio e Guido De Curtis - per restare ai mammasantissima ancora in attività. E trascuro il calendario interminabile dei comprimari: la cosiddetta "aria che cammina", cioé la moltitudine invisibile dei portaborse, dei guardaspalle, dei killers.
Qualcuno di questi, ogni tanto, s'imbarca. E' gente attaccato al paese e l'assale la nostalgia. Magari, per pagarsi il viaggio, fa una capatina a Milano e, per non perdere la mano, c'entri o non c'entri Michele Sindona, spara sul suo legale. Siamo un Paese mutevole, ma il legame tra la nostra mafia e le sue propaggini americane è stato mantenuto ben stretto; c'è anzi da supporre che, col tempo, le moglie si siano serrate. E adesso sono di mafia anche vicende non tinte di sangue, ma di quel sudiciume che s'attacca alla cartamoneta e ci suoi orrendi giri. Certo è che il capitolo "dollari sporchi" ha una lontana e comune origine in cose di cui, tanti anni fa, mi capitò di parlare in televisione, sollevando non poco scalpore per la crudezza delle testimonianze e per il coraggio, anche fisico, del testimone.
Michele Pantaleone, allora, era soltanto un "accurato studioso di tecniche mafiose": così accurato, e quindi così scomodo, che le sue indagini su tutte le implicazioni del fenomeno, comprese quelle politiche, lo portarono dritto in tribunale. Oggi, prosciolto da ogni accusa, chissà se ricorda ciò che dicemmo, quel giorno, davanti a quindici milioni di italiani incuriositi e turbati. Sento di dovergli qualcosa - e non soltanto a mio nome - per aver infranto un antico tabù, nonostante il rischio di quel "sasso in bocca" che altri avevano o avrebbero sperimentato.
Pontaleone, quella sera, esordì citando un proverbio: "Solo lu pazzu canta e solo lu pazzu campa". intendeva dire che un testimone, o comunque una persona che rivela fatti di mafia, può parlare soltanto alla condizione che sia pazzo o si comporti come tale. Allora la mafia non ha più interesse a sopprimerlo, perché l'uccisione si trasformerebbe in un immediato e obiettivo riscontro delle verità affermate; mentre, dette da un pazzo, non solo mancano di credibilità, ma screditano chiunque le ripeta.
Rammento che, affrontando il problema dei legami tra mafia siciliana e gangsterismo americano, Pantaleone se ne uscì con un racconto stupefacente: Al collegamento gangsters-mafia risultò chiaro nel 1943. Fui testimone personalmente, a Villalba, quando tre corri armati americani, da poco sbarcati, vennero a cercare Calogero Vizzini. Andai incontro ai carri armati con una popolazione di 400 persone, portando una bandiera fatto di un manico di scopa e di una federa di cuscino. Quando mi trovai a meno di venti metri dai carri armati, una voce dal caratteristico accento siculo-americano mi disse: "Chiamate don Calò Vizzini, chiamate don Calò Vizzini! ". Poco dopo giunse Calogero Vizzini, accompagnato da 200 persone, e si presentò dinanzi ai carri armati. Era presente, ormai, l'intera popolazione villalbese. Don Calogero tirò dal seno un pezzetto di stoffa colar d'oro e lo mostrò al carro armato. Solo allora la torretta si aprì e Calogero Vizzini, accompagnato da tal Damiano Lumìa, vi entrò. Tornò a Villalba dopo sette giorni. Queste cose, ripeto, avvennero sotto gli occhi miei e di centinaia di persone. Immediatamente dopo furono nominati i sindaci di Mussomeli, di Villalba, di Vollelungo. Calogero Vizzini venne nominato sindaco di Villalba. Ma accadde di più: Vita Genovese era l'interprete ufficiale di un gruppo di americani che avevano, a Palermo, il loro ufficio in via Napoli; e Max Mugnani divenne subito depositario, in Italia, di prodotti farmaceutici americani".
Cominciò allora, in quell'Italia che andava cercando l'ago della suo bussola, il nuovo affare mafioso. Che oggi trionfi, dopo aver attraversato più decenni di vita sociale e politica in cui abbiamo inseguito, e per certi versi trovato, una nuova identità, va messo -nel conto di ciò che sarebbe dovuto essere e che, per sciagura, non è stato. Tant'è che siamo ancora qui a parlarne, desolatamente, sapendo che adesso alimento milioni di siringhe, uccidendo sempre più in silenzio e lontano.

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