§ TRA ASSISTENZIALISMO E SVILUPPO

MEZZOGIORNO E POLITICA DI PIANO




Claudio Alemanno



Nelle cronache d'altri tempi c'è un episodio singolare che merita di essere ricordato. Quando Valletta era Presidente della Fiat, si racconta che, ragionando liberamente di investimenti al Sud, disse ad un suo collaboratore: "Non possiamo distogliere energie che sono immagazzinate e possono soltanto qui compiere sforzi creativi..!". Poi scattò in piedi e aggiunse con forza: "Devo raccontarla così!". Ci sembra un episodio significativo, sia per scoprire un inedito Valletta meridionalista sia per capire quanto ostile e condizionante fosse l'alta dirigenza industriale del tempo, decisamente contraria ad avventure fuori porta, al punto da tenere in pugno persino un uomo prestigioso come Valletta.
La progressiva internazionalizzazione dell'economia ha certamente mitigato questa intransigenza della cultura industriale verso approcci con realtà economiche diverse, come quella meridionale. Alla maggiore disponibilità della classe imprenditoriale non sembrano tuttavia corrispondere adeguati strumenti di politica economica di estrazione statale. Nel rapporto tra Sud e crisi italiana si riproducono le perplessità degli Anni '50 in ordine alla qualità della struttura produttiva da collocare nelle aree meridionali. Una cosa è infatti la prospettiva di una industrializzazione diffusa, ancorata alle esigenze tecnicoscientifiche richieste dal modello nazionale che si cerca di accreditare; altra cosa è il perpetuarsi di uno stato di degrado che registra l'isolamento e il declino dei grandi complessi insediati al Sud, a complemento dei quali sono sorte e hanno prosperato soltanto attività tipiche da economia sommersa (calzature, abbigliamento, ecc ... ).
Questa marcia a ritroso del divario in termini qualitativi è agevolmente rilevabile dalle numerose radiografie operate sulla evoluzione più recente dei singoli comparti produttivi. Nel momento in cui al Nord si promuovono processi incisivi di ristrutturazione industriale, si impongono dunque interrogativi legittimi sulla direzione spaziale del futuro sviluppo e sulle opzioni tecnico economiche che in questo senso il Meridione presenta. Da qui la necessità di approfondire il contenzioso aperto dalle Regioni meridionali per agganciare lo sviluppo di queste aree alla tematica della riorganizzazione produttiva posta su scala nazionale. E quindi la necessità di sollecitare l'insediamento nel Mezzogiorno di centri direzionali e di ricerca, che consentano di evitare il prodursi di uno sviluppo calato dall'esterno, sostanzialmente estraneo alle aree d'insediamento, ispirato a motivi (reali o presunti) di provvisorietà.

Altra lacuna rilevante, insita nel divario, è costituita dall'assenza di una struttura produttiva meridionale armonicamente distribuita per dimensioni, settori e territorio. Mancano gli elementi di connessione settoriale dal momento che coesistono industrie primarie, come la siderurgia e la chimica, con imprese a basso valore aggiunto, estranee all'indotto, che peraltro assicurano sostegno reale all'attuale momento dell'economia meridionale. Una realtà bifronte dà volto e significato al tessuto produttivo producendo le contraddizioni imperanti nella delicata situazione di transizione che il sistema attraversa. La vetrina meridionale offre al momento uno strano spettacolo di convivenza tra una fascia cospicua di economia sussidiata ed una fascia rilevante, sebbene minoritaria, di economia sommersa. Ciò suggerisce la necessità di valutare i rischi sociali connessi al perpetuarsi di questo fenomeno anomalo, che vogliamo ritenere estraneo a tentazioni stabilizzatrici.
La difficile lettura dei mutamenti nelle classi di reddito, intervenuti in concomitanza dell'alto grado di inflazione registrato nell'ultimo decennio e non ancora esaurito, propone uno schema di società che muta non secondo rapporti tradizionali di accumulazione, ma per convergenze e compatibilità spontanee, seguendo la logica abnorme del sistema in cui vive. Dunque uno spaccato sociale di difficile interpretazione, prodotto da un inestricabile groviglio di attese esasperate, sovvenzioni, criminalità organizzata, occasioni di lavoro precario, da cui emerge l'assenza di nuclei consolidati nella struttura produttiva. Ciò rende difficile la composizione degli aggregati sociali ed alimenta una conflittualità nuova tra domande e risposte dovute dallo Stato e dalla Pubblica Amministrazione.
Il Mezzogiorno dunque rimane contrassegnato da caratteri omogenei di debolezza, ancorati ad una forma di passività propositiva che tende ad atrofizzare la generale dinamica dello sviluppo. Ne consegue l'obbligo di riaffermare l'elaborazione non di un modello separato ma di un modello unico, a carattere nazionale, entro cui situare le linee d'intervento più idonee a produrre la ricerca di uno sviluppo diffuso. Con il corollario non trascurabile di un necessario coordinamento tra i vari livelli di governo, per rendere praticabile l'ipotesi preordinata e quindi la gestione complessiva ed armonica degli interventi.


Elaborare una strategia per il Mezzogiorno nella crisi della economia italiana è certo una situazione nuova, priva di precedenti sperimentazioni. Finora il modello italiano è stata caratterizzato da uno stato di pieno impiego al Centro-Nord e da un alto tasso di disoccupazione al Sud. Adesso il Centro-Nord registra una rilevante disoccupazione, residua del riordino strutturale dell'apparato industriale, e quindi sollecita una tematica d'intervento per molti versi analoga a quella in uso per i problemi meridionali. Ciò rafforza la necessità di adottare misure globali di politica economica che, nel contesto di una tendenza generalizzata di contenimento dei consumi, diano ampio spazio alle sollecitazioni per gli investimenti.
Alla politica meridionalista si presenta, crediamo per la prima volta nella storia unitaria, l'occasione di legittimare la compatibilità, se non l'identità, dei suoi problemi con quelli più ampi della generale politica economica. Quindi le nuove lacalizzazioni di capitale produttivo al Sud dovrebbero essere pesate non in "aggiunta" al capitale impegnato nel Centro-Nord, ma seguendo un ordine logico degli investimenti, che colloca nel Mezzogiorno la loro maggiore intensificazione in virtù dei fattori d'impiego più dinamici presenti nell'area (maggiore disponibilità di forza-lavoro, minore concentrazione di unità aziendali, più facile accesso ai mercati medio-orientali di recente acquisizione). In quest'ottica, gli strumenti adottati per la politica industriale andrebbero ripensati in modo da evitare situazioni di concorrenzialità o di conflitto nell'uso di fondi disponibili. E quindi richiede nuova attenzione la necessità di contenere il frazionamento dei centri decisionali nell'assolvere il compito di destinazione degli impieghi.
E' pur vero che i programmi per il Mezzogiorno risultano già inseriti all'interno delle procedure e degli istituti della programmazione e quindi trovano inquadramento nel bilancio programmatico pluriennale, nella legge finanziaria e nei bilanci annuali di cassa e di competenza. Ciò tuttavia non risponde con sufficienza ai problemi di coordinamento operativo fra intervento ordinario e straordinario nè garantisce l'assunzione della priorità meridionalistica nella prassi amministrativa. I problemi di collegamento istituzionale rivestono quindi primaria importanza nella messo a punto di un nuovo modello che pretende di gestire lo sviluppo nel medio periodo.
L'obiettivo principale da perseguire resta quello di limitare le misure di assistenza ad aree giudicate senza prospettive per liberare risorse a vantaggio della politica di sviluppo delle altre aree. Va quindi corretta in modo sostanziale la realtà di un Mezzogiorno generalmente assistito, di cui si ha riscontro in numerose analisi economiche. In questo senso saranno determinanti le valutazioni che dovranno essere elaborate in sede regionale con il concorso degli enti minori.
Essendo l'attuale fase del dibattito sulla politica economica centrata sui temi del disavanzo, può sembrare naturale che in una prospettiva di ripresa si tenda ad orientare le risorse secondo disegni di razionalizzazione dell'apparato esistente, rinviando ancora l'impegno per il Mezzogiorno. La logica dei due tempi, questa volta motivata da ragioni di opportunità tecnica più che dalla necessità di colmare un ritardo infrastrutturale, va contestata con argomenti di interesse economico generale. Va segnalato in proposito che i forti differenziali presenti nei livelli di produttività tra settori ed aree diverse costituiscono un fattore rilevante dello squilibrio strutturale, che in qualche misura rende ragione anche degli eccessi nella spesa pubblica. Riteniamo quindi che le condizioni dello squilibrio produttivo non vadano accentuate sotto la spinta delle esigenze di riordino prospettate dalla più forte economia del Centro-Nord, ma vadano invece bilanciate sollecitando le spinte più dinamiche dell'economia meridionale. Questa correzione di rotta dovrebbe essere chiara, tra l'altro, a chi si occupa di valutazioni macroeconomiche, poichè è implicito nella strozzatura considerata l'esistenza di una componente dell'inflazione strutturale. Occorre radicare la convinzione che il perseguimento di politiche strutturali di medio periodo assume importanza decisiva per il riordino globale del sistema e che questo approccio alla realtà attuale non può essere subordinato ad altre misure contingenti elaborate soprattutto sotto la spinta delle esigenze proprie della politica monetaria. La fase operativa dell'indirizzo auspicato richiede comunque una spiegazione dei fenomeni che hanno prodotto la scarsa integrazione tra le realtà locali coinvolte nel processo di sviluppo industriale già avviato nelle aree meridionali. Questo concetto dell'integrazione va proposto e perseguito a tutti i livelli, poichè coglie un momento rilevante delle ragioni che danno corpo sia alla dipendenza meridionale, sia ai difetti più generali di direzione strategica dell'economia nazionale.


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