§ INSTABILITA' E INCERTEZZE NELL'ECONOMIA MONDIALE

EUROPA-AMERICA: AUTONOMIA E COOPERAZIONE NEL RILANCIO DELLE ECONOMIE




Giovanni Magnifico



I Paesi industriali hanno vissuto il primo scorcio degli Anni Ottanta nell'incubo di una nuova "grande depressione". Le aspettative di crescita, che negli Anni Cinquanta e Sessanta avevano alimentato un lungo periodo di espansione economica regolare e sostenuta, erano basate sulla convinzione profonda e generalizzata che i governi fossero in grado di controllare le fluttuazioni cicliche delle economie mediante variazioni della spesa pubblica e dell'imposizione fiscale. Ma quelle aspettative sono state sottoposte a un processo di revisione durante gli Anni Settanta, quando l'economia mondiale è stata sconvolta da prezzi rapidamente crescenti, da forti variazioni nell'offerta e nei prezzi di alcuni beni di base, da persistenti squilibri nei pagamenti, da massicce speculazioni valutarie, da tassi di cambio instabili e da ripetuti ricorsi a politiche di stop-go.
Per oltre dieci anni, la caratteristica dominante dell'economia mondiale è stato l'instabilità; in primo luogo, quella delle variabili monetarie. Gli operatori economici, individualmente e collettivamente, hanno basato il loro comportamento su aspettative d'inflazione; di qui la rincorsa fra prezzi e salari, fra prezzi e tassi d'interesse e fra i prezzi dei manufatti e quelli delle materie prime, in particolare del petrolio.
Questa rincorsa è potuta continuare poichè le politiche monetarie e creditizie sono state accomodanti; un risultato macroscopico di tali politiche è stato lo sviluppo degli euromercati, la cui dimensione è raddoppiata ogni tre anni dalla fine del 1972 alla fine del 1981. Le politiche monetarie sono state accomodanti non perchè non si fosse considerato auspicabile abbattere l'inflazione, ma perchè si desiderava non bloccare la crescita economica in un contesto in cui essa appariva come un obiettivo alternativo alla stabilità monetaria.
L'esperienza fatta con l'approccio di politica economica basato sul trade-off di obiettivi indica che esso tende a perdere di efficacia a lungo andare. Nel susseguirsi di cicli è accaduto che, ad ogni picco, l'inflazione è stata più alta rispetto a quello precedente, l'occupazione più bassa: a ciascun punto di minimo, il rallentamento nella crescita dei prezzi non è stato così marcato come nel precedente, mentre la disoccupazione è stata più alta. Le politiche di espansione monetaria, condotte in larga misura attraverso il finanziamento monetario e quasi-monetario dei disavanzi del settore pubblico, hanno teso a tradursi sempre più in aumenti dei prezzi e sempre meno in incrementi di produzione e di occupazione.
La tendenza del trade-off tra inflazione e disoccupazione a deteriorarsi è continuato fino a sfociare in un processo in cui l'aumento dell'una non serviva a ridurre l'altra, ma entrambe presentavano incrementi concomitanti; sicchè, alla fine, condizioni di "stagflazione" caratterizzavano le economie industriali.
le nuove politiche di stabilizzazione, che i principali Paesi hanno adottato a cavallo fra gli Anni Settanta e Ottanta per uscire da quest'impasse, sono basate invece sulla proposizione che la stabilità monetaria e l'espansione economica non sono obiettivi alternativi eccetto, forse, nel breve periodo. la svolta si è avuta con il passaggio da un approccio basato sul controllo dei tassi d'interesse nominali ad uno monetarista, imperniato sul controllo di una variabile quantitativa; in generale, dell'"offerta di moneta". Nel nuovo approccio di politica monetaria, i tassi d'interesse non sono più amministrati con decisioni, tendenzialmente tardive, delle autorità. Essendo liberi di variare, il loro aumento tende ad anticipare l'inflazione e, quindi, a mantenerla sotto controllo. Nei Paesi ove questo approccio è stato applicato con coerente determinazione, esso è riuscito a debellare la tendenza dei prezzi al rialzo.
Ma le aspettative inflazionistiche di lungo periodo, essendo profondamente radicate a seguito di lunghi anni di espansione monetaria eccessiva e di forti incrementi dei prezzi, ancora persistono; con esse persiste la percezione del pericolo di un riaccendersi dell'inflazione. Questa percezione probabilmente ha indotto le autorità americane a mantenere un indirizzo rigoroso per quanto riguarda il contenimento dell'offerta di moneta, anche dopo che l'aumento dei prezzi e le aspettative inflazionistiche di breve periodo si erano notevolmente affievoliti. Conseguentemente, i tassi reali d'interesse sono rimasti molto elevati, se misurati con riferimento all'andamento corrente dei prezzi, che è ciò che tendono a fare, in queste condizioni, i mutuatari potenziali.
L'alto livello al quale si sono persistentemente collocati i tassi d'interesse reali nei principali Paesi industriali ha fatto crescere l'onere reale del debito. In condizioni di debolezza della domanda e dell'attività economica, ciò ha causato un sensibile peggioramento dei bilanci delle imprese; tale andamento si è riflesso nei conti nazionali, ove il peso dei pagamenti per interessi ha avuto globalmente tendenza ad aumentare a svantaggio dei profitti. Le difficoltà delle imprese si sono ripercosse, a loro volta, sui sistemi bancari, la cui salute non può divergere per un lungo periodo da quella delle economie, che essi servono. Inoltre, i problemi che i mancati aggiustamenti interni e le politiche mai concepite hanno posto, e pongono, ai sistemi bancari dei Paesi industriali sono aggravati dalle crescenti difficoltà dei Paesi in via di sviluppo per quanto riguarda il servizio del debito estero. Alcuni temono che queste difficoltà potrebbero causare danni molto gravi alle strutture bancarie e finanziarie mondiali.
Con queste nubi all'orizzonte economico-finanziario, le autorità monetarie americane, verso la metà del 1982, decisero finalmente di tenere una linea accomodante di fronte all'overshooting dell'obiettivo di offerta di moneta, permettendo quindi ai tassi d'interesse sul mercato monetario di assestarsi fra l'8% e il 9%, da un livello che fino allora si era aggirato intorno al 15%. Questa ritrovata flessibilità nel controllare la massa monetaria ha indotto il campione del monetarismo, il professar Milton Friedman, a sostenere recentemente che le autorità hanno rinunciato al controllo degli aggregati monetari e sono tornate a comportarsi in maniera arbitraria. Ma essa, in quanto ha procurato l'alleggerimento dell'onere reale del debito estero dei Paesi in via di sviluppo, ha evitato che esplodesse una crisi finanziaria internazionale, che sarebbe stata difficilmente controllabile. Può essere interessante notare, al riguardo, che, per Paesi come il Brasile e il Messico, ogni punto percentuale di riduzione dei tassi d'interesse sul dollaro comporta un risparmio valutario nei pagamenti per interessi, che è per ciascun Paese dell'ordine di 800-900 milioni di dollari l'anno; per l'insieme dei Paesi in via di sviluppo, il risparmio si commisura a circa sei miliardi di dollari!
Gli effetti delle misure di politica monetaria e creditizia tendono a travalicare rapidamente i confini politici di sistemi economici aperti. Ne consegue che quelle misure, mentre non possono non essere finalizzate alle particolari condizioni economico-finanziarie del Paese che le adotta, non dovrebbero ignorare il tipo di impatto sulle economie con le quali esso sia integrato. L'obiettivo di conciliare le finalità interne con le esigenze degli altri Paesi assume particolare rilievo nel caso degli Stati Uniti, il cui peso, tuttora molto elevato, sull'economia mondiale fa sì che le loro decisioni di politica monetaria ed economica abbiano effetti di spill-over molto importanti per il resto del mondo. Sebbene la conciliazione rappresenti normalmente un esercizio complesso ed a volte difficilmente realizzabile, le esigenze interne all'economia americana quelle esterne, attinenti alle condizioni dei Paesi terzi, non sono necessariamente in conflitto; anzi, vi può essere una convergenza fra le une e le altre, tale da generare un loro sinergismo a livello delle motivazioni che spingono ad adottare un dato provvedimento. E' questo il caso dell'allentamento della stretta monetaria, avviato verso la metà dello scorso anno, il quale aveva una motivazione duplice: esterna, che è quella testé accennata, ed interna.
La finalità interna aveva obiettivo di abbassare a livelli sopportabili, per le imprese efficienti, la velocità del l'aggiustamento richiesto da una decelerazione dell'inflazione, che è stata più rapida di quanto fosse nelle attese degli operatori e delle autorità. Per valutare il successo ottenuto nella lotta all'inflazione va tenuto presente che, per la prima volta in molti anni, l'economia americana è uscita dalla recessione con prezzi che aumentano a un tasso più basso di quello registrato nella recessione precedente; in altri termini, la lunga tendenza al peggioramento della performance in materia di stabilità monetaria è stata arrestata. La tendenza è ora al miglioramento; se il livello medio dei prezzi sarà mantenuto stabile durante la ripresa dell'attività produttiva e nella fase successiva, in cui l'economia non sarà lontana da condizioni di piena occupazione delle risorse, il residuo problema di credibilità per le autorità monetarie sarà superato e le aspettative d'inflazione a lungo termine potranno finalmente recedere.
La somma dei guadagni di produttività, risultanti dagli aggiustamenti sollecitati da una gestione non inflazionistica della moneta, e il recupero di potere d'acquisto reale, conseguente al fatto che i redditi nominali sono meno falcidiati da un'inflazione in forte rallentamento, hanno stimolato la ripresa dell'attività economica. Nell'ultimo trimestre del 1982 l'economia americana uscì dalla più lunga recessione di questo dopoguerra; nel corrente anno il p.n.I. dovrebbe crescere del 3,5%; per il prossimo anno si prevede che esso aumenti di quasi il 5%.
Una ripresa di questa intensità non può non spiegare impulsi espansivi sulle altre economie; quelli che si dirigono verso i Paesi produttori primari servono a soddisfare, parzialmente, la condizione macroeconomica esterno per la loro solvibilità internazionale, quella interno essendo rappresentato dal processo di aggiustamento che ciascuno di essi deve realizzare per eliminare i fattori di squilibrio nella propria economia. Affinchè la condizione esterna sia pienamente soddisfatta è necessario che la ripresa si estenda all'insieme dei Paesi industriali; ma l'incremento della domanda di importazioni di manufatti negli Stati Uniti sembra riguardi largamente le esportazioni giapponesi e quelle di alcuni Paesi asiatici di nuova industrializzazione, scarsamente quelle europee. E' improbabile che gli Stati Uniti possano svolgere il ruolo di "locomotiva" per l'Europa.
In Europa, si è inclini a pensare che l'attuale politica di stabilizzazione americana celi il pericolo di un global crowding-out, o di spiazzamento a livello planetario della ripresa economica; in altri termini, che l'allentamento della politica monetaria, nell'estate 1982, sia stato giusto sufficiente, oltre che a prevenire il collasso dei sistemi bancari e finanziari, a rilanciare l'attività produttiva negli Stati Uniti, ma non nel resto del mondo. Ad esso il policy mix americano, che continua a sottolineare il ruolo e l'indirizzo anti-inflazionistico della politica monetaria, in presenza di forti disavanzi nel bilancio federale, procurerebbe ulteriori difficoltà in quanto il deflusso di capitali, che sarebbe causato dall'alto livello dei tassi d'interesse americani, ridurrebbe i gradi di libertà per le politiche di rilancio, specialmente in Europa.
Nell'opinione del presente autore, questa interpretazione non rende pienamente giustizia alla complessità dei fattori, interni ed esterni, i quali fanno sì che' le economie europee stentino ora a decollare.
I fattori interni possono essere identificati globalmente nelle molteplici rigidità che tendono a sclerotizzare la struttura della capacità produttiva, del mercato del lavoro, dei bilanci pubblici. Mentre a livello mondiale si producevano forti mutamenti nella struttura dei prezzi relativi, nella composizione della domanda, nella partecipazione dei Paesi di nuova industrializzazione all'offerta di manufatti, in Europa è generalmente prevalsa la tendenza a salvaguardare l'occupazione a breve termine, con la conseguenza che si è mantenuta l'esistente struttura industriale al di là di quanto coerente con un processo di aggiustamento mediamente efficiente.
In Europa (e particolarmente in Italia), purtroppo, i documenti pubblici prodotti per giustificare contributi a fondo perduto, sussidi ed altre spese a carico del bilancio statale - i quali hanno l'effetto di mantenere in vita enti, gruppi e imprese incapaci di reagire alle sollecitazioni provenienti dalla concorrenza e dagli operatori, a monte e a valle dei processi produttivi - testimoniano di un approccio che ha incoraggiato l'inerzia industriale, l'inefficienza e lo sperpero di risorse; queste sono state sottratte alle imprese dinamiche, il cui obiettivo di aggiustamento è stato, in corrispondenza, reso più difficile e più costoso. Per contro, la lettura di qualcuno delle relazioni delle imprese americane ai propri azionisti è sufficiente per rendersi conto di quanto diverso sia stato l'approccio con il quale sono stati affrontati, e in buona parte risolti, i problemi riproposti con impellente urgenza dal secondo shock petrolifero. Negli Stati Uniti ha fatto premio la flessibilità: negli assetti patrimoniali delle imprese, nella struttura e composizione del product mix, nell'organizzazione dei processi produttivi, che si è potuta avvalere sia della mobilità d'impiego della manodopera sia della flessibilità del salario, ossia del prezzo del lavoro, che è sceso in termini reali. Ne è risultata una performance in materia di disoccupazione e di occupazione, che negli Stati Uniti è stata molto meno sfavorevole che in Europa. Negli ultimi dieci anni, il tasso di disoccupazione è raddoppiato negli Stati Uniti, ma esso è mediamente triplicato in Europa, con salti molto elevati in alcuni Paesi (Repubblica Federale Tedesca da 0,8 a 8,0%; Gran Bretagna da 3,2 a 12,0%). Inoltre, gli Stati Uniti sono stati in grado di creare oltre 15 milioni di nuovi posti di lavoro, mentre nell'insieme della CEE la creazione è stata praticamente nulla.
Data questa diversità di approccio in un periodo cruciale per i nuovi assestamenti, che si vanno faticosamente producendo nei grandi settori regionali dell'economia mondiale, si è formato un differenziale di efficienza e di profittabilità, corrente e nelle prospettive di periodo medio-lungo, favorevole all'economia americana. A parere di chi scrive, esso ha un peso nel determinare i movimenti internazionali di capitali che è notevole e, forse, addirittura maggiore di quello attribuibile al differenziale nei tassi d'interesse esistente fra Stati Uniti ed Europa. Il ruolo di quest'ultimo, nello stimolare gli afflussi di fondi verso gli Stati Uniti, è stato probabilmente sopravvalutato; in assenza di prospettive favorevoli economiche e finanziarie, oltre che politiche, sarebbe difficile spiegare perchè esso sia in grado di promuovere spostamenti massicci di capitali. L'esperienza mostra convincentemente che, quando le prospettive sono sfavorevoli, l'aumento del tassi d'interesse e il differenziale positivo, che ne risulta rispetto alle altre monete, possono avere effetti addirittura controproducenti sulla direzione netta dei movimenti di capitali.
Occorre notare, peraltro, che i Paesi europei, opportunamente, hanno evitato di coinvolgersi in una escalation dei tassi d'interesse con gli Stati Uniti. Essi hanno utilizzato gli spazi disponibili negli assetti attuali per perseguire una politica dei tassi, appropriata ai bisogni delle proprie economie ancora in fase di ristagno, riuscendo in tal modo ad emanciparsi, in parte, dalla politica monetaria americana. Nella misura in cui hanno operato una sorta di dissociazione dei propri tassi d'interesse da quelli americani, essi hanno dovuto accettare le implicazioni in termini di tassi di cambio con il dollaro; ma hanno cercato di frenare, il deprezzamento delle proprie monete vendendo dollari. Quindi, gli aggiustamenti richiesti dall'evoluzione del dollaro e, in generale, delle condizioni monetarie ed economiche negli Stati Uniti rispetto alle altre economie sono stati effettuati in parte agendo sulle quantità (di riserve ufficiali, che sono diminuite a seguito degli interventi sui mercati dei cambi), in parte permettendo che l'equilibrio fosse ottenuto attraverso il meccanismo dei prezzi (ossia, lasciando apprezzare il tasso di cambio del dollaro).
Negli ultimi tempi vi è stata, specialmente in Italia, la tendenza a drammatizzare le presunte implicazioni per le economie europee del l'apprezzamento del dollaro. Ma l'allarme nasce da un assunto che, in buona parte, è una fallacia, perchè non è corretto assumere che l'evoluzione dei prezzi all'origine delle materie prime sarebbe la stessa se il dollaro, invece di essere forte, fosse debole. Questo equivale a dire che l'andamento dei mercati mondiali è invariante alla minore o maggiore restrittività della politica monetaria e creditizia perseguita dal maggior sistema economico e finanziario mondiale! è oltremodo difficile immaginare come il prezzo in dollari del petrolio sarebbe potuto scendere in circostanze in cui il dollaro, fosse stato debole. Non è più realistico assumere che, in caso di debolezza del dollaro, i produttori avrebbero almeno implicitamente agganciato il prezzo, per esempio, al marco tedesco, sicchè il prezzo in dollari sarebbe invece salito?
La politica monetaria americana influenza - come si è accennato - l'andamento dei mercati delle materie prime; essa lo fa indirettamente e nella misura in cui gli Stati Uniti, con il peso della loro economia, sono in grado di influenzare, in generale, le tendenze dell'economia mondiale. Invero, i prezzi reali - ossia i prezzi relativi e, in particolare, quelli ai quali le materie prime si scambiano contro manufatti - sono in ultima analisi governati da forze fondamentali, che rispondono all'evoluzione delle variabili economiche reali a livello mondiale e determinano l'andamento delle ragioni di scambio nel sistema del commercio internazionale.
Se questo ragionamento è corretto, in altri termini se le variazioni nei prezzi pagati nelle rispettive monete nazionali dagli importatori di materie prime dipendono, più che dalle fluttazioni del dollaro per sé, dall'evoluzione delle ragioni di scambio, l'argomentazione di coloro che tendono a equare l'apprezzamento del dollaro con l'inflazione importato non ha forte peso; ossia, è modesta la misura di stabilità monetaria, che sarebbe sacrificata, come effettiva conseguenza del l'apprezzamento del dollaro, che la politica di sganciamento dei tassi d'interesse europei da quelli americani contribuisce a determinare. Le cause dell'aumento in monete nazionali dei prezzi all'importazione sono, invero, più complesse e più profonde di quanto ritengono coloro che le identificano nella "sopravvalutazione" del dollaro.
Se l'Europa non può contare per la sua ripresa economica su un ruolo di "locomotiva" da parte degli Stati Uniti, è necessario un coordinamento dei Paesi che sono riusciti a domare l'inflazione, finalizzando al rilancio della produzione e del l'occupazione. Infatti, una politica di rilancio condotta da un Paese, isolatamente, gli causerebbe un peggioramento inaccettabile dei trade-offs tra obiettivi di politica economica; sarebbe, cioè, troppo costosa in termini, per esempio, degli squilibri di bilancia dei pagamenti, che ne deriverebbero. Mentre è opportuno e necessario che Paesi come l'Italia, dove l'inflazione non è stato battuta, continuino a perseguire indirizzi restrittivi, deve essere chiaro che, nei Paesi - RFT, Regno Unito, Olanda, Svizzera - dove l'inflazione è scesa a livelli prossimi a quelli degli Anni Cinquanta e Sessanta, continuare con le politiche disinflazionistiche, fino a poco tempo fa necessarie, vorrebbe dire perseguire politiche in effetti deflazionistiche; ossia, vorrebbe dire aggravare le tendenze recessive delle economie. E' paradossale che alcuni dei Paesi menzionati registrino avanzi dei pagamenti, abbiano una forte capacità produttiva inutilizzata, soffrano di elevati tassi di disoccupazione e, al tempo stesso, trovino difficile realizzare una politica di rilancio e sostegno dell'attività economica. Poichè l'ostacolo forse principale è costituito da disavanzi strutturali del settore pubblico, occorrerebbe una manovra di politica di bilancio diversificata, in grado di conciliare il ripianamento del deficit strutturali con la funzione anticiclica di breve periodo, che quella politica deve poter svolgere. La manovra dovrebbe comportare un taglio immediato del disavanzo strutturale, modificando ove necessario i meccanismi di spesa che tendono a produrlo. Tuttavia, allo scopo di evitare che la manovra di risanamento finanziario a medio termine si risolva in un'ulteriore spinta al ristagno dell'attività economica, misure espansive dovrebbero essere adottate ora, che avrebbero l'effetto di accrescere la spesa e la componente ciclica del disavanzo pubblico. L'andamento dovrebbe essere sufficiente a far sì che l'effetto netto sull'attività economica della manovra di fiscal policy sia espansivo, e non riduttivo.
Sebbene l'incremento del disavanzo sarebbe di natura ciclica e sarebbe accompagnato da un inizio di riduzione della componente strutturale dei deficit, l'ampiezza dell'incremento della spesa pubblica, che questa prescrizione implica, potrebbe comportare il rischio di un risveglio delle aspettative d'inflazione. Potrebbe, quindi, essere opportuno considerare un approccio alternativo, in cui l'aumento della spesa in funzione anticiclica sarebbe minore; ma il taglio nella componente strutturale del deficit, mentre sarebbe approvato subito, a livello sia governativo sia legislativo, troverebbe applicazione a una data futura, per esempio fra 12-18 mesi, in coincidenza possibilmente con una fase di alta congiuntura.
La manovra anticiclica potrebbe riguardare le entrate oltre che la spesa. Essa potrebbe prevedere, fra l'altro, l'ampliamento delle deduzioni dal reddito imponibile dei pagamenti di interessi, avvicinandosi così alla prassi seguita in materia dagli Stati Uniti. Quelle deduzioni consentirebbero di ridurre sostanzialmente il tasso d'interesse reale, al netto delle imposte, per le imprese che fanno profitti; ossia, farebbero scendere il costo effettivo del capitale per le imprese in grado di impiegarlo efficientemente. In tal modo, sarebbe possibile sopprimere le implicazioni negative, sulla propensione a investire, di un livello dei tassi d'interesse nei Paesi CEE, che rimane comunque superiore a quello postulato dall'equilibrio interno, dato che lo spazio esistente per la menzionata manovra di dissociazione da quelli americani è limitato al di là del breve periodo.
Le considerazioni che precedono tendono a mostrare che, se vi è il pericolo di un crowding-out della ripresa europea, esso promana non solo (e forse non tanto) dalla combinazione di politiche e di strumenti adottati negli Stati Uniti e dagli effetti di spill-over che essa ha in Europa, ma anche dalla maniera in cui i Paesi europei affrontano i problemi di medio periodo nelle loro economie e reagiscono all'impatto delle politiche americane. Esse vanno nella direzione di mostrare che esistono la necessità e lo spazio per una politica autonoma, coordinata a livello CEE, finalizzata ad una crescita economica sostenibile nel periodo medio-lungo.
In una fase caratterizzata su scala mondiale da profondi mutamenti alla ricerca di nuovi equilibri, è necessario anche in Europa perseguire politiche strutturali, incluse quelle regionali, che probabilmente rappresentano oggi la dimensione più efficiente di aggregazione macro-economica, con l'obiettivo di promuovere la mobilità delle risorse produttive e la flessibilità del meccanismo dei prezzi. L'ipotesi che in Europa il processo di aggiustamento non sia praticabile al ritmo che gli Stati Uniti si sono imposti non sembra implausibile. Ma se è chiaro che è una questione di ritmo (diverso), dovrebbe essere altrettanto chiaro che in un sistema di flessibilità dei tassi di cambio, com'è quello attuale, esiste lo spazio per accomodare le differenti performances, sopportando costi non esorbitanti, a condizione che vi sia coordinamento in ambito europeo e cooperazione con gli Stati Uniti.
La CEE non dovrebbe deflettere da una politica di incoraggiamento degli investimenti e di rilancio dell'attività economica, anche se questo può comportare un peggioramento delle ragioni di scambio. Le ragioni di scambio di economie, che per un lungo periodo non riescono a recuperare sufficiente dinamismo, sono comunque destinate a peggiorare. Invece, nell'ambito di una politica comunitaria di ripresa della crescita economica, il peggioramento è verosimilmente temporaneo e, per ciascuno dei Paesi membri, più contenuto. In contropartita, la CEE si avvantaggia, nella misura in cui realizzi una politica siffatta, di un'allocazione della domanda mondiale che, in regimi di scambi flessibili, tende a penalizzare i Paesi i quali affidano alla politica monetaria, e in particolare ai tassi d'interesse, il compito di combattere gli impulsi inflazionistici emanati dai disavanzi dei bilanci pubblici.
L'argomento secondo cui l'ulteriore abbassamento dei tassi d'interesse negli Stati Uniti, tale da ridurre il differenziale che farebbe da magnete sui movimenti internazionali di capitali, presuppone una svolta restrittiva della politica di bilancio con un drastico taglio dei disavanzi del governo federale, è probabilmente corretto; sembra, quindi, in linea di massima giustificato l'incitamento che proviene dall'Europa a che gli Stati Uniti agiscano in questo senso. Non altrettanto corretta sembra al presente autore l'aspettativa, che generalmente si nutre di qua dall'Atlantico, secondo cui una volta ridotti i disavanzi di bilancio, il problema del cambio del dollaro sarebbe risolto. Gli è che la riduzione del deficit del bilancio federale libererebbe risorse per le esportazioni, ridurrebbe la domanda di importazioni, tenderebbe perciò a riassorbire il disavanzo della bilancia dei pagamenti correnti: a quel punto, il dollaro non avrebbe più bisogno, per reggersi, di alti tassi d'interesse.
Occorre che gli europei prendano coscienza del fatto che, anche nella presente fase per essi sfavorevole, l'evoluzione dei tassi di cambio risponde in ultima analisi a fattori di fondo, che possono essere influenzati solo mediante misure fondamentali sulle variabilità reali, atte a promuovere il dinamismo delle economie, a generare risparmio, a orientarne l'investimento nelle combinazioni più produttive, ed accrescere la profittabilità degli investimenti. I fattori di fondo sfavorevoli riguardano ciascun Paese europeo, in grado naturalmente diverso; ma nella prospettiva del divario con gli Stati Uniti, il ventaglio delle differenze inter-europee si restringe, al punto da far apparire i Paesi CEE un gruppo in gran parte omogeneo; più omogeneo di quanto generalmente si ammetta. Se essi riusciranno, nell'ambito dei meccanismi comunitari più validi per il coordinamento delle politiche economiche, a ritrovare insieme il sentiero della crescita sostenibile, la Comunità ne uscirà legittimata nella sua sostanza economica.
Intanto, ciò che l'Europa può a giusto titolo chiedere agli Stati Uniti è che la loro attenzione per i problemi del resto del mondo non si estrinsechi in atti concreti e coerenti solo in occasione di crisi incombenti, come in effetti avvenne nell'estate 1982. Anche agli Stati Uniti sono dati spazi per smussare, nella routine di ogni giorno, le implicazioni delle loro politiche per il resto del mondo. Questi spazi esistono nei vari settori, interni ed esterni, della politica di stabilizzazione. Quello che per primo balza alla mente è naturalmente, la politica del tasso di cambio.
Se è vero che a medio termine i tassi di cambio tendono a rispecchiare le differenze nella performance dei vari Paesi per quanto riguarda i fattori di fondo, è altrettanto vero che a breve termine essi possono, sotto l'influenza dei fattori più vari, avere andamenti erratici, capaci sia pure temporaneamente di accentuare oltre misura, o in alcuni casi di rovesciare, le tendenze coerenti con l'evoluzione delle variabili fondamentali. Obiettivo della politica di cambio dovrebbe essere quello di contenere, quanto più possibile, le spinte erratiche, in modo che i movimenti lungo la linea tendenziale, di apprezzamento o di deprezzamento, avvengono con un minimo di deviazioni e di tensioni sui mercati dei cambi.
Ma una politica di non-intervento, come quella seguita dagli Stati Uniti negli ultimi anni, non sembra la più adatta a ridurre l'erraticità. La recente innovazione, che prevede la possibilità di intervenire sul mercato dei cambi per conservarvi "orderly conditions" non sembra un obiettivo ambizioso o soddisfacente per gli altri Paesi. Mantenere "condizioni ordinate" sui mercati significa limitarsi a combattere la volatilità giornaliera e, comunque, di breve periodo dei tassi di cambio. Questo è certo un obiettivo commendevole, e significativo dal punto di vista tecnico; ma esso lascia ancora spazio per i movimenti erratici, a determinare i quali si combina in alcuni casi, come quello del dollaro negli ultimi anni, una molteplicità di fattori i quali alla fine hanno l'effetto di proiettare l'erraticità al di la del periodo breve. Quando l'erraticità si cumula da un periodo all'altro, essa assume - per le conseguenze che ha sulla competitività, sulle ragioni di scambio, sulle politiche di stabilizzazione anticiclica - una rilevanza economica tale da diventare difficilmente sopportabile. Essa può rendere lo stesso obiettivo di mantenimento di "condizioni ordinate" impraticabile; quando l'erraticità cumulativa spinga il tasso di cambio a livelli chiaramente lontani da quello d'equilibrio nel periodo medio, la correzione che, pur tenuto conto degli effetti di feedback presenti in un contesto dinamico, sarà alla fine necessaria, potrebbe essere difficile da effettuare in modo controllato, ossia "ordinato".
L'esperienza finora fatta nel Sistema Monetario Europeo è utile per illustrare quello che una politica di cambio "in positivo" può ottenere. A parere di chi scrive, l'adesione allo SME ha avuto un effetto stabilizzatore sulle aspettative, analogo a quello che l'annuncio di obiettivi di contenimento della dinamica delle variabili monetarie ha avuto all'interno.
Inoltre, l'accordo di scambio SME, pur essendo stato gestito in guisa abbastanza flessibile per consentire gli adeguamenti dei "tassi centrali" coerenti con l'evoluzione delle variabili fondamentali economiche, ha evitato che fattori di breve periodo, accidentali, ciclici o speculativi, avessero un peso sproporzionato sull'andamento dei tassi di cambio reciproci, amplificandone le fluttuazioni. Con questo richiamo, non si intende sostenere che un accordo di tipo SME sia da estendere su scala mondiale. Ciò che sembra possibile e desiderabile, nelle condizioni attuali, è piuttosto un'intesa fra le tre principali aree monetarie - europea, americana e giapponese - che miri a stabilizzare i rapporti di cambio strategici, nella misura consentito dalla convergenza realizzata in materia di prezzi e delle altre variabili rilevanti per l'andamento tendenziale dei tassi di cambio. In altri termini, un'intesa che ci risparmi le variazioni erratiche dei cambi e impedisca che questi ultimi siano più instabili di quanto in effetti necessario.
La riduzione dell'instabilità e dell'incertezza, presenti nell'economia mondiale in misura anormalmente elevata dopo gli andamenti traumatici degli ultimi dieci anni, è essenziale per accrescere la propensione a investire. Quest'ultima, a sua volta, è necessaria perchè la ripresa economica sia sostenibile, a medio termine, negli stessi Stati Uniti. Una ripresa sostenuta aiuterebbe ad evitare che, essendosi finalmente risolto l'incubo di una nuova "grande depressione", le aspettative di lungo periodo si assestino su livelli di attività che comportino un'intollerabile sotto-occupazione dei fattori produttivi.
Affinchè un'intesa sui tassi di cambio sia effettiva, occorre che esso sia sostenuta a livello operativo non solo con interventi sui mercati valutari, ma con tutti gli strumenti disponibili: dalla politica dei cambi a quella monetaria; occorre anche che essa sia sostenuta dalla percezione, da parte dei mercati, che le autorità dei vari Paesi interessati sono convinte dei vantaggi della cooperazione. L'autonomia necessaria per soddisfare l'ordine di priorità fra gli obiettivi di politica economica, che ciascun Paese o raggruppamento regionale di Paesi si dà, è veramente fruttuosa se si esercita in un contesto di franca cooperazione.

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