RICORDANDO ZAPPULLI




Aldo Bello



- E dov'è Matino? -, mi chiese. Glielo spiegai alla meglio. Stavamo all'Harris, piazza San Marco era una cartolina illustrato ed eravamo passati da Hemingway alla Rassegna attraverso la questione meridionale e quella settentrionale, gli strangolapreti e la tisana di papavero, i romanzi di don Mimì Rea e la maschera di Eduardo.
Eravamo? Era! I nostri dialoghi, in realtà, erano un suo interminabile monologo. Ironico e lieve. Elegante. Cesare Zappulli aveva accolto con entusiasmo la proposta di collaborare a questa rivista. Ad una condizione: - Neanche una lira, sennò tronco -, E perché? - Ma perchè, se laggiù fate queste cose, avete del fegato, e questo basta e avanza. Però parlate chiaro: a complicare parole e cose sono già in tanti.
Mandò il suo primo pezzo, e fu una lezione di giornalismo. Come sempre. Parlava agli uomini, e degli uomini, secondo l'antica scuola liberale. Non si rileggeva: - E' come guardarsi allo specchio di sera., porta jella.
Era napoletano nel sangue, nei pensieri e nella genialità. Anche nella saggezza alla rovescia. Superstizioso, baro al gioco, impuntuale con chi gli stava antipatico, fedele e altruista con chi gli andava a genio, di battuta pronto, di nessuna perfidia. Aveva una memoria formidabile (ma per lui ero il matinese, mi aveva cambiato patria) e sapeva usarla smemorandosi, per principio. Un giorno mi telefonò: - Mi hanno eletto al Senato -, disse, e si lamentò fortemente "per questa sciagura". Tenne il primo discorso alla Quintino Sella (ma lui precisò: - Alla Einaudi - e non ammise repliche), tutti si complimentarono, ribattè che si era solo all'inizio, promise sfracelli. E scomparve. Nessuno lo vide più in Parlamento, neanche quando, dopo aver messo in croce un ministro con un'interrogazione, venne il giorno della risposta. Era chiuso in caso (e mentì, negandosi per telefono) a leggere mortali tomi di economia e relazioni e leggi, che poi avrebbe tradotto con tranquillo coraggio per i comuni mortali. Mai faceva una piega, Smagliante nella conversazione, nemico del baronaggio intellettuale, è stato l'economista meno premiato d'Italia, e il meno coinvolto, anzi il più estraneo al sottobosco, il più remoto da retribuitissime poltrone. Volle vivere nel quotidiano, e per questo amò tanto il giornalismo.
Non ha lasciato testamenti. La sua grandissima umanità ha lasciato, la maestria che non fece mai pesare, l'amabilità e il galantomismo. - Due cose bisogna radere al suolo, - mi disse un giorno - la questione meridionale e la speranza meridionale. Con questa roba ci stanno fregando daccapo, quelli che ci chiamano "marocco" e che campano da sempre sulle nostre spalle _ E ce l'aveva a morte con i nuovi ascari, gli yes-men che, meridionali in Parlamento, portavano acqua al mulino degli altri. - Gattopardi, sono, - diceva, senza mai recedere dal giudizio. -Non hanno diritto a Cassazione...
Quando si ruppe la molla, tentò di mettere la morte su una falsa pista, gli era riuscito altre volte. Somigliava a Totò, ma non scrisse alcuna Livella.
Aprì, anzi, un'altra sfida: se la prese con San Gennaro, del quale si dichiarava devotissimo; lo chiamò Santo casinaro, e gli consigliò "un pò di tono, un pò di stile, un pò di meditazione" e meno leggerezza nel far miracoli a casaccio, quasi fosse uno dei nostri, pronto all'"ammuìna". E sul tema ci promise un corsivo: - Per la rivista di Matino? Ma dov'è Matino?
Glielo rispiegai e mi diede un appuntamento: - Prima che sia obsoleto! - disse, giocando tragicamente con le parole. Mancò, per forza di cose. Noi abbiamo perso un amico. E la rivista un altro capitolo. O uno splendido intermezzo.

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