§ FANTASIA POPOLARE

UN GRAPPOLO DI MODI DI DIRE




Ada Nucita



La fantasia popolare dei Salentini è ricca di immagini per definire la realtà di certe situazioni, per cui i modi di dire sono tipiche frasi, battute piacevoli, pungenti, dense di significato, che evidenziano atteggiamenti in ogni evenienza della vita quotidiana e richiamano quasi sempre consuetudini di altri tempi.
E' risaputo che il clima e i luoghi influiscono sui contenuti e sull'indole di un popolo. Così Dante Aligheri parlando della natura fertile della terra disse: "Simile a sè gli abitator produce". L'aspetto tetro e noioso di una compagna selvatica riempie l'immaginazione di idee melanconiche che concorrono a formare un carattere duro, feroce, poco incline all'ilarità. Un paese ben coltivato "produce", al contrario, idee dolci e ridenti che concorrono ad ingentilire i costumi e preparano quell'amenità di carattere, che è il segno di un popolo ben regolato. In tale stato si trovano i Salentini, che manifestano una vitalità remota e complessa, sì che i panorami svariati dei paesi, gli ampi orizzonti - vuoi per terra vuoi per mare - li caratterizzano per il temperamento ilare e per la gran dose di carattere.
In riferimento alla casa, in quanto ricovero dalle intemperie e come fatto spirituale, si sente dire: "L'hannu fatta la casa a ccannizzu" (l'hanno fatta la casa con il tetto di graticci o tegole). Questo ma o i ire è un chiaro accenno alla miseria, riferito a quelle giovani copie che hanno voluto formare una famiglia senza averne le capacità e le possibilità. Un tempo le case avevano il tetto spiovente di canne (Cannizzi = Cannicci) coperte di tegole, dette "limbrici" o "imbrici" di forma concava ed allungati, disposti uno dietro l'altro per favorire lo scolo delle acque piovane.
Un uomo mentre passeggiava, sentì in una casa urla e bestemmie.
Il marito e la moglie - molto giovani - si prendevano per i capelli.
Contrariato da una simile scena, quel passante si avvicinò all'uscio di quella casa e, rivolgendosi al marito, esclamò: "L'hiti fatta la casa a ccannizzu" (L'avete fatta la casa a canniccio).
"None - si sentì rispondere - ete a llammia" (No, è a terrazza).
Rendendosi conto che quel giovane marito non aveva capito nulla, lo mandò a quel paese dicendogli: "Và fatte no cascia". A volte si è costretti a mandare qualcuno a farsi la cassa e seppellirsi.
Seppi più tardi che frequenti erano i litigi tra questi coniugi, non potendo la moglie convincersi della ingiustificata quanto equivoca interpretazione del pattuito: "Panni a Ili uno e lu strumentu" (Un capo di biancheria e lo "strumento") sottoscritto dal suocero.
Effettivamente la frase predetta si presta ad una duplice interpretazione: quella frivola e quella di uso molto comune. Lo sposo, orgoglioso, con maliziosa arguzia chiariva che le sue ricchezze erano il corredo e lo "strumento" necessario per una completa unione matrimoniale. La sposa sosteneva invece che, se anche il modo di dire è equivoco, va considerato per quello che è: un fatto; ne è garenzia lo strumento notarile!
Assistetti ad una zuffa fra due comari. Una di esse con le mani alla cintola e con gli occhi di fuori spifferava ad alta voce sul muso della seconda: "Sutta, lu chiuppu de chiazza... ce focu!" (Sotto il pioppo di piazza ... C e fuoco!), alludendo ai bollenti spiriti di chi per lungo tempo èrimasta "digiuna" pur persistendo un grande appetito sessuale.
L'altra comare, calma e serena, aveva risposto: "Mò minti sale su Ila cuta" (Adesso metti sale sulla coda).
Nelle discussioni delle nostre due popolane non erano mancate le trivialità, accompagnate da gesti che sono tanta parte dei sentimento di ciò che si dice. Per intendere il primo modo di dire, occorre risalire ad una tradizione nuziale di Cavallino, descritta da Sigismondo Castromediano: le spose dovevano passare sotto i rami degli alberi di pioppo, che circondavano la piazza, per recarsi in chiesa; era il rito nuziale. Questo privilegio era riservato alle spose "vestite dì bianco" cioè a quelle "oneste"; le altre si facevano passare al largo. Il motto oggi, pur mantenendo lo stesso significato di un tempo, si usa per qualunque licenziosità e oscenità.
il secondo modo di dire "Minti sale su Ila cuta" va interpretato letteralmente e vuoi significare l'inutilità di certi discorsi, che cadono nel vuoto e non risolvono nulla. Può il sale mantenersi sulla cosa di un animale?
A Castrignano dei Greci si racconta che alcuni devoti non riuscivano a trovare un tronco d'albero pregiato per fare la statua di Sant'Anna.
Alla fine dovettero accontentarsi di un tronco di albero di fico, offerto da un contadino. Questi, in seguito, sicuro della protezione della Santa, andò in chiesa e genuflesso innanzi alla statua così la invocò: "Sant'Anna mia io ho offerto il tronco per la tua statua. Tu procurami la grande letizia di una vincita al lotto, perchè ho estremo bisogno".
Passò del tempo, ma neanche un terno sia pur modesto. Deluso e sconfortato perchè la Santa era rimasta insensibile alla sua invocazione di soccorso, tornò in chiesa da Sant'Anna per una piccola precisazione: "Te ricordu fico, San'Anna mia" (Ti ricordo tronco di fico Sant'Anna mia).
Non poteva il popolo trovare un modo di dire così efficace per indicare i refrattari e gli insensibili, dai quali è inutile sperare qualcosa.
E... buttò via la bambagia da filare ed esclamò: "Martinu, prima ori sacri_ stìa e poi in galleria" (Martino, prima in sagrestia e poi in galleria). E' questo uno dei modi di dire più belli che io abbia sentito, nato dalla fertile inventiva dei salentini, ma non si conoscono le origini. E' un giusto rifiuto di lei a certe pretese di lui: "A ddhu nun è ttou ancora nu mmìntere le mani", che significa: non contare che sopra le cose che si possono ottenere.
La galleria, un tempo, era considerata l'ultima delle stanze di un'abitazione, quella più nascosta e più riservata, dove venivano custodite le cose più preziose. Fuor di metafora, il modo di dire, molto in voga nei paesi della Grecia Salentina, vuole suggerire all'intraprendente fidanzata di persuadersi che non è possibile manovrare in avvicinamento per giungere alla zona proibita della fidanzata, perchè l'accesso èpermesso solo dopo sposati. Il modo èriferito a chi, pur possedendo un bene, è costretto a negarlo.
Un tipico modo di dire magliese per evidenziare eventi favorevoli è il seguente: "L'è binùtu latte e cucchiara" (Gli è venuto più di quanto si aspettava).
Il latte è l'alimento più sostanzioso e nutriente. Il cucchiaio è l'imprevista abbondanza. Il modo di dire, dunque, è riferito a quelle categorie di persone che fanno buoni affari, più di quanto sperassero, e che, avendo migliorato la propria condizione economica, si ritengono socialmente di maggiore riguardo. Essi dimostrano, altresì, il loro sentimento con atteggiamenti di superbia e di pavoneggiamento. Taluni, però, completano il modo di dire casi: "L'è binutu latte e cucchiara a dhu capu de centra" che serve a temperare la volgarità: "capu de cazzu".
E' il caso di affermare che certi modi sorgono e si affemano non si sa come e nel "corso del tempo assumono valore paremiologico".
A volte i modi di dire definiscono aspetti della nostra cultura popolare: tipicizzano l'amara sopportazione della sorte avversa. E' il caso del motto: "Ha' ccappàtu 'na rapesta" (E' incorso in un danno). Chi ha "ccappàtu 'na rapesta" qualche volta ha il conforto di dover incontrare la più solidale simpatia da parte di chi sente prevalere in sè sentimenti umani.
"Rapesta" = disgrazia, danno, grave inconveniente.
Il modo di dire è diffuso in tutti i paesi della provincia di Lecce ed è rivolto a chi è stato vittima di qualche danno. Ma se c'è bisogno di maggior chiarezza, il motto citato equivale a quello più volgare: "Hà ccappatu 'nu cazzu an culu". Non occorre nessuna precisazione e nessun commento: chiaro è il significato. Di questi tempi capitano tante cose impensabili, prepotenze, violenze, proprio tante brutte "rapeste".
Anni or sono passeggiavo a Lecce, con una collega, lungo il Viale degli Studenti. Incontrammo la Giulia, simpaticissima figura leccese, molto nota per i suoi quotidiani battibecchi, "sempre sboccati, talvolta osceni". Assistevamo divertite a delle schermaglie con dei ragazzi impertinenti. La mia collega si avvicinò e minacciò di riferire a "Pacelli" e "ai Savoia" (Casa Savoia, secondo lei, era il rimedio a tutti i mali d'Italia), La Giulia per tutta risposta, con le stesse intenzioni della mia amica le fece; "Stuffusa, nu vvali 'n'angulu alla mmersa" (Smorfiosa, non vali un angolo all'inverso), e la licenziò come si scaccia un gatto, con un preciso gesto della mano. Il modo di dire: "Nu vvali 1 'n'angulu alla mmersa" è rimasto nella fraseologia popolare per indicare gli sfaccendati e, se rivolto ad un uomo, si definisce crudamente la mancata virilità in senso fisico e caratteriale.
I modi di dire che seguono sono connessi al ricordo delle invasioni e scorrerie turchesche nelle nostre terre. Esse hanno dato luogo a numerose narrazioni, a volte immaginose improntate ad un istintivo senso di terrore. Il modo di dire: "Fausu comu paddha de Turchi" (falso come palla dei Turchi) ricorda l'assedio di Otranto del 1480 da parte dei Turchi. Si racconta che una palla di pietra, lanciata dalle bombarde turche, andò a cadere presso la casa di una maga otrantino.
Essa dopo averla incantata, per farne un amuleto a protezione della città, la sistemò in un angolo di una chiesetta. Questa intanto rotolò e la maga predisse una sconfitta dei Turchi. Gli avvenimenti non tardarono a smentire la predizione. Falsi ed ingannatori i Turchi e le loro bombe. A proposito di Turchi, la parola "turco" ha lasciato i suoi influssi nel nostro dialetto. Per canzonare una paura ingiustificata si dice: "Mamma, li turchi".
"Cu, te pìjane li turchi" (essere preso dai turchi), quando si è in collera, allusione al furore di chi veniva catturato dai Turchi. "Turchiceddhu" (piccolo turco) riferito ad un bambino non battezzato. "Mannaggia li Turchi" come per un atto di tolleranza.
Molte parole e locuzioni nella nostra lingua si riferiscono ai Turchi.
Tutto quel che viene dai paesi lontani, specie dall'Oriente si chiama turco. Casi: turchese è la pietra pregiata dell'Oriente; turchino è il colore del turchese; turchinetto è il nome di quella sostanza che le donne usavano per dare una sfumatura d'azzurro alla biancheria. Si noti che il formentone si chiama tuttora granoturco.
Quando si brontola perchè uno non capisce o finge di non capire, si dice: "Ma che parlo turco?" quasi che la lingua turca sia incomprensibile. "Starsene come un pascià" = nel senso di stare adagiato. "Fumare come un turco" si dice dei grandi fumatori. "Caffè turco" delizioso per gli orientali. Nei paesi della Grecia Salentina le donne molto anziane sanno preparare il caffè alla maniera turca. "Bagno turco" caldissimo, praticato dalle signore che temono di ingrassare.
Non mancano curiosità intorno ai turchi: "Fare come quel turco". Sapete cosa fece quel turco? Aveva tante cose da sbrigare, e non sapendo a quale dare la precedenza, andò a letto e dormi come un ghiro. "Sedere alla turca" si dice per assidersi sui talloni. "Mangiare alla turca" mettere in tavola un vassoio dal quale i commensali si servono con un cucchiaio o con le dita.
"Stompaturchi" (Pestaturchi). "Stompu" è il mortaio di pietra per pestare il grano, molto usato dai nostri contadini durante l'ultima guerra per ottenere la farina. "Stompaturchi" è un'ingiuria che sta a denotare l'antico odio ed un istintivo senso di esacrazione e terrore per quella gente.
Ad Otranto quando i ragazzi si danno pizzicotti, dicono: "Te fazzu cu vidi li turchi an camisa" (Ti faccio vedere i turchi in camicia) - deve essere infatti una laida vista - come per dire: "Ti faccio vedere le stelle". Ma c'è di più.
"Se fice prutere lu, va e veni" (Si fece prudere il va e vieni). E' una perifrasi pudica quella del "va e vieni", che si sente ripetere anche dai salentini per indicare il membro virile. Il modo di dire sta a significare: "si lasciò prendere dalla fregola di stuzzicare il cane che dormiva, di provocare il popolo con minacce insensate".
Ricaviamo da uno studio di Soda e Scorcia la spiegazione di questo modo di dire: "Nella fantasia del popolino l'atteggiamento ostile che la Turchia, padrona della Libia, aveva assunto contro gli Italiani, e che provocò l'inizio delle ostilità da parte dell'Italia (1911), fu interpretato come un'offesa alle donne italiane, pur avendo l'harem a disposizione"...
I lutti che ne derivarono sono noti. Come è noto il prurito del "va e vieni" di Adorno nel Paradiso Terrestre. Che dovrebbero pensare i Turchi se sapessero quanto diciamo di loro?
La verità è che tutto il mondo è paese. Non dimentichiamo che la pentola disse al paiolo: "Va più in là che mi insudici". Infatti si dice "Bestemmiare come un turco", quasi che noi italiani avessimo bisogno di maestri in questa materia!

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