§ L'ASSEDIO DI VIENNA

E L'EUROPA USCI' DALL'INCUBO TURCO




Ada Provenzano



I Turchi davanti a Vienna si schierarono il 13 luglio 1683. All'una della notte, l'immensa armata al comando del Gran Visir o primo ministro Kara Mustafà, con i ribelli ungheresi e con gli ausiliari rumeni e tartari, completò l'accerchiamento della città.
L'imperatore Leopoldo I e la corte avevano abbandonato la capitale il 7 luglio, rifugiandosi a Passau, in Baviera. Per una coincidenza del destino, lo stesso giorno, a Passau, un nobile ventenne, di sangue italiano, si arruolava nell'armata imperiale per prendere il posto di un fratello, morto poche settimane prima per le ferite ricevute combattendo contro i Turchi in Ungheria. Si chiamava Eugenio di Savoia, e pochi anni dopo avrebbe preso il titolo e la responsabilità di Capitano Generale delle armate imperiali, che fino al 1680, anno della sua morte, aveva tenuto l'altro dei due maggiori geni militari dell'impero, anch'egli italiano, Raimondo Montecuccoli.
Dal 1680, comandante della piazza di Vienna era Ernst Rudiger, conte di Stahremberg, generale di artiglieria, che alla città, precipitata nel panico, ma ben fornita di viveri e di munizioni in attesa di un esercito di soccorso, seppe imporre la disciplina spietata (la pena di morte punì anche le minime trasgressioni) che permise agli ottantamila abitanti e alla guarnigione di sopravvivere e di difendersi fino all'arrivo dell'armata liberatrice.
L'attesa di questo esercito, che i trattati firmati nella primavera per l'insistenza e la tenacia di Papa Innocenza XI garantivano come ultima sicurezza ai difensori, differenzia l'assedio del 1683 dall'altro, ben più pericoloso, del 1529, quando Solimano il Magnifico, dopo aver preso Rodi e Belgrado, assediò Vienna con un esercito di 150 mila uomini, e fu respinto. Era allora al culmine la potenza della dinastia degli Osmanli che ora, dopo un'avvilente serie di Sultani incapaci, crudeli, rimbecilliti dal lusso e dagli eccessi venerei, cadeva in una decadenza non sempre compensata da alcuni Gran Visir di valore, tra i quali spiccano i due Koprili, padre e figlio, il cui potere precedette quello di Kara Mustafà.
Il secolo e mezzo che corre tra il primo e il secondo assedio è una ininterrotta serie di guerre, armistizi, trattati, cessioni e scambi di territori culminati, nel 1664, nella prima grande sconfitta che i Turchi subirono, a Mogesdorf, sul Raab, ad opera dei Montecuccoli. L'imperatore Leopoldo, entrato in campagna a ventiquattro anni, perchè Montecuccoli comprese la necessità di sostenere Venezia, rimasta sola e ormai stremata dai vent'anni della guerra di Candia, ebbe così la ventura di imprimere la prima spallata decisiva all'Impero Ottomano, la cui avanzata verso il Nord si può sintetizzare in un arco che, salendo dalla costa adriatica poco sotto Fiume, e passando immediatamente sotto Vienna, comprendeva tutta l'Ungheria e saliva, con gli Stati tributari, fino a nord di Kiev, sul Dnieper.
Principale fattore di debolezza del campo cristiano, era quella che venne chiamata l'"empia alleanza" della Francia - che mirava a vedere abbattuta l'Austria per impadronirsi dell'impero - con la Porta.
L'alleanza, che risaliva ai tempi di Francesco I e Solimano il Magnifico, impedì che la pace di Vasvar smembrasse l'impero turco. Fu la potenza degli eserciti francesi, schierati sul Reno, a salvare gli Osmanli. Luigi XIV aveva mandato alla difesa dell'Austria un piccolo stuolo di truppe, che facessero mostra di sè, magari facendosi massacrare come a Candia, mentre teneva l'esercito pronto sul Reno, col calcolo di atteggiarsi poi a salvatore della Cristianità e a pretendere l'agognata corona del Sacro Romano Impero.
Tra le cause locali di debolezza, prima fu l'ostinata persecuzione di Leopoldo I contro i protestanti d'Ungheria e di Transilvania, che fece schierare i perseguitati nel campo turco, offrendo alla Porta l'occasione che aspettava per gettarsi sull'Austria. La ricerca di una soluzione militare a conflitti di potere e crisi interne non è una ricetta nuova, e in più Costantinopoli sentiva crescere le minacce alle spalle, da quando al secondo fronte, rappresentato - come già per Roma - dai Persiani, se ne era aggiunto un terzo, con la Russia.
Le innumerevoli spie turche valutarono perfettamente tutti i fattori di debolezza del campo cristiano, l'esiguità dei presidio di Vienna e la divisione dell'impero, che la pace di Westfalia aveva trasformato in un pulviscolo di sovranità sempre più indipendenti. Non valutarono un fattore spirituale, la tenacia e la preveggenza di Innocenza, papa Odescalchi, il più grande del Seicento. Non agli Inviati e Ambasciatori imperiali, ma agli aggressivi e minacciosi Nunzii mandati dal Pontefice promisero garanzie, interventi e truppe il Re di Polonia, Jan III Sobieski, e i Principi dell'Impero, le cui alleanze, stipulate nei primi mesi dell'83, fecero sì che l'ondata di piena in arrivo trovasse argini, improvvisati all'ultimo momento, ma non cedevoli.
"Quante divisioni ha il Papa?", avrebbe potuto chiedere con disprezzo Maometto IV, precorrendo, nell'errore, Stalin. Fu il Papa che gettò in campo, sospinte dal suono dei suoi sacchi di scudi d'oro romani, le .truppe del Re polacco e del Principi dell'Impero: il ventenne Ludwig Wilhelm dei Baden, figlio d'una Savoia, zia del principe Eugenio, e il ventunenne principe ereditario di Baviera, Max Emanuel, figlio di Enrichetta Adelaide di Savoia, e il Principe Elettore Johann Georg III di Sassonia, e Georg Friedrich von Waldeck.
Per tutta la giornata, dopo il 13 luglio, gli osservatori viennesi, dalle torri e dalle fortificazioni, videro levarsi, nel semicerchio davanti alla città, un'altra fantastica città, di venticinquemila tende turche, cui nelle settimane successive si aggiunse una sterminata rete di camminamenti, fortificazioni campali, postazioni d'artiglieria e trincee. Dai bastioni della Porta di Carinzia, le batterie di Stahremberg aprirono il fuoco.
Così cominciò l'assedio di Vienna, che sarebbe durato due mesi, fino al .12 settembre, quando l'armata di soccorso, con i ventunmila polacchi di Re Sobieski e i quarantacinquemila tedeschi dell'esercito imperiale e dei Principati dei Reich, piombò dalle alture del bosco viennese sull'assediante ormai stanco, infliggendo in poche ore alla potenza ottomana la più disastrosa e sanguinosa sconfitta militare della sua storia.
L'esultanza della Cristianità per la vittoria.. produsse un clima trionfale di esaltazione che si perpetuò per tutto il secolo successivo, nonostante le numerose crisi e guerre.
Il terribile Seicento della fame, delle carestie e della peste, della "Guerra dei Trent'Anni", che aveva spopolato e devastato l'Europa Centrale, il Seicento dell'incubo turco, era finito. Le segrete speranze di Luigi XIV, frustrate per sempre. Era incominciato il riflusso, destinato a compiersi nel 1920, con la riduzione della Turchia europea all'ultimo lembo della Tracia, intorno ad Adrianopoli.
A questo lontano avvenimento Vienna ha dedicato una mostra, nel palazzetto a due piani del Museo Storico. Nulla a che vedere, in verità, con quella che Monaco dedicò, nel 1976, a Max Emanuel di Baviera e al suo tempo, nei due castelli di Schleissheim, che resta la più stupefacente rievocazione del clima di un'età. A Vienna e a Monaco, comunque, numerosi oggetti in comune. Il bottino fu enorme, ce ne fu per tutti e molto ne resta, anche se tanta parte finì dispersa nel corso di tre secoli. Delle tre "bandiere principali" conquistate dall'armata dell'Elettore di Baviera nella battaglia di Mohacs, due furono mandate in dono al Papa, e oggi risultano irreperibili. La terza, che fu appesa come dono votivo alla Vergine nella Cattedrale di Monaco, bruciò con tante altre cose cose nei bombardamenti della seconda guerra mondiale. Oltre che al Museo di Vienna e a quello dell'Armata Bavarese a Ingolstadt, gli oggetti più ammirati appartengono al Museo di Cracovia, perchè il polacco signore della guerra, che tra i molti padri della vittoria assunse giustamente il primo ruolo, si ritagliò, del bottino, la parte del leone. Nel sedicesimo volume della Storia universale, del Cantù, c'è una lettera di Sobieski alla moglie: "II campo nemico con tutta l'artiglieria e sterminate ricchezze caddero in nostra mano. Cacciammo avanti a noi un esercito di cammelli, di muli, di Turchi prigionieri. Lo divenni l'erede del Gran Visir. Lo stendardo che solea spiegare innanzi a sè, e la bandiera di Maometto, di cui il Sultano aveva onorato questa spedizione, mi appartiene".
E' la bandiera rossa, immensa, chiamata Dhu'-l-Faqar, la spada, dal nome della spada d'oro che vi è effigiata al centro, e che ebbe la curiosa sorte di passare da secoli di custodia in una moschea di Bagdad ad altri secoli in un museo polacco. Dal Museo Correr vengono le scene delle battaglie navali vinte da Francesco Morosini, che in questa guerra di riscossa europea tenne la parte marittima e, conquistando il Peloponneso, offri a Venezia un temporaneo sollievo al trauma di Candia. "Non ho veduto ancora tutto il bottino ... Ma quattro o cinque turcassi sparsi di rubini e zaffiri varranno da soli migliaia di zecchini", scrive alla sua "vezzosa e amatissima Marietta" il Sobieski trionfante: "E' impossibile descrivere il raffinamento del lusso che regnava nelle tende dei Visiri. Bagni, giardinetti, fontane, tane di conigli e perfino un pappagallo... In quanto al mio bottino, i capi principali sono: una cintura di diamanti, due oriuoli con diamanti all'interno, quattro o cinque ricchissimi pugnali, cinque faretre sporse di rubini, zaffiri e perle, tappeti e mille altre bagatelle ... Ho una cassettina d'oro pretto, in cui sono tre lastre d'oro ... "
Un casi grossolano attaccamento al .bottino bruto può essere giustificato, forse, per un Re, sì, vittorioso, ma soprattutto Re da poco tempo: dieci anni. I suoi colleghi dinastici salvarono meglio le apparenze, ma non dovettero differire molto nella sostanza se Sobieski, benchè fosse stato il "primo ad entrare nella tenda del Visir", non riuscì a trovare "il suo grande tesoro", verosimilmente soffiatogli da Leopoldo, che come tutti gli Asburgo, era assai più efficiente e capace nel profittare delle bravure e vittorie altrui, che nel procurarsene di proprie. Il tema del bottino merita qualche considerazione. Infatti, fonti settecentesche affermano esplicitamente che "Kara Mustafà prendeva Vienna, se animava i suoi barbari con la speranza del saccheggio; ma per avarizia egli la voleva a capitolazione". Che è come dire: voleva che la città si arrendesse con ordine, per poi ordinatamente farla setacciare a suo vantaggio. Il che gli fece venir meno quell'ardore individuale ("soltanto chi si spinge arditamente innanzi può afferrare qualcosa"), quell'istinto, rappresentato, anche negli assedii, dall'iniziativa privata del soldato, che, moltiplicato per 200 mila uomini, avrebbe costituito la più spaventoso energia che egli potesse scatenare.
Se di questo errore fosse incolpato Kara Mustafà, non sappiamo. Ma forse se la sarebbe cavato con la destituzione, se non avesse tentato di scaricare su altri la responsabilità della disfatta, facendo strangolare, con altri cinquanta ufficiali, tutti superiori, anche Ibrahim, Pascià di Buda, che nella battaglia finale tenne la parte settentrionale del fronte, di fianco al Danubio. La vedova di Ibrahim era sorella del Sultano e riuscì a vendicarsi, persuadendo Maometto IV a mandare al Gran Visir sconfitto il decreto di morte, che lo raggiunse a Belgrado. Il 25 dicembre, mentre i cristiani festeggiavano il Natale della vittoria, Kara Mustafà "ricevette il laccio", come diceva la pubblicistica europea del tempo, e seppe come regolarsi.
Quel laccio, di seta rosa, era in mostra a Monaco, elegantemente annodato, come una cravatta da sera, per la festa eterna, intorno alla base del cranio del Gran Visir, custodito in una teca d'argento e di cristallo. Era, a Schleissheim, il reperto più emozionante, e il più macabro. Quando i cristiani, cinque anni dopo, nuovamente vittoriosi, conquistarono anche Belgrado, i gesuiti si impadronirono della moschea nella quale era custodita la tomba del Gran Visir, e mentre la trasformavano velocemente in chiesa, ne aprirono anche le tombe. Fu così che il cranio di Kara Mustafà, spiccato dal resto del corpo, fu mandato - con un tratto di squisitezza -non proprio evangelica - al Cardinale di Vienna, Leopold Karl Kollonitz, il quale, obbediente ai canoni dell'estetica barocca, di unire in vezzose maniere le meraviglie della natura e le prodezze dell'arte, spedì l'oggetto ad Augusta, la capitale dell'oreficeria e dell'argenteria tedesca, affinchè glielo montassero sopra un elegante zoccolo: nella teca, appunto. Che poi, a sua volta, donò allo Zeughaus, come si chiamava allora il Museo di Vienna, che tuttora lo conserva.

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000