§ UNA PAGINA DI STORIA

L'ALTRA CANNE




Tonino Caputo, Franco Langatta



L'"anno annibalico" è stato solennemente inaugurato a Tuoro, sul lago Trasimeno piccolo e aereo paese umbro prossimo al confine con la Toscana che oggi, non fosse per il gran Cartaginese, difficilmente troverebbe spazio nelle cronache contemporanee. Nel discorso d'apertura al Teatro Municipale, che accoglierà in seguito il centro di documentazione sugli antichi fatti, uno specialista, il professar Giancarlo Susini, Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Bologna, con precisione clinica ha descritto la "choc annibalico" che percosse i Romani giusto duemiladuecento anni fa: la battaglia detta "del Trasimeno" è collocata, infatti, concordemente da quasi tutti gli storici, al 217 avanti Cristo.
Quell'"incursione" in Italia, durata quattordici anni, con la quale Annibale si era proposto di disgregare la prima costruzione politica di Roma, secondo gli studiosi provocò o suggerì una serie di cose che, con il passare dei millenni, sono divenute solo più chiare: la formazione di un primo nucleo di nazione italica e, insieme, ciò che per un pezzo l'avrebbe tenuto in scacco; la conversione dei contadino-soldato in legionario professionista; la vocazione ssionista; la vocazione internazionale di una potenza, Roma, rimasta fino ad allora in limiti provinciali; l'intuizione dell'"Imperium"; la nozione della monarchia universale; il sogno - o incubo - della restaurazione di un ordine universale che non cessa di perseguitare quanti - per meriti, per colpa o per caso - si trovano a dovere assumere responsabilità a livello mondiale.
Questi e altri aspetti della presenza di Annibale il Cartaginese nella Storia saranno del resto descritti in una serie di conferenze e di seminari. "Così -dicono quelli di Tuoro - ne sapremo un poco di più anche noi, che qualche volta ci troviamo in difficoltà con i visitatori venuti qui a cercare notizie di quei fatti".
Ma perché Tuoro? Perché da queste parti, con ogni probabilità, si svolse la battaglia. Il posto giusto per osservare i luoghi è il piazzale all'ingresso del cimitero, sul fianco dell'altura sulla quale sorge il paese. Di là si vede bene la pianura; anzi, una valle (e anche angusta) tra le colline che la chiudono a semicerchio, lanciando qualche sperone all'interno. La piana si apre verso il lago, quasi a perdita d'occhio: il Mommsen, autore della più celebre "Storia di Roma" dell'Ottocento, giustamente si chiedeva come mai i soldati romani si fossero trovati stretti in tutto quello spazio.
Ma Mommsen avrebbe dovuto investigare meglio i luoghi e chiedersi ragione dei nomi per dissipare i dubbi. Innanzitutto, perché Tuoro si chiama Tuoro? C'è chi ricorda un etimo etrusco che indica "altura" e, dopo tutto, qui siamo in Etruria. Ma le alture, qui, sono tante. Perché questa sì, e le altre no? Tuoro indica anche un arnese per pescare, ed ecco che la pista si fa più interessante. Il paese potrebbe avere tolto il nome dall'arnese di quello, o di quelli, che vi abitavano in passato, dedicandosi alla pesca. Tuttavia, si può osservare, il lago è distante, a occhio e croce, almeno un chilometro. Ma una volta non era così. E per sincerarsene occorre scendere un pò più giú: una strada ai piedi del paese reca ancora il nome "Via del Porto". L'aerofotografia ha rivelato che la centuriazione romana finisce giusto contro la strada. Tutto quello che sta più in là, i campi di girasole, la ferrovia, la superstrada, e più in là ancora, il lungolago e l'imbarcadero, una volta erano lago. E Tuoro era a picco sul lago. Non Tuoro che è citato dalla guida dei "Touring", secondo la quale il paese risale al XIV secolo, ma quella citata già in un documento medioevale del 1260.
Le cose si osservano molto meglio dal Palazzo, dove del resto, (e tanto tempo fa), prese l'avvio la singolare indagine che doveva condurre il professar Susini e gli altri studiosi all'identificazione del luogo della battaglia del Trasimeno, la prima catastrofica sconfitta inflitta da Annibale, e dalla quale i Romani uscirono con la precisa nozione che nulla, mai, più, sarebbe stato come prima. Del resto Scipiane (il padre dell'"Africano") solo poche settimane prima aveva avuto qualche presentimento quando, stando al racconto di Polibio (III, 70), aveva tentato di distogliere Tiberio Sempronio dall'affrontare il Cartaginese sulla Trebbia: "Sarebbe meglio, invece, se dedicassimo l'inverno all'addestramento dei soldati; Annibale marcia con professionisti". Lo aveva detto a chiare lettere.
Più che di vera e propria indagine, con ogni probabilità si dovrebbe parlare di ricognizione nell'antichissima viluppo di segreti, legato al Palazzo, e che pazientemente e con prudenza il vecchio conte Teodorico Moretti Costanzi viene tentando di districare, in parte sollecitato anche da qualche prodigio, di cui lascerà a noi la briga di valutare l'attendibilità.
Docente di Filosofia Teoretica, anche lui all'Università di Bologna, parla preciso ed essenziale: "Annibale aveva posto il campo all'incirca sull'altura; sulle colline di fronte, la cavalleria, i Celti, gli astati: proprio dove sorge il piccolo castello; vi nacque una parente nostra, che doveva essere poi madre di Baccio di Fortebraccio". Verrà anche un momento, nel corso di questa visita al Palazzo, in cui avremo l'impressione che il professore si muova, in cima ai secoli, come quei personaggi che appaiono nell'ultimo ricevimento descritto da Proust nel suo libro, sopra gli immaginari altissimi trampoli del tempo, le cui estremità affondino in un remoto indistinto: "Per capire come andarono le cose, tenga sempre presente il racconto di Polibio: la maggior parte dei soldati fu fatto a pezzi nel proprio ordine di marcia. Quando tutta la colonna ebbe superato il Maipasso e si trovava vicino all'antica sponda, gli uomini di Annibale le piombarono addosso: qualche reparto romano doveva essere sparso; altri erano in testa, e cioé i seimila che, combattendo, riuscirono a farsi largo e a sfuggire sulla collina. Si rifugiarono in un villaggio etrusco; assediati a lungo, furono costretti ad arrendersi".
Il Palazzo, chiamato anche nelle mappe catastali "del Capra" e le cui parti, visibili contano almeno sette secoli, sorge contro il fianco della collina che accoglie in cima Tuoro, e quindi di poco si solleva sulla valle. Dice Maretti Costanzi: "Il primo pezzo lo costruì un nostro avo che era notaio in Bologna, Nardo de'Coli. Ecco, nel salone, contro il muro, lo stemma di pietra, dov'è raffigurata un'aquila che allarga gli artigli su due sfere. I miei amici eruditi hanno fatto molte congetture, ma secondo me le sfere alludono al nome Coli, che a Perugia indicava quello che a Bergamo indica Colleoni. Non avevano ancora veri cognomi, a Perugia; e la figlia del Nardo portò quello che era allora il Palazzo in dote a un nobile napoletano, il quale, lui sì, aveva già un cognome, il conte Costanzo, dal quale discendo. Il costruttore del Palazzo edificò, come spesso usava nel Medioevo, sfruttando qualche struttura già esistente, incorporandola, utilizzando altri materiali che potevano giacere intorno: e che cosa poteva esserci, qui, prima del Palazzo?"
Torniamo alla battaglia: perché è necessario tener conto del racconto di Polibio? Perché un'inattesa e insperata conferma viene oggi dalla linea degli "ustrini". Sono delle buche del diametro anche di due metri (profondità tre-quattro metri), che nell'antichità si era soliti scavare nel suolo per bruciare i cadaveri. Anche i Romani vi facevano ricorso, e ne sono stati individuati alcuni nella stessa Roma. Ma le buche puniche, invece che circolare, avevano forma rettangolare; gli "specialisti" cartaginesi, poi, usavano scavare anche un pozzetto laterale per appiccare il fuoco alle cataste di cadaveri e legna.
Una lungo serie di "ustrini", sia rettangolari sia circolari, è stata rinvenuta nella volle che gli abitanti, ai tempi di Giulio II, chiamavano "campos sanguineos", (l'attuale villaggio Sanguineto è arrivato dopo): "Venne a visitarli il Papa, non entrò in casa da noi, ma sostò davanti al grande portale d'ingresso, per ricevere l'ossequio della famiglia. Durava, dunque, la fama di "campi insanguinati" per via della battaglia. Del resto, a me fanciullo i contadini parlavano delle acque del fiume Macerone, rosse di sangue, esattamente con le stesse parole che aveva ascoltato Byron un secolo prima, quando venne qui, nel corso di quel suo viaggio che poi narrò nel Child Harold".
Annibale, vinta la battaglia, doveva eliminare i cadaveri - quindicimila romani, almeno, più alcune migliaio dei suoi - rimasti sul campo. I suoi "genieri" scavarono gli "ustrini" di tipo punico; è verosimile che i prigionieri romani, (circa cinque-seimila), abbiano scavato gli altri; e tutti nei luoghi dove più si ammucchiavano i cadaveri. E' per questo è illuminante il racconto di Polibio: le fiamme si levarono la dove i reparti erano stati sorpresi e macellati nel loro "ordine di marcia".
Ma torniamo al Palazzo, dove sono almeno due "ustrini". Uno è nello spiazzo antistante; ma l'altro, di tipo punico, consolidato con muri (da chi?) è nel sotterraneo del Palazzo, in corrispondenza di una delle due torri che del resto incorpora un manufatto molto più antico e non identificato.
Sorgeva un santuario nel luogo dell'"ustrino"? Poco più in là, sempre nel sotterraneo e in corrispondenza della seconda torre, si apre invece una profonda cavità, questa quasi certamente un luogo di culto: si riconosce la pietra sacrificale, e si riconoscono strutture anch'esse incorporate nella torre: "La mia idea èche il Capra, un altro perugino della consorteria della famiglia, cui il Palazzo passò in uso per un paio di secoli, prima di tornare a noi per via matrimoniale, abbia eretto le nuove parti dell'edificio in corrispondenza di due resti archeologici ancora evidenti ai suoi tempi, verso la fine del Quattrocento. E che cosa potevano essere?"
Ma l'"ustrino" di casa, quello - per così dire - "monumentato", in seguito e in tempi più vicini a noi venne usato ancora una volta. E così attirò l'attenzione del professar Moretti Costanzi. Per farla breve: nel Palazzo, come in ogni antico, nobile palazzo che si rispetti, come in ogni maniero entrato in qualche modo nella storia, si aggira uno spettro. Estraiamo la vicenda dalla reticenza del conteproprietario con molta difficoltà: "Insomma, vedete voi, io vi posso esporre solo i fatti. Tenete conto poi della circostanza che io ho saputo della vicenda solo dopo, molto dopo che avevo osservato io stesso le cose strane". Ha visto lo spettro? "Penso di averlo intravisto".
Verso la fine del XVII secolo, un avo del conte, Anton Maria, relegò nel Palazzo la sorella Veronica che non voleva mandare sposa onde risparmiare, tirchio qual era, la dote. La giovane (aveva comunque quasi trent'anni) tentò la fuga con l'aiuto di un servo, che si era invaghito di lei: ma questi voleva essere compensato subito, "lei immagina come", e al suo rifiuto la uccise. Poi, con la complicità di due compari, gettò il cadavere nell'"ustrino" e lo bruciò.
Lo spettro, sembra, mise sull'avviso Anton Maria, il quale da Perugia si precipitò al Palazzo, convocò nel salone i tre figuri, "ed era solo, pensi al suo coraggio", due ne uccise di spada, il terzo si salvò. Ci fu un processo, nel 1684: l'avo fu condannato a versare alla Chiesa metà del patrimonio e a scontare dieci anni di carcere. Fu persino scomunicato. In seguito, in diversi modi, le pene furono rimosse; il terzo assassino, invece, venne condannato a morte in contumacia.
"C'è il ritratto di Veronica, qui in una stanza, chissà, forse è quello che la tiene inquieta. Glielo fece fare il fratello che la volle ritratta con la spada in mano e con l'armatura dei Cavalieri di Malta". Sta di fatto che, frugando tempo fa nell'"ustrino", si rinvennero le "devozioni" che la povera Veronica portava al collo; e, frugando ancora, fu ritrovato un pezzo di lancia romano, una orribile punta di lancia cartaginese, una punta di freccia, un mezzo elmo romano, un amuleto di vetro, forse di fattura egizia.
Arrivarono, convocati da Moretti Costanzi, gli archeologi; e nel 1959 si incominciò a delineare la teoria che là, intorno al Palazzo, poteva essersi svolta la "battaglia del Trasimeno": fino a quel momento, gli studiosi erano stati sempre incerti, come lo sono ancora, in buon parte, per la battaglia di Canne.
"Ma, lei, il fantasma, l'ha mai visto?" L'ha visto la vecchia governante, appena giunta li: non sapeva nulla della storia, "una signora vestita di nero mi fece cenno di seguirla, io le andai dietro, e giunsi a quel posto, all'"ustrino". Poi andò via, me lo aveva indicato chiaramente. Stranissimo davvero che il conte ve ne abbia parlato".
Ora il fantasma arretra, ed emergono i soldati cartaginesi e quelli romani, con l'aiuto delle scienze archeologiche comparate.
Per i Romani, gli occhi di Annibale erano fiammeggianti, "torvaque oculos sub fronte minaces", scrisse un poeta latino del primo secolo dopo Cristo, Silio Italico. Nel busto conservato al Museo di Napoli, il generale cartaginese ha il volto duro e lo sguardo implacabile. Si sa perché: aveva nove anni quando il padre Amilcare Barca gli fece giurare eterno odio al popolo romano; così tramanda la leggenda. E così fu nei fatti, almeno per gli odiati. Lo scultore ha mantenuto l'espressione, aggiungendo pieghe e rughe (pessimismo? scetticismo?) accanto al grosso naso semita di questo personaggio, definito da Warmington "il più nobile fallito del l'antichità", il grande condottiero che uno storico inglese mise ai primissimi posti nella classifica ideale dei geni militari di ogni epoca.
Che cosa fu la battaglia del Trasimeno, che, con la messa a ferro e a fuoco delle aree attraversate dal cartaginese, costò globalmente trecentomila morti ai popoli della Penisola? Dice Giovanni Brizzi, dell'Università di Bologna, che da poco ha terminato il libro "Annibale: strategia e immagine": "Fu un enorme fenomeno di svolta della storia mediterraneo, dovuto essenzialmente alla seconda guerra punica, quella detta, appunto, "annibalica". Lo scontro fra due superpotenze dell'epoca. Un immane conflitto, che per le popolazioni italiche si trasformò in un incubo di proporzioni tali, da innescare irreversibilmente la psicosi dell'aggressione nei Romani".
Prima della guerra, Roma aveva avuto un concetto delle relazioni internazionali fondato su valori astratti (il giuramento, il patto ... ): coagulandole attraverso un'accorta politica matrimoniale, aveva attirato a sé le classi dirigenti della Penisola. Campani, Etruschi, Umbri, Volsci, Sabini erano così diventati "cives romani". Insomma, Roma aveva trasformato un rapporto tra individui in relazioni internazionali. Tutto si era basato sul concetto di "fides", vale a dire sul rispetto di un rapporto fra classi aristocratiche, le uniche ritenute in possesso di una sufficiente coscienza politica. Dopo lo "choc annibalico", e anche dopo la vittoria contro Annibale, Roma trasformò questa impostazione. Annibale aveva dimostrato di possedere un'efficace educazione, prevalentemente ellenistica. I Romani assimilarono la lezione. La Grande Paura, da elemento negativo, si risolse in un elemento positivo attraverso la "dissuasione": l'apparato militare come forza deterrente, con il corollario della coercizione diplomatica. Nacque la teoria, trasformata in pratica, della "pax" intimidatoria, della pace imposta con ogni mezzo.
Il sistema romano riteneva sacre e inviolabili le frontiere dell'impero, non solo per patriottismo latino e/o sovranazionale, ma anche perché quell'impero si riteneva diverso, unico portatore di verità, di morale, di valori universali. Un concetto che racchiudeva implicitamente il "complesso del l'accerchiamento". Per non finire in una "sacca mortale" era necessario reagire: rispondendo con la forza. Il concetto del l'accerchia mento nacque precisamente con la disfatta del Trasimeno. E' l'analisi di questo periodo (dal 218 al 202 a.C.: sedici anni di violenze e di distruzioni, di battaglie diplomatiche e di sconvolgimenti sociali) porta in luce fenomeni decisivi: lo scardinamento delle strutture economiche; la creazione - da parte di Roma - di un esercito non più temporaneo, mosso dall'"ethos" (questione morale, la lotta contro Annibale), ma praticamente professionale, con lunghe ferme e con capi di carriera.
Mutano geografia dei costumi e paesaggio sociale. Mentre le armate cartaginesi scorazzano e depredano, crolla la piccola entità poderale, si estende il latifondismo, si sviluppa la pastorizia, e con essa cresce il volume di affari legato all'allevamento. I contadini proletari diventano manodopera a buon mercato. La seconda guerra punica è catastrofica: più di 400 città vengono distrutte. Le campagne diventano pericolose, passeranno decenni prima che ci si posso avventurare senza rischi: gli esuli, gli sbandati, i fuggitivi che vagavano per sopravvivere, formarono pericolose bande di briganti. Dopo Annibale, il soldato proletario diventò una clientela militare. "Prima il soldato-contadino aveva qualche cosa da difendere: la propria terra. Combatteva fino all'ultimo sangue contro l'invasore cartaginese, contro il suo esercito mercenario, perché combatteva sulla porta di casa. Dopo, per garantire sicurezza ai confini e "pax" all'interno, i Romani dovettero mantenere truppe stanziali"
Su tutto questo il condottiero cartaginese passò come un ciclone. Fu l'inventore della guerra-lampo, tant'è che uno dei modelli della scuola tedesca di "blitzkrieg" fu proprio la battaglia di Canne (i Romani vi persero 25 mila uomini, altri 10 mila furono fatti prigionieri). Prima di valicare le Alpi con il suo addestratissimo esercito (30 mila uomini, suddivisi per contingenti nazionali, ma legati al condottiero da una straordinaria devozione), Annibale si informò scrupolosamente dei nemico. Fu, anche in questo, straordinariamente moderno. Per Cartagine lavoravano i mercanti punici, i "Guggas" che facevano la spola dall'Italia alla Spagna. E, in Spagna, padroni erano i Barca. Si trattava di una preziosa rete di informazioni sulle capacità logistiche e strategiche del futuro nemico. Inoltre, per mezzo di emissari celtici e gallici, il generale cartaginese avviò una sistematica opera di sovversione fra le tribù cisalpine, che mai sopportavano l'egemonia romana. Nulla fu lasciato al caso. Il genio di Annibale si manifestò soprattutto nei particolari. la sua stessa figura "eroica" venne esaltata al massimo: la traversato delle Alpi fu oggetto di ammirazione, sebbene - osserva Polibio - molte tribù galliche avessero fatto altrettanto. La novità consisteva ne otto che, per la prima volta, era stata effettuata dall'esercito di una nazione "civile".
In questo quadro mitologico si inserirono gli elefanti, elemento di dissuasione, più che di reale efficienza militare: morirono tutti di stenti e di freddo; l'ultimo, il leggendario Surus, di cui parla Plinio come dei "più valoroso elefante di tutte le guerre puniche", si prese la malaria attraversando le paludi appenniniche.
Annibale si sentì investito dal destino degli dei: "Dal giorno in cui fu proclamato generale ( ... ) si comportò come se non la Spagna, ma l'Italia gli fosse stato assegnata per sua provincia", notò Tito Livio. Era il culto della personalità. Così nacque il mito del novello Eracle Nelqart, personaggio fenicio che dalla Penisola lberica arrivò in quella italiana, esempio di sincretismo fra divinità greca e fenicia. Il generale favori la costruzione di un suo alter-ego sovrumano. Roma stesso lasciò intatta la leggenda: tanto più forte era l'avversario, tanta più gloria per chi era riuscito a sconfiggerlo.
Ecco allora che, nella memoria popolare, Annibale indossa la pelle del leone, impugna la clava (Ercole), giustifica il suo ascendente sull'esercito perché " ... era il primo a mettersi in marcia, sia piedi sia a cavallo; si gettava per primo nella mischia, e si ritirava per ultimo dal combattimento". E' sempre Tito Livio a narrarlo. Pregi (probità, sobrietà, sicurezza, genialità militare), cui si contrappongono difetti di bibliche proporzioni: "Una crudeltà inumana, una slealtà peggio che punica, nessun rispetto per la verità; egli non teneva nulla per sacro, non aveva alcun timore per gli dèi, non era trattenuto né da giuramenti né da scrupoli religiosi". Non faceva prigionieri, li eliminava.
Eppure, fu proprio da lui che i Romani ereditarono nozioni militari e strategiche di grande rilevanza, soprattutto per quanto riguardava l'uso spregiudicato della cavalleria (l'arma trionfale di Annibale) e della fanteria (maggiore mobilità e unità altamente specializzate). Grazie a lui, Roma capirà che non contava tanto la potenza militare in sé, quanto l'opinione che l'avversario si formava della altrui potenza.
Personaggio romantico, ma perdente: gigantesca figura d'eroe, ma vittima della "hybris storica" e della malvagità dei suoi nemici, secondo tanta agiografia del secolo scorso. Un condottiero che avrebbe potuto piegare Roma, se non si fosse scontrato con il particolarismo delle municipalità, con la miopia mercantile e con certi egoismi (il caso di Capua, che lo accolse ma non lo aiutò in concreto). In questo, Annibale incarnò perfettamente "colui che prende la Storia per la coda ed è capace di fermarla", secondo un'antica definizione greca. Beffarda conclusione per un genio che condizionò la Storia: ma non nel senso che avrebbe voluto.


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