§ REALTA' E LEGGENDA

LA VALLONEA




Nello Wrona



Nel bacino del Mediterraneo è l'ultimo esemplare ancora in vita; in tutto il mondo uno dei pochi sopravvissuti. L'azione del tempo, il disinteresse dell'uomo (giustificato, se non addirittura determinato, in questo caso, dal progressivo venir meno, per strangolamento dei mercati interni, delle arcaiche attività salentine), l'ingratitudine della specie ("che non ha saputo ricordare! O grossolanissimo popolo che massacra i benefattori", Ronsard) hanno decimato, lentamente e senza appelli, i boschi di querce del Basso Salento. Ultimo sacerdote, per un sacrificio ancora senza vittima, la quercia Vallonea di Tricase.
Scientificamente conosciuta come Quercus aegilops (1) subsp. Macrolepois, in vernacolo tricasino "Pizzofao", la Vallonea affonda le radici nella stessa oscura storia che, tra leggenda e realtà, ha scritto pagine di difficile lettura sui misteri dei dolmen, dei menhir, delle "specchie" salentini.
Chi la vuole importata, tra il X e l'XI secolo, dalle comunità di monaci di S. Basilio (ai quali si deve, tra l'altro, l'introduzione dei caratteri di predisposizione attiva dell'anemia mediterranea o talassemia) che, provenienti dall'Asia Minore, si stabilirono nel Sultano per sfuggire alle persecuzioni ottomane.
"La leggenda vuole, anzi, che a portarla fu proprio la comunità basiliana di S. Nicola di Càsole presso Otranto, la quale, costretta ad abbandonare l'Asia Minore perchè perseguitata dal Sultano di Costantinopoli, nella fuga, essendo priva di vettovaglie, sostituì a queste dei sacchi di ghiande, caricandole sui velieri. Le ghiande, infatti, col loro sapore dolciastro un pò simile a quello delle castagne, dovevano servi re per cibare gIi equipaggi durante la traversata ... " (2). Chi, invece, ne afferma la provenienza greca o albanese, per via delle marcate similitudini (orografia, geologia, etnologia, vegetazione spontanea, erbacea ed arborea) che accomunano il Salento alle vicinissime regioni dell'Oriente; chi, infine, la ritiene originaria proprio di Tricase, distinguendola da altre specie importate dall'Epiro.
Se le sue origini si disperdono, comunque, in giochi di sovrapposizione, o di innesto, tra storia, realtà e leggenda, la sua età è un dato accertabile e accettato dai botanici: ottocento anni, prima ancora dell'era dei Comuni, dei versi di Dante (3), delle prime intuizioni in campo scientifico. Federico Il e i suoi falchi cacciarono sotto le sue fronde, l'arte del pelacane nacque dalle sue ghiande, il pregiato "marocchino" dalle sue cupole.
Formidabile cattedrale della natura, albero di Giove, già ricompensa agli eroi, poi cibo per l'uomo (4), la Vallonea domina con i suoi 15 metri di altezza a 4 di circonferenza al tronco (per una proiezione di ombra di 40 metri) la strada che da Tricase scivola snella verso il mare. A vederla, oggi, sembra il relitto di una storia ormai compiuta e cancellata dall'asfalto e dal cemento. Ma, fino al secolo scorso, la quercia era fonte di vita e di lavoro per l'artigiano di Tricase, elemento insostituibile nella lavorazione delle pelli e degli scamosciati, che i libri di ieri e la memoria dell'uomo di oggi chiamano "l'arte del pelacane" (5).
Le origini di questo mestiere sono forse più antiche dello stesso albero: "Dell'anno 924 fu rapporta dalle nostre storie la presa di Oria, fatta da' Saraceni, ed all'anno 927 l'altra di Taranto dopo valorosa difesa: ... una prova convincentissima si è il conservarsi tuttavia tra di noi molti vocaboli d'arti e di mestieri, d'origine affatto araba. La sola arte del pelacane, che sovramodo fiorì tra di loro nei vecchi tempi, singolarizzandosi intra tutte le altre nazioni nella maniera di preparare i cuoi degli animali, anch'essa ce ne somministra dell'ulteriori riprove" (6).
Fin qui lo scritto dell'Orlandi, che propende per l'origine araba della concia delle pelli, e, quindi, per una successiva introduzione di tecniche più avanzate di lavorazione nel Salento mediante le invasioni dal mare. Continua, infatti, l'agronomo tricasino: " ... Il marocchino, il cordovano, il bazano sono nomi di animali conci, che non d'altronde ci sono venuti dagli arabi, da' quali forse ancora ci sarà trasfusa la maniera attuale di conciarli.... sicchè se non dobbiamo a' Saraceni l'introduzione dell'arte del pelacane tra di noi, dobbiamo ai medesimi la miglioria e la preparazione della stessa... che ben ricade ai tempi dell'immortale Federico II" (7).
Se è logico concludere, a questo punto, che l'arte della concia delle pelli fu importata dall'Arabia, con le tecniche proprie dei paesi orientali, èaltrettanto giusto domandarsi perchè tale attività si radicò proprio a Tricase (estendendosi poi a Maglie, Galatina, Minervino), facendo del Pelacaj (o Gallicaj) (8) un artigiano unico nel suo genere e ricercato per la perfezione del suo lavoro. La risposta è da ricercare nella presenza, a Tricase, di due elementi fondamentali per la tecnica del cuoio: il mare e la quercia Vallonea.
La vicinanza del mare (appena a quattro chilometri dal centro urbano), e l'abbondanza quindi di cloruro di sodio, permetteva al conciatore di immergere le pelli in vasche naturali, scavate nella roccia e ancora visibili nel porto (erroneamente si ritiene che le strutture quadrangolari che incidono e spezzettano il paesaggio della marina siano il risultato dei prelievi di blocchi per la costruzione dei muraglioni portuali). L'alta e la bassa marea, con ritmi periodici e uguali, completavano l'opera. Il deposito del sale non era, cioè, regolato dall'uomo, ma direttamente dal mare, e allo stesso movimento dell'acqua veniva demandato il ricambio (flussi e deflussi) dalle varie vasche.
La quercia Vallonea, d'altra parte, forniva con le sue galle e la sua corteccia, il tannino (sostanza bianca, amorfa, solubile nell'acqua, normalmente definita acido di quercia) che, combinato con il derma della pelle da trattare, rendeva il cuoio robusto (tanto da resistere anche all'arma bianca) e, nello stesso tempo, elastico e flessuoso.
La presenza delle querce vallonee era di importanza decisiva: evitava al pelacane l'importazione delle galle da altri Paesi (soprattutto dall'Oriente; la sola Smirne ne esportava annualmente più di due milioni di chili, pur avendo le sue galle una percentuale di tannino nettamente inferiore a quelle della Vallonea tricasina), con un evidente risparmio di denaro e di tempo (9). Ma permetteva, parimenti, di ottenere pelli più pregiate con un gradevole profumo di cuoio. Parlando di esse l'Orlandi avvertiva che "non apestavano del puzzo intollerabile, costavano meno della metà rispetto alle similari prodotte altrove e senza che il nostro delicato olfatto restasse offeso da noioso lezzo".
In effetti, "quelle d'importazione (nordiche ed inglesi in particolare) venivano trattate con grassi animali, specialmente di pesce, di balena, merluzzo, sardine, foche, mentre nel trattamento di quelle di Tricase venivano adoperati olii essenziali vegetali, provenienti dalle essenze aromatiche spontanee della bassa macchia mediterranea: esse, quindi, erano profumate" (10).
Quella che richiedeva l'intervento della galla falamidea era, però, una soltanto delle tante fasi di lavorazione del cuoio; l'intero processo era articolato e complesso, diviso in fasi, rigorosamente selettivo.
Le pelli, private delle parti inutili (unghie, corna, peli), venivano immerse in un primo bagno di acqua fresca, per un tempo non inferiore alle due settimane. Quindi, tosate di tutti i peli e scarnate con il raschio. Conclusa la prima fase, la pulitura veniva completata con un secondo bagno, questa volta in calce, che permetteva la facile eliminazione dei peli ancora rimasti. Siamo ancora alle operazioni preliminari, che vanno sotto il nome di curatoria (11). Un terzo bagno, con escrementi stemperati nell'acqua (sterco di cani, piccioni, galline), preparava le pelli alla concia vera e propria, dopo l'asportazione degli ultimi residui di calce e di grasso. E' il momento della concia vegetale, detta tannaggio (o blanqueria, dal provenzale blanquero, conciatore), con l'impiego della mortella, mirto, particolarmente rigoglioso nella macchia tricasina, dal gradevole profumo, e delle galle della Vallonea ridotte in polvere. Il tannino trasformava la pelle in cuoio, dal colore nero e dal sapore acre e amarognolo. L'esposizione al sole completava il ciclo delle operazioni.
Come si vede, la galla falamidea occupava un posto di primaria importanza nella lavorazione; rappresentava il trait d'union tra pelle non lavorata e cuoio rifinito, e, quindi, un momento ineliminabile nel complesso dell'attività del pelacane.
La varietà delle pelli lavorate è, per il tempo, notevole. Si passa dal marocchino (chiamato anche pelle turca), cuoio fino e molto morbido, per il quale si utilizzavano le pelli delle capre e dei becchi, al bazano ricavato dal pellame di animali di modesta mole (capriolo, lupo, coniglio, lepre); dal cordovano, di provenienza spagnola, previa mediazione araba, particolarmente richiesto per le calzature di lusso, alle semplici imitazioni dei cuoi orientali.
L'arte della pelle e del cuoio fiorì e si affermò nel XII secolo. La relativa calma sui mari, la facilità di scambi e di commercio con le vicine coste dell'Albania e della Grecia permisero l'affermarsi di un mercato interno sempre più vasto (tanto da comprendere non solo il Salento, ma buona parte dell'Italia centro-settentrionale) e ricettivo. Le stesse leggi di Federico II non tralasciarono di occuparsi dell'arte della concia, stabilendo l'auripelle o ius auripellis, diritto riservato ai nobili di adornare l'interno delle carrozze e dei saloni con pelli indorate, e persino uno ius gabellae auripelli, che nel rito I della Rubrica XXXII della Collezione dei riti della Regia Camera, che costituiscono lo ius Consuetudinario Universale del Nostro Regno (riportato dall'Orlandi) viene così enunciato: "Color auri super pelles datur per curiam seu jus huius coloris venditur per curiam triginta uncias... per se vel per alium ... " ("era dovuto alla curia un tributo di trenta once per la vendita diretta o indiretta di sostanze coloranti per l'industria delle pelli").
Due leggi decisamente impopolari, dato che al conciatore nessun privilegio era riservato nella vendita delle pelli e del cuoio lavorato. I tributi erano assorbiti interamente dall'imperatore o dalla Chiesa.
La lavorazione del cuoio comincia a declinare sul finire del '500. Ma non si èancora alla fase critica, se è vero, come rileva l'Orlandi, che il 23 maggio 1562 muore nel porto di Tricase" presumibilmente per infarto ("repentina morte percussus"), "un certo Nicolò Cuesi, professione coriarius, che era ito al nostro porto per contrattarvi pellami" (12). E' un indizio molto labile, ma è, pur nella sua precarietà, indicativo di un commercio che ancora sopravvive.
Le ragioni del rapido declino dell'arte tricasina sono, alla luce dei documenti in nostro possesso, di varia indole. Due, comunque, a mio giudizio, determinanti. In primo luogo, la chiusura del porto di Tricase nel 1649 (o nel 1650). Utile a tale proposito la testimonianza del Perotti: "Qui cade in acconcio la notizia che esso (porto) fu ufficialmente sopresso dal Vicerè Conte d'Ognatte, insieme a qualche altro della Provincia... e la prammatica che chiude alcuni porti poco frequentati reca, per giustificazione del provvedimento, la espressa menzione del pericolo dei contrabbandi" (13).
Qualunque fossero le reali motivazioni alla base del provvedimento (risulta, infatti, poco convincente la decisione di chiudere un porto, punto di scalo nel Basso Adriatico e roccaforte contro le navi nemiche provenienti dallo Ionio, per sporadiche azioni di contrabbando), gli effetti della chiusura dello sbocco marittimo non tardarono a manifestarsi. La concorrenza, soprattutto con le concerie di Maglie e Galatina e lo strangolamento dei mercati alternativi (significativo l'editto emanato a Firenze e riportato dal Tommaseo: "Qualsivoglia persona, quantunque esente e privileggiata, suddita e forestiera, da ora in l'avvenire non ardisca in modo alcuno, mettere o condurre per terra o per mare, nel suo dominio fiorentino coiame di suola concio con il sale o con Vallonea") (14) resero problematica e poco remunerativa l'arte del pelacane. Gli altri motivi di decadenza giocano in controluce: l'intervento del lavoro meccanizzato, la graduale senescenza delle arcaiche tecniche di lavorazione, la maggiore economicità dei materiali sintetici al posto di quelli ricavati dalle essenze vegetali (colori e galle falamidee).
Nell'800, la concia delle pelli era praticamente scomparsa in Tricase, e continuava ad esistere, per un solo spontaneismo, nei paesi dell'alto Salento. Tricase lanciò l'arte e fu la prima ad assistere alla sua morte.
Le ultime tracce del pelacane si perdono nei pochi resti delle vasche, che il mare e l'uomo non hanno ancora conquistato.
Rimangono solo brandelli di ricordo in frasi del vernacolo tricasino, andare sutta alle conze (concerie), ma vada in sua malora a' Pelacani, che ti grattin la rogna col lor rasco, e, nella toponomastica cittadina, Via dei Pelacani. Ma oggi è via Pendino.


NOTE
1) Incerta la traduzione del termine. Tra gli adattamenti proposti, il più aderente all'etimologia della parola sembra essere quello che ricollega la voce aig (quercia) e lòpe (panno) a quercia dei panni. In tal senso, Plinio nella sua Naturalis Historia: " ... e glandiferis sola quae vocatura aegilops fert pannos arentes, muscoso villo canos, non in cortige modo verum et e remis dependentes cubitali magnitudine odorato, uti di mus inter unguenta". ("Porta strisce di tessuto secco rivestito da muschiosi fiocchi bianchi, questa sostanza cresce non solo sulla corteccia, ma pende giù dai rami in banderuole lunghe diciotto pollici, ed ha un forte odore, come già si è accennato a proposito dei profumi"). E' lecito supporre che Plinio indichi, con aegilops, le formazioni di licheni che rivestono la corteccia dei tronchi e dei rami secondari della Vallonea.
2) In Raffaele Congedo, La Vallonea, natura ed arte; Galatina, 1974, p. 138.
3) "La carne dei mortali è tanto blanda che giù non basta buon cominciamento dal nascer della quercia a far la ghianda". Par. XXII, V. 87.
4) "La quercia a foglie caduche già simulacro di Saturno fu consacrata a Giove, tanto per la maestosità e primazia che tiene tra gli alberi delle foreste, quanto perchè secondo i mitologi al tempo di Saturno stesso fu detto divoratore di uomini e Giove, per far cessare questo strazio crudele, mostrò loro la quercia, così che dalle carni li condusse a cibarsi di ghiande. Quindi il phegos di Omero è l'egilope".
Di Berengher, Studi di Archeologia Forestale; Coppini e C., Firenze, 1969, p. 90.
5) Pelacane deriva dal vocabolo greco pelacao, lavorare con l'ascia o la scure (pelecus). Pelacane è, quindi, colui che lavora le pelli servendosi di strumenti dotati di una lama tagliente per l'eliminazione e lo sgrossamento delle carni. Poco convincente l'ipotesi, peraltro prospettata, che nella concia si utilizzasse anche la pelle del cane (pela-cane), anche se la pelle dell'animale, tagliata a strisce sottili e conciata, era un tempo utilizzata per la fabbricazione dei curisciuli (legacci in cuoio, da scarpe).
6) Ferdinando Maria Orlandi, Dell'arte del pelacane e della Vallonea, che si ritrae in Tricase ne' salentini, e degli marocchini, che quivi stesso si preparano; Napoli presso Gaetano Raimondi, 1780.
7) Nello stesso senso, Raffaele Congedo, Op. Cit., p. 148, n. 3: "Non vi è dubbio che gli Arabi conoscevano bene l'arte di conciare le pelli sin dai tempi più remoti, se si considera che Erodoto riferisce che quando gli ambasciatori di Cambise cercarono alleanza con gli Arabi, questi riempirono di acqua pelli di cammello che furono trasportate attraverso gli aridi deserti, fino al luogo in cui si trovava l'esercito ... ".
8) Nel XI e XII secolo erano questi i termini usati per indicare gli abitanti di Tricase. Pelacaj da pelacao, voce già citata nella nota 5; Gallicaj da galla, escrescenza falamidea utilizzata nella concia delle pelli. La tendenza a chiamare i cittadini di un paese con nomi mutuati da arti e mestieri non era rara in provincia di Lecce. Gli abitanti di S. Pietro in Lama venivano chiamati cutimari (da cotima = terraglia), industria tradizionale del comune. A Calimera si evidenziava (e distingueva il paese oggettivizzandolo) il craunaro, chi, cioè, praticava l'industria forestale e, specialmente, quella del carbone vegetale. Gli abitanti di Copertino erano scarufaterra, tanto poveri da mangiare la terra, mentre quelli vicini al Capo di Leuca scursuni, intenti a coltivare il terreno fin sulle pietre e negli anfratti rocciosi, dimora preferita dello "scursune" serpente salentino, appunto.
9) "I conciatori tricasini tengono in conto la propria (galla) e della stessa si avvalgono con successo nelle loro concie superandosi l'incomodo di uscire fuori di casa e provvedersene". E ancora "la bontà della prima (quella indigena, falamidea di Tricase) sopra le altre due specie importate senza dubbio deve ripetersi dalla copia maggiore dei sali, dei quali quella abbonda... cagionando la stessa che la Vallonea spolverizzata, e sparsa sulle pelli, sia tanto utile per conciarle, renderle nobili e manegevoli..." F.M. Orlandi, Op. Cit. p. 168.
10) Raffaele Congedo, op. cit. p. 157.
11) E' interessante sottolineare una conseguenza dell'uso prolungato della calce. Gli addetti alla prima fase della lavorazione avevano immancabilmente spaccature nei polpastrelli e nelle parti più carnose delle mani; ferite che venivano rimarginate, però, con la manipolazione delle galle macinate, dal notevole effetto astringente data la presenza del tannino. Le mani alla fine risultavano di colore brunastro e praticamente... conciate, tanto da spiegare il termine ditiniuri attribuito ai conciatori.
12) F.M. Orlandi, op. cit. p. 35.
13) Armando Perotti, Storie e storielle di Puglia; Laterza, Bari, 1923.
14) Nicolò Tommaseo, Dizionario della lingua italiana, V. "Vallonea"; Torino, 1916.


Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000