§ PERSONAGGI

NERIO TEBANO POETA




Enzo Panareo



Coetaneo di Franco Fortini, di tre anni più giovane di Vittorio Bodini, di un anno più anziano di Franco Matacotta, il quale si forma come poeta nell'esperienza bruciante della Resistenza, Nerio Tebano (1) esordisce come poeta nel 1952 - un anno prima dell'apparizione dell'antologia di P. Chiara e L. Erba, Quarta generazione. La giovane poesia (1945-1954) (2) e - con una raccolta di versi i cui materiali sono ricavati dalla guerra e dalla Resistenza.
Erano già apparse, quando La lunga notte fu data alla luce, le raccolte di F. Fortini, Foglio di via (1946), di E.F. Accrocca, Caserma 1950 (1951), di F. Matacotta, Fisarmonica rossa (1945), ed era anche apparsa una prima e sommaria proposta della giovane poesia con la raccolta antologica Nuovi Poeti (1950) di Ugo Fasolo (3), il quale aveva messo insieme diciotto poeti in vario modo rappresentativi delle nuovissime - se così può dirsi tendenze della lirica italiana venuta dopo la guerra ed interessata ad una "ripresa di umanesimo".
La lunga notte (4) di Nerio Tebano vinse, nel 1952, con il titolo Ora che l'odio è sfumato, il premio "G. Marradi" per la poesia inedita e fu data alla luce l'anno successivo, finalista per l'"Opera prima" a Viareggio, dall'Editoriale Kursaal di Firenze (5).
Circola in questa raccolta, che interessò i giudici del "Marradi" e s'eleva molto al di sopra della media della poesia resistenziale italiana - non ricca di testimonianze significative -, ed europea (6) - i cui esponenti, si fa il caso di quella francese con Eluard ed Aragon e della olandese, con il Canzoniere dei pezzenti, sono tra i nomi più prestigiosi della poesia contemporanea -, il senso di una realtà umana e civile che esprime, avendo superato con fede la tragedia della guerra, quel fondo di bontà dell'animo umano cui, nei momenti più sinistri della storia, quando più rovinosa è la caduta delle capacità effettive e razionali dell'uomo, questo può sempre aggrapparsi, sicuro di poter recuperare alla vita dei sentimenti se stesso, la propria, indefettibile, nozione di umanità. Non era ancora spenta, nel 1952, l'eco degli orrori del conflitto, ma se ne era attenuata la tensione emozionale, ed i materiali poetici introdotti da Tebano nella sua poesia, in fondo, riflettevano quel mondo tragico di violenza e di morte nella cui torbida fiammata sembrava che si fossero inceneriti i destini di una cultura, quella europea, di una generazione attonita e di una intera razza.
Sgomento, di fronte a questo rogo immane, Tebano aveva visto compiersi anche il destino della propria giovinezza, riportandone una pena immedicabile, espressa, adesso, con profondi accenti di dolore. Posto al cospetto della propria coscienza, con nel cuore la memoria di una maceria di corpi sanguinanti e di anime disperate, Tebano, ripercorrendo la propria storia, rinveniva nella poesia il filo conduttore, da svolgere con la sofferenza dell'anima piagata, con il quale incamminarsi sulla strada di una pietas nel cui tenero alvo restaurare il sentimento, dissipato, dell'umanità.
Ed è per questo che pur tra tanto orrore - e ne è segno inequivocabile un aggettivo, "nero", che insistentemente torna con la sua lugubre semanticità a ribadire una condizione spirituale di estrema disperazione -, s'intravedono, qua e là, in La lunga notte (7), i segni di una speranza che, sia pure fiocamente, è riuscita a sopravvivere, incoraggiando il combattente ed il resistente, spettatore e passivo protagonista di crudeltà e massacri. La cupa amarezza degli "inutili" uomini selvaggiamente scagliati nella rapinosa tormenta della guerra, trascinati da questa nei santuari europei del dolore, non raffrena l'umanità stanca, rassegnatamente sconfitta, presente in questi versi tramati d'angoscia, intessuti di dolore, ma incita quest'umanità a risollevarsi allo scopo di recuperare quella dignità che è patrimonio di ogni uomo, che in ogni uomo rappresenta la tensione per risalire in superficie dal cupo baratro dell'avvilimento e della morte dell'anima disfatta.
Ed ecco, in La lunga notte, tra i materiali poetici più incisivi, e si direbbe più letterariamente incisivi, quelli che più teneramente fanno presa con la mozione dei sentimenti che suscitano, sulle sensibilità mortificate: i bambini, momento albale della vita, sia pure nell'atmosfera tragica delle atroci mutilazioni e della morte; i fiori, poi, maltrattati dai corpi dei caduti e falciati dalla raffica inclemente; il pianto della madre, la quale "ogni sera disegnava / con la mano antica / un gran segno di croce / sulla terra nuda" - dove va sottolineata, con la commossa proiezione semantica dell'"antica" che assomma tutto il dolore della terra, la ieratica solennità dell'immagine -; il lamento, infine, per il vinto, dove anche l'immagine di sapore arcadico ("grappoli di stelle") assume, nel contesto nel quale è situata, atteggiamenti di disfatta. In un clima da Spoon River, nel quale alcuni caduti narrano la loro storia penosa, Tebano tenta, disperatamente, di "ritrovare l'infanzia del mondo", una situazione di purezza e di perdono, di consapevole serenità, nella quale far tesoro, traducendoli in crescita di umanità, dei dolori visti e patiti.
Mondo di povera gente (8), del 1955, che si giova di un'affettuosa prefazione di Tommaso Fiore, si salda a La lunga notte mediante una breve silloge, che funge da cerniera, di poesia, del biennio 1953-54, dal titolo "Giunta a La lunga notte", nelle quali Tebano riaccende, con accenti commossi ma più placati nella consapevolezza storica degli eventi sui quali il tempo va sedimentando la riflessione, i motivi' tragici della guerra e della Resistenza. Questi assumono, nell'atmosfera di Mondo di povera gente, una funzione di mediazione tra il poeta, reduce dal conflitto ed alla ricerca di una propria identità civile ed intellettuale, e la frammentata umanità cui il poeta si trova ad aderire nella sua città.
Corrono, tra il 1948 ed il 1952, quando le poesie di Mondo di povera gente sono scritte, gli anni in cui prende l'avvio ed assume toni incandescenti in ordine alle diverse scelte di campo sotto il segno della democrazia, il dibattito politico in Italia. Tebano, al quale le vicissitudini della guerra hanno indicato dove affondare lo sguardo per restaurare la propria umanità offesa, cerca, e riconosce, i suoi oggetti poetici nella dimensione, trita e quotidiana, di una fascia sociale destoricizzata, di reietti e di esclusi, di anonimi, così come anonimi, in fondo, erano gli uomini che prima, in guerra, sui diversi fronti furono chiamati a sacrificarsi per ideali che non appartenevano loro e, dopo, nel corso della Resistenza, s'immolarono per un vero ideale, quello della libertà e della giustizia sociale da consegnare al Paese e all'Europa.
Non c'è, allora, sul piano dell'umanità protagonista, alcuna soluzione di continuità tra La lunga notte e Mondo di povera gente: dove, d'altro canto, appare una qualità letteraria che chiaramente si enuclea da una tradizione poetica dalle radici crepuscolari. Laddove La lunga notte nasceva d'impeto sotto l'urgenza di un'esperienza storica totalizzante, incapace di lasciare spazio alcuno alla mediazione letteraria, questa, invece, interviene, con le sue proposte di timbro culturale, in Mondo di povera gente, che non per questo comunque sembra meno genuino nelle scelte tematiche e nell'intensità della resa lirica. Tant'è vero che, passando per il filtro di una sensibilità vigile, e carica di significati umani nello stesso tempo, Mondo di povera gente evita accuratamente il rischio, in quegli anni sempre incombente in ogni esercizio poetico, del populismo fatuo ed inconseguente sul piano della testimonianza.
Crepuscolari, infatti, sono certe atmosfere povere, fruste, certi ambienti logorati dalla consuetudine, certe figure umbratili ed evanescenti, appena emergenti da una dimessa penombra nella quale si consumano i piccoli ed insignificanti drammi di una umanità priva di passato e, dunque, priva di futuro.

Una umanità, peraltro, che, se anche accenna a lottare, ma è improbabile che lo faccia per inveterata acquiescenza al sacrificio, sa di dover essere sconfitta. Perché, senza dubbio, questa che Tebano chiama, in Mondo di povera gente, a rappresentare coralmente il dramma della vita - emigranti, vecchi, braccianti, carcerati, vagabondi, suicidi, diseredati, tristi pagliacci di circo di periferia, esistenzialisti, bambini di quartiere proletario che giocano tra i rifiuti, pescatori, donne del popolo -, è una umanità di vinti, i quali non hanno nulla da aspettarsi dalla società che li ha brutalmente emarginati.
Ovviamente, il sentimento che prevale, in Mondo di povera gente, è un tetro pessimismo cui non restano estranei, talvolta, nitidi echi letterari, le cui motivazioni di fondo, tuttavia, sono sorvegliatamente umane, che scaturiscono, a loro volta, dalla riflessione maturata sulle esperienze di guerra. Si tratta del pessimismo che grava, come una grigia coltre, nelle nude ed anonime camere d'albergo, nei vicoli deserti delle incolori periferie, sulla noia della quale sono appesantiti i pomeriggi domenicali, sui quartieri popolari. Nella insistita predilezione per queste atmosfere appartate e deserte, malinconiche ed annoiate, certa umanità vagola come ai margini della società ed il poeta ne coglie i momenti di più avvilito abbandono.
In una "Spiaggia dei poveri" il poeta è colpito da " ... una collina di rottami abbandonati, / nei pressi di un binario morto / della vecchia stazione ... ", dove la ritmica successione dei tre elementi (abbandonati, morto, vecchia) determina il clima nel quale si svolge la vita sulla spiaggia dei poveri.
Si ripresenta, tuttavia, in questa raccolta di poesie l'aggettivo "antico" a ricreare un'atmosfera, come già in La lunga notte, cara a Tebano, il quale da quest'aggettivo riesce a ricavare risonanze ambientali e sentimentali molto profonde: "ulivo antico", "grembo antico", "odore antico di terra", "...la luna/ - bella come una favola antica - ...", "l'antica / voce dei pescatori", "sortilegio antico". C'è, in questi sintagmi che coprono tutta una serie di ipotesi della realtà che cade sotto l'osservazione del poeta, il segno di un tempo remotissimo, quasi primordiale, che il poeta si sforza di recuperare onde riconoscere alla sua umanità mortificata (" ... / T'accorgi allora che, se sorride, / è fatto di dolore anche il sorriso ... ") una storia la cui dignità non è inferiore a quella dei protagonisti della storia ufficiale. Anzi, mentre questa ha confini temporali ben determinati, quella dei poveri è sconfinata e comprende tutti i valori dell'umanità.
Ed è in quest'atmosfera destoricizzata che si colloca anche la figura del padre del poeta ed il commosso ricordo della sua morte serena, cui il poeta dedica un'intera sezione di Mondo di povera gente. L'evento della morte del padre, nella situazione psicologica del poeta, d'altronde, non può non assumere un valore, al di là di quello effettivo, anche emblematico: quella morte rappresenta, per un poeta fortemente legato alle sue origini culturali, la perdita delle radici vitali, il penoso distacco dalla luminosa città dell'anima, dal luogo nel quale gli affetti più profondi sono stati allevati ed ora sono stati brutalmente recisi. Tuttavia la morte, anche in questo caso, non ha nulla di lugubre, ma è la calma contemplazione di una verità ineluttabile dalla cui lezione il poeta ricava gli stimoli vitali per procedere sulla strada della conoscenza e, se possibile, su quella della saggezza. Anche alla madre, infatti, anch'essa figura-simbolo di serena compostezza, sono dedicate alcune liriche nelle quali vige, soprattutto, il senso della terra, della patria interiore nella quale soltanto l'anima può avvertire il fremito dell'umanità.
C'è, che ritorna con una certa insistenza nella terza raccolta di poesie di Tebano, Da un ponte sul Po (9); un motivo che può essere considerato come l'atmosfera entro la quale tutta la raccolta è calata e dalla quale essa trae poi gli elementi civili e morali, intorno ai quali unitariamente si svolge tutta la ricerca poetica. Il motivo, che ha un precedente cospicuo, come un'anticipazione o un presagio, in Mondo di povera gente, in particolare nella lirica "Camere d'albergo", è quello delle camere d'affitto nelle quali l'emigrato, sradicato dalla sua terra, conduce la sua grigia esistenza, privo di speranze e, quel che è peggio, privo d'affetti.
Nel 1955, infatti, Tebano si trasferisce a Torino - vi rimarrà fino al 1958 - dove per vivere fa di tutto: rappresentante di libri, notista letterario, correttore di bozze, collaboratore di terza pagina e vice della rubrica cinematografica per l'edizione torinese de "l'Unità", sulla quale, d'altro canto, pubblica alcuni brevi racconti dal taglio molto preciso. A Torino, inoltre, dove ha contatti con Calvino, Levi, Pavese, prende a frequentare gli artisti della Galleria "Stanglino", dove conosce Spazzapan, Amedeo Ugolini, Bona De Pisis, André de Mandiargues. Tra il 1957 ed il 1958, infine, viaggia come inviato speciale de "La Gazzetta del Popolo" di Torino.
Si tratta, senza dubbio, di esperienze - che Tebano compie - umane ed intellettuali convenientemente assimilate ed estremamente stimolanti che, tuttavia, hanno richiesto e continuano a richiedere alcune pesanti scelte ed un certo prezzo. Questo, nella condizione di Tebano, uomo del Sud, ricco di tutta la carica solare e mediterranea dalla quale il Sud trae la vita dell'anima, non può non essere quello dello sradicamento, sofferto al pari di una condanna. Che, in fondo, è imposta, in quegli anni, ad una sterminata legione di meridionali i quali tentano all'estero o in Italia, nelle plumbee periferie delle megalopoli industriali del Nord, l'umiliante calvario della ricerca di un lavoro cui il Sud, lasciato dopo la fine del conflitto in condizioni d'arretratezza, non ha saputo provvedere.
Anche Tebano, al seguito del flusso migratorio - emigrante di diversa condizione -, è salito sul treno della speranza, diretto a Torino, per tentare un'avventura esistenziale ed intellettuale al culmine della quale, comunque, egli si ritroverà con un gruzzolo di corroboranti esperienze in più, sul piano umano non meno che su quello intellettuale.
Le camere d'affitto, pertanto, la loro atmosfera anonima ed ostile nella quale si dissipa l'anima dell'emigrante pervasa dalla tristezza, connotano, con la realtà squallida della quale sono l'emblema, questo momento della vita di Tebano, cui corrisponde, sul piano della memoria e del rimpianto, il momento della casa e degli affetti lontani, il senso della pienezza - come risvolto del vuoto sentimentale che Torino, pur bella e feconda di occasioni, rappresenta - che urge nell'anima come ricordo ineffabile e struggente. Sentimento della solitudine, dunque, frustrazione per una condizione esistenziale subita più che scelta, senso della fuga di fronte ad una realtà sociale ed economica nemica, amarezza per l'incomprensione di un mondo, e di una cultura, quello torinese, nel quale non è agevole penetrare: sono questi, adesso, gli esponenti storici e spirituali presenti nella poesia di Tebano. Che, data l'esperienza in prima persona compiuta dal poeta, si carica di significati universali.
In virtù di una tale situazione, il ritmo poetico, in Da un ponte sul Po, non può non configurarsi come ritmo discorsivo, aspirazione ad una accorta colloquialità stemperata nel calore umano del quale il poeta s'avverte disperatamente privo. Ritmo, dunque, discorsivamente quotidiano, vigile per le minute cose d'ogni giorno, quelle con le quali l'emigrato, impacciato e spaesato, ingenuo e sfiduciato, rifiutato nella maggior parte dei casi, si trova a doversi confrontare (10). Ed è per questo che la parola in Da un ponte sul Po, dimessa, umile, rivela una sua castità, una sua trepidante purezza, che è, in fondo, la purezza dei sentimenti che esprime. Ma ecco le camere d'affitto: " ... /Non so dire la solitudine / delle camere d'affitto, / lo squallore ... ", e ancora: " ... / Dimenticare, / qualche giorno, / la muffa e la solitudine / delle camere d'affitto ... ", e ancora " ... / Che tristezza, / una camera d'affitto! ... ". L'atmosfera, sul piano letterario, è d'impronta crepuscolare, e se ne erano avute interessanti anticipazioni in Mondo di povera gente, dove Tebano aveva teso a scavare, come farà poi anche in Da un ponte sul Po, nel quotidiano di una vita usurata dal bisogno, intessuta di sacrifici e di rinunzie. A Torino, in altra dimensione storica e sociale, lo scavo è portato avanti, operato nel vivo di una coscienza che, alla fine, ha dovuto constatare d'essere stata costretta a rinunziare anche a se stessa ("Anch'io sono diventato nebbia").
Tuttavia, anche a Torino, Tebano riesce, nell'aspirazione ad un certo risarcimento, a trovare gli ambienti e le atmosfere che gli ricordano la sua città: "Mi piacciono di Torino / certe strade di periferia, / quasi in aperta campagna, / con le osterie alla buona, / il gioco delle bocce, / il vino rosso / delle nostre parti. / Qua e là, in una disordinata scacchiera, / povere case a pianterreno, / come nei nostri paesi", che si riconduce ad una "Periferia", in Mondo di povera gente, dove " tutto è / così lieve, così dolce! Gli elementi della storia quotidiana, comuni a Taranto e a Torino, universalizzati dalla semplicità e dalla bontà della gente umile, assumono, nella trasfigurazione che ne fa il poeta, un'evidenza che dà pieno il senso dell'umanità e della ricchezza dell'anima di Tebano. Al quale, in definitiva, resta sempre, come un nodo alla gola, il rimpianto per la sua casa lontana nella quale i suoi cari trascorrono la loro esistenza: "Vorrei tornare / alla mia casa, paesana per la calce, / per la pietra. / La stessa dov'è morto / mio padre, / grande e tiepida, / docile come argilla / nel pantano". E nel biennio 1959-60 Tebano recupera fisicamente, per così dire, la sua terra. Esaurita l'esperienza torinese, infatti, egli si stabilisce a Bari, addetto all'Ufficio Stampa dell'Ente Fiera del Levante, e, nello stesso tempo, redattore di "Civiltà degli Scambi", importante periodico della Camera di Commercio di Bari.
Ma è del 1960 una sua "personale" alla Galleria "Taras" di Taranto - lo presenta in catalogo un sensibile poeta come Michele Pierri -, cui segue, subito dopo, un'altra "personale" alla Galleria "Piccinni" di Bari. Frequentando gli artisti della Galleria "Stanglino", a Torino, Tebano è andato scoprendo anche sul piano operativo, e non soltanto sul piano culturale, la pittura, nel senso che ha scoperto - quasi destinatario di un dono magico - di potersi esprimere anche con il segno e con i colori (11). E' una scoperta che quasi stupisce il poeta il quale, facendo il suo ingresso nel mondo fascinoso e tormentato, esaltante e contraddittorio della pittura, si trova come proiettato in un'altra dimensione, forse più concreta, meno sfuggente di quella della parola e certamente più impegnativa per lui, che dell'esercizio della parola ha fatto, fino a questo momento, una ragione di vita. Infatti, come per testimoniare una fedeltà indefettibile alla parola, traendo spunto dalla pittura, Tebano comincia a scrivere le liriche che nel 1967 - quando già s'è trasferito a Roma - daranno vita a Clown con uccelli (12). Questo breve ed intenso fascicolo di versi è un po' come un diario trasognato nel quale il poeta, librato in un'atmosfera favolosa, annota gli impulsi che gli vengono dalla frequentazione con i pittori e con le loro opere. E', quella della pittura, una ragione nuova di vita e di alacre operosità che Tebano, sempre fedele alla poesia, aggiunge a questa. Ed un'altra se ne aggiungerà, forse ancora più cattivante, con il cinema, attraverso il cui esercizio si rinnova la colloquialità che di Tebano è tipica (13).
C'è, in Clown con uccelli, una vaga atmosfera surreale che s'avvale non d'immagini nebulosamente irreali, ma di segni teneramente fiabeschi che, tratti dalla realtà, s'affinano, s'essenzializzano, lungo un percorso sentimentale, e poetico, la cui mèta è una visione, per così dire, metafisica della vita degli artisti e del loro intervenire in una realtà cangiante da tradurre in valore universale. Artisti cui Tebano, sempre con tono colloquiale -ogni lirica è dedicata ad un pittore -, si rivolge con l'aspirazione, scopertissima, ad un calore umano con il quale, in definitiva, esorcizzare l'esperienza alienante dell'emigrazione. Ma non soltanto questa, ché Tebano la solitudine, il desiderio d'affetto e di comprensione se li porta nel cuore, si direbbe fisiologicamente, come una sorta di fatto inplacabile. Cui bisogna che egli risponda, a costo, magari, di delusioni e di sconfitte, continuando, tuttavia, sempre a lottare, con animo sereno, incantato, di fanciullo che non intende perdere le occasioni della vita.
Ecco, dunque, dove risiede anche la giustificazione di certi stilemi che danno la misura della sensibilità di Tebano: "cattedrali di nuvole", "malinconico girasole / che sta morendo di vecchiaia", "la campana del cielo", "tenerissima luce / del mattino", "colorato tepore", "silenzio incantato", "Il cielo è un'immensa foglia azzurra".
D'altro canto, a Roma, e dopo l'esperienza torinese, per molti versi però anche formativa, Tebano esule dappertutto, non dimentica la sua terra. E certe immagini, mediate dal mondo e dal linguaggio della pittura, sono di quelle che soltanto il Sud mitico ed assolato può suggerire. Ecco, filtrata dalla pittura di Pompeo Borra, una visione solare, mediterranea, classica nel suo fulgore: "Una ragazza / nuda e intoccabile come dea, / sulla spiaggia inondata di luce. / Un bianco cavallo in libertà, / sullo sfondo del mare. / Capanne a strisce rosse e blu, / sotto il cielo di cobalto. / Un mattino d'agosto, / pieno d'antiche memorie, / più irreale che vero".
Immagini di una trasognata fissità, splendide nella loro concreta trasparenza, la fissità delle creature viventi e degli oggetti che vivono, e forse è meglio dire si nutrono, di vita interiore: la condizione, questa, tutta metafisica delle immagini contenute poi in Come uccelli della pioggia (14).


Con questa essenziale raccolta, del 1971 - Tebano s'è ormai incamminato, speditamente, sulla strada della pittura, agevolato dalla solidarietà, prima fra tutte quella di un maestro della tempra di un Gentilini, degli artisti che a Roma delineano una cultura (15) -, il poeta paga, per così dire, un suo tributo di amicizia, di ammirazione e di riconoscenza a Roma, dove con successo espone spesso in "collettive" ed in "personali". Ci si può chiedere, a questo punto, qual è l'immagine che Tebano ha di questa città multiforme ed estroversa, intelligente e contraddittoria, fastosa e miserabile, frenetica e sognatrice, nella quale il poeta va realizzando un fecondo itinerario d'arte, peraltro testimoniato da convincenti interventi della critica. Per Tebano, uomo di un Sud povero ma ricco di fantasia creatrice, Roma può apparire, vista attraverso il prisma fascinoso di una "natura morta" di Gentilini, come "uno zoo di oggetti variopinti" nel quale le cose, e gli uomini magicamente trasformati in cose, conducono la loro incantata esistenza di protagonisti in un microcosmo in fermento nel quale il poeta, a sua volta, cerca una sua verità. Che è quella dell'anima la quale, sgomenta s'accorge che le incombe addosso l'allucinazione degli oggetti. In una tal situazione spirituale gli oggetti poetici - creature, ruderi, attimi di vita, monumenti - diventano emblemi, segni di una volontà trasfiguratrice che trasporta gli uomini in dimensioni remote dal quotidiano vissuto e sofferto. Dove l'esistenza vale soltanto per i cristallini contorni entro i quali il poeta circoscrive, psicologicamente e culturalmente, la propria esperienza intellettuale. Interviene in questa commossa operazione il riferimento colto ("Quel giorno di neve, / Grottarossa sembrava / un paesaggio dipinto / da Utrillo ... "), dove la mediazione culturale, estremamente suggestiva, segna il limite della visione, che pur si concreta in immagini raffinate (" ... Mai visti, / tutt'una volta, tanti/bambini divertirsi/a inventare favoleld'alabastro sui parati ... "). Ma c'è anche il riferimento immediato, quallo per il quale scorre senza soste l'inventiva più genuina di Tebano ("... Tra i ruderi, vuoti ormai /dell'ombra dei fantasmi, / ci sarà sempre un prato d'erbe, / dove i colombi affamati /potranno beccare le briciole /della natura").
E' sintomatico un dato: qui le immagini sono colte sempre, o quasi sempre, in una situazione statica ("Sulla panchina / all'ombra di Ponte Sant'Angelo, / un giovane pescatore / se ne sta immobile, / da chissà quante ore, / ... "; " ... Un soldato di leva / in libera uscita, / ... non sa più cosa fare / fino a sera"; " ... Le statue di Ponte Sant'Angelo, / con la mente, ogni notte, / spiccano voli dai trampolini / di marmo ... "; "... Due sposini innamorati / si tengono per mano, / in un affettuoso silenzio") dove la vita sembra ferma in una dimensione temporale priva di riferimenti al contingente, ferma, in altri termini, nell'assoluto delle idee, del pensiero che s'appaga della contemplazione di se stesso. E dove c'è il movimento, d'altro canto, esso si perde nell'infinito di gratificanti visioni cosmiche ("... Le stelle, / sazie d'attesa / precipitano stanche / nel grembo del mare, / come uccelli della pioggia / dopo il rito ... "). E', da parte del poeta, un commosso e, perché no?, religioso osservare le creature e le cose nella loro stupefazione. Anche per questo la cadenza interiore delle liriche assume, quasi sempre, toni elegiaci, come in "Poesia per Luciana": "Nella dolce isola dei suoi' occhi / c'è una luce di sole. / Nel quieto porto delle sue mani / c'è un nido di tenerezza. / Quand'ella sorride, è come / se cento campane tutt'insieme / suonassero a festa. / Quand'ella parla, la sua voce / è come una conchiglia sonora / su una spiaggia incantata".
Ma il Sud come ininterrotta aspirazione si riaffaccia materialmente, per così dire, nella poesia di Tebano con Paese del mio cuore (16), del 1974. La prefazione al testo - arricchito da un'acquaforte originale di Gentilini - è di Libero Biagiaretti. Il quale non può non sottolineare come "... La poesia di Tebano è sempre venuta fuori con discrezione, con dignitosa tenerezza, dai ricorrenti momenti di nostalgia e di rimpianto, da quei momenti di ricapitolazione sentimentale dell'emigrante, del paesano sradicato, quando la prospettiva della lontananza fa sì che le strade e le pareti delle case convergendo si restringano paurosamente fino a incontrarsi in un minimo inabitabile punto, come vuole la regola ... ". C'è, adesso, tuttavia, quando il "mondo di povera gente" è diventato il paese del "mio" cuore - e la prospettiva storica e temporale, oltre che sentimentale, è di gran lunga diversa, connotata da una misura di serenità, che è contemplazione dell'assenza sofferta -, che il recupero del Sud, di Taranto remota e dimentica, avviene come mediato dalla piena esperienza e dal cumulo delle esperienze culturali che fino a questo momento hanno impegnato il poeta. E si pensi, per fare un caso, ad un altro tarantino, Carrieri, il cui ritorno nella città d'origine Tebano sollecita con pochi, ma densi versi, dai quali traspare la commozione dell'emigrante che aspira alla propria terra come all'elemento vitale nel quale consistere come uomo e come poeta.
I materiali poetici sono, ancora una volta, quelli di Mondo di povera gente -ed anche qui c'è da osservare che il "mondo" s'è adesso ristretto nella dimensione più familiare, affettivamente più circoscritta del "paese", dove il poeta più agevolmente può riscoprire le proprie origini -diversa è, invece, la qualità immaginativa e quella del dettato lirico da cui emergono. Diversa perché diverso è il clima culturale nel quale quella qualità e quel dettato maturano.
Le immagini raccolte adesso da Tebano nel centro storico di Taranto, brulicante di umanità anonima, che è come dire, per il poeta, una dimensione dell'anima o la sezione aurea della categoria uomo, hanno andatura epica, di antica tragedia, dove le parole, tutte le parole, hanno uno spessore mitico e le figure, magari le più consuete e le più trite, rivelano la ricchezza interiore che è dei valori genuini dei quali il popolo è portatore. E' come una memoria astorica di tutta la terra pugliese - non c'è soltanto Taranto in questa raccolta -che affiora da versi e da sintagmi aderenti alla realtà effettuale delle cose e le immagini, solari e mediterranee, prepotenti nella loro icasticità, sono di un'evidenza che sgomenta, per la saggezza arcana che recuperano, riflesso di millenarie civiltà sepolte nella coscienza popolare, e per il senso pittorico e scultoreo - dove è evidente la cultura del poeta - che richiamano.
E' così che si determina in Paese del mio cuore un'atmosfera magica, affabulata, nella quale le piccole cose diventano emblematiche di grandi eventi dei quali natura ed uomini sono protagonisti.
"Son tornato al mio paese di sole. / Quanta luce, quanti colori / -colori di favola colori di letizia! ... ": pur in un contesto di sofferenza, il dolore dell'assenza del quale l'emigrante è sempre vittima, la dimensione nella quale è adesso visto il "paese" è diversa e tradisce, da parte del poeta, una serena disponibilità, per così dire, all'abbraccio della natura, del sole che come un lume illumina e protegge situazioni millenarie in una Taranto i cui vicoli "sembrano squarci di ferite / cancrenose" e nella quale si odono "i discorsi delle anziane donne / così piene di antica pazienza", mentre dai passaggi a livello "qualche bambino agita appena / mani invecchiate in segno / di saluto" ed altri "Ragazzi abbronzati / hanno tra le mani / conchiglie colorate". C'è in tutto ciò, se non un'aria di giocondità che di Tebano assolutamente non può essere, un'aria di cordiale partecipazione che è, poi, la capacità di Tebano di trasfigurare creature e cose, tutto un magma sentimentale in fermento, in un'atmosfera rarefatta dove il mito ha il compito di sottolineare i dati della realtà. Che scorre, nel processo poetico di reinvenzione, lungo due direttrici: quella del "sole", sotto il cui segno creature e cose vivono, e quella della "letizia", con la quale il poeta a creature e cose aderisce.
Nonostante questo, Tebano non ha rinunziato alla protesta civile, che è dato ineliminabile della sua formazione -ma Bigiaretti diffidava del termine "civile" "a causa degli equivoci che... comporta e delle enfiagioni che procura il dettato ... " -, ha rinunziato, però, per un calcolo di visione storica, a quell'atmosfera di tesa disperazione nella quale la protesta era calata, perdendo, tutto sommato, di efficacia, dalla quale, comunque, traeva stimoli vitali, per forza di prospettiva temporale, data la memoria ancora fresca della guerra e l'immanenza di forti tensioni civili, dal cui dispiegarsi, talvolta tragico, Tebano ricavava non trascurabili indicazioni. Era il tempo in cui gli orizzonti, anche per i poeti che intendevano inserirsi nel solco della storia, erano confusi e su tutto incombeva il senso di una tragedia intessuta di dolore, di sacrifici e di morte.
In questo ritmo di sofferenza, scandito da memoria vigile, rimpianto cocente e attesa disperata, senso solenne della storia ed operosa testimonianza pittorica - che si colloca, essa stessa, coerentemente nella direzione della storia come momento affettuosamente partecipato di una vicenda personale toccata e segnata dai grandi eventi, dalle occasioni inattese e dagli incontri quotidiani -, in questo ritmo, dunque, va situata la parabola poetica di Tebano, dell'uomo di un Sud ricreato giorno dopo giorno nella trasparente malinconia della lontananza, dove il ricordo degli uomini, delle case, dei paesi, dei paesaggi assolati e desolati di Puglia, trasferisce le cose nella dimensione, magica, dell'eterno. Che è, in fondo, la dimensione atemporale nella quale si muove, adesso Tebano. Ecco perché, adesso più che mai, poesia e pittura si compenetrano fortemente, nel senso che danno vita ad un nucleo di pensiero nel quale confluiscono tutte le esperienze, di vita e di cultura, delle quali s'è nutrito, per anni ed anni, iI poeta. Il quale nei diversi momenti della sua esistenza creatrice, a mano a mano che affrontava prove artistiche di notevole tensione, ha sempre conservato nel cuore, da richiamare in superficie nei momenti più opportuni, quando la tristezza maggiormente preme e si fa strada nell'anima l'esigenza del recupero vitale, una scintilla d'amore per una Taranto che, voluttuosamente adagiata tra due mari, suscita sempre nella fantasia del poeta esule i fantasmi di una civiltà mitica e pur tanto familiare.


NOTE
1) Nerio Tebano è nato a Taranto il 21 agosto del 1917. Nel 1939-40 è Allievo Ufficiale di complemento alla Scuola AUC di Bengasi. Ma prima del richiamo alle armi ha frequentato l'istituto Orientale di Napoli. Nel 1941 è in servizio di Sottotenente di prima nomina a Bracciano prima e poi a Forlì. Nel 1942 è trattenuto alle armi in territorio in stato di guerra. Nel biennio 1942-43 è in zona di operazioni in territorio croato. Dopo l'8 settembre 1943 si ritrova sbandato e poi soggiorna ad Ancona ed a Firenze, fino al 1945, anno in cui rientra a Taranto.
Un contributo alla conoscenza dell'opera di Tebano, poeta e pittore, è offerto da M. MARINI, Nerio Tebano tra poesia e pittura. Roma, Edizioni Trifalco, s.a. (ma 1980).
2) P. CHIARA - L. ERBA, Quarta generazione. La giovane poesia (1945-1954). Varese, Editrice Magenta, 1954.
3) Nuovi Poeti, raccolti e presentati da Ugo Fasolo. Firenze, Vallecchi Editore, 1950. Ed ancora Nuovi Poeti, raccolti e presentati da Ugo Fasolo. Firenze, Vallecchi Editore, 1958, dove si fa riferimento alla "lezione eliottiana" ed al "facile incitamento" di Lee Masters.
4) N. Tebano, La lunga notte. Firenze, Editore Luciano Landi/Kursaal, 1953.
5) Ecco, di seguito, i premi ottenuti da Tebano in questo periodo: I' Premio di poesia "S. Di Giacomo", Napoli, 1951; 1° Premio per la poesia inedita "G. Marradi", Livorno, 1952; 3° Premio di poesia "G. Carducci", Marina di Pietrasanta, 1953; 2° Premio di poesia "Kursaal", Firenze, 1953; 2° Premio di poesia "Andreina", Viareggio, 1953.
6) Cfr. A. Paoluzzi, La letteratura della Resistenza. Roma, Ed. "5 lune", 1956. L'ultimo capitolo, pp. 74-80, accenna brevemente alla letteratura resistenziale sviluppatasi in altri Paesi europei.
7) A proposito del Tebano de La lunga notte, Sibilla Aleramo scrisse: " ... Nella sua poesia c'è un'autentica sensibilità di poeta e un senso di umanità profonda e sincera..." ed Elio Vittorini, a sua volta, "... La materia poetica si allarga con un bel respiro come pane che lievita ... ".
8) N. TEBANO, Mondo di povera gente. Firenze, Editore Luciano Landi/Kursaal, 1955. Nella prefazione Tommaso Fiore scrisse: " ... Il poeta ha dunque rinnovato se stesso, cioè su quelle sofferenze e aspirazioni che abbiamo visto, ha operato vari innesti, alcuni intimamente familiari, come i rapporti col padre che muore, altri, non meno a lui intimi, con le piccole cose dei quartieri poveri e della povera gente ... ".
9) N. TEBANO, Da un ponte sul Po. Sarzana, Carpena Editore, 1961.
10) Scrisse G. Russo nella prefazione a Da un ponte sul Po: "... Le poesie di Tebano sono quindi una testimonianza senza rancori di questa sofferta esperienza, del disagio psicologico e sentimentale che circonda il meridionale nella città del Nord. Il sentimento dominante è quello della nostalgia e della solitudine, che si cerca di medicare in un solo modo: cogliendo negli uomini, nel paesaggio, nelle case, un sapore, un ricordo, un'immagine amica ... ". L'epigrafe a Da un ponte sul Po è tratta da Leonida di Taranto e suona così: "Lungi dall'itala terra/ da Taranto patria soave/ giaccio lontano/ e questo più della morte/ è amaro".
11) Scrisse Vittore Fiore ("Cronache Meridionali", 10 aprile 1960) in quell'occasione: "... Come Nerio Tebano, il poeta de "La lunga notte" e di "Mondo di povera gente", il critico d'arte attento e amoroso, sia divenuto il pittore Tebano, pittore fantasioso e prezioso dell'informale, rimarrà sempre un mistero, per chi, incline agli schematismi, alle classificazioni pacifiche e vuote, non dia il credito che è dovuto agli umori dell'intelligenza. L'imbarazzo, fin troppo dichiarato, di chi era abituato a collocare Tebano nella cerchia dei poeti e dei critici d'arte, ed ora non sa che pesci prendere di fronte alle 71 opere esposte alla "Taras" (di Taranto), non è però del tutto ingiustificato ... ".
12) N. TEBANO, Clown con uccelli. Taranto, Editrice Cressati, 1967.
13) L'impegno cinematografico di Tebano si concreta in due documentari d'arte, entrambi del 1969: Tempo presente di Franco Gentilini, regia di Massimo Mida, testo di Nerio Tebano, musica di Egisto Macchi, produttore Ugo de Lucia; Una città per la ceramica, regia di Massimo Mida, aiutoregia di Nerio Tebano, musica di Egisto Macchi, produttore Ugo de Lucia. A questi due lavori va aggiunta la riduzione per lo schermo del Diario di un giudice di Dante Troisi.
14) N. TEBANO, Come uccelli della pioggia. Bucciarelli Editore, 1971.
15) La prima personale romana di Tebano, dal 16 al 29 novembre 1963, alla Galleria d'Arte "Il bilico" va all'insegna di un "Omaggio ad Antonioni". Elio Pagliarani, Carlo di Carlo e Filiberto Menna presentarono in catalogo il pittore.
Scrive Menna, indirizzandosi allo stesso Tebano: " ... Conosco la tua pittura da tempo e so l'impegno e l'accanimento con cui lavori in questo campo, che son poi gli stessi della tua poesia. Consentimi perciò di cominciare da questa, dall'immagine che hai saputo offrire di te attraverso la parola, l'immagine, anch'essa discreta e dimessa, ma ferma, di un uomo sradicato che cerca disperatamente di mettere nuove radici mediante il colloquio con gli altri ... ". In quest'esigenza di colloquio, d'altro canto, vanno situate le seguenti cartelle di artisti nelle quali Tebano ha introdotto sue poesie: Ipotesi di poesia per 3 acqueforti di Gentilini (1974), con 3 acqueforti di Gentilini, Edizioni del Cappello, Verona; Le ragazze di Franco Gentilini (1975), con 4 acquetinte di Gentilini, Edizioni Images 70, PadovaDue poesie (1980), con 4 incisioni di Placido Scandurra, Edizioni d'arte Editrice Romana; Poesia per G.B. Salatino (1980), con 6 incisioni di G.B. Salatino, Edizioni "Gli amici del Tetto", Roma.
16) N. TEBANO, Paese del mio cuore. Poesie. Prefazioni di Libero Biagiaretti con un'acquaforte originale di Franco Gentilini. Verona, Edizioni d'Arte Ghelfi, 1974.


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