§ ITINERARI

MAGNA GRECIA




Ada Provenzano, Tonino Caputo, Gianfranco Langatta



Magna Grecia è il termine latino con il quale si denomina il territorio occupato dai Greci nell'Italia Meridionale. La Sicilia ne è esclusa; e, d'altro canto, la sua civiltà antica merita una ricognizione a parte.
A quando risalgono le testimonianze greche? All'VIII secolo, si dice abitualmente, considerando la vera e propria conquista, con la fondazione di grandi città. Ma se questo è noto, nuova è la rivelazione della presenza sui nostri mari di una gente greca, i Micenei, già molti secoli prima, dal XVI o XV secolo, con la testimonianza su tutte le coste di una ceramica caratteristica, a vivaci disegni geometrici e animali.
Ceramica solo, o quasi, perché alcune strutture di abitati incominciano a delinearsi; ma comunque, testimonianze tenui, di genti che praticavano soprattutto il commercio lungo le nostre sponde, non la conquista. E si delinea anche la ragione principale del commercio: il traffico dell'ossidiana - un vetro duro di origine vulcanica prezioso per foggiare strumenti da percussione e da taglio -che aveva nelle Isole Eolie il maggior centro d'irradiazione. Tra i tanti motivi del fascino di Lipari, il visitatore cerchi anche questo, nell'esemplare Museo che sorge sul luogo stesso degli scavi e che mostra testimonianze continue di civiltà, fino all'epoca della conquista greca e oltre.
Un'altra novità delle conoscenze riguarda la via primaria di accesso dei Greci in Italia. Era collocata tradizionalmente sulle coste joniche, dove fiorirono grandi città: da Locri a Crotone, da Sibari a Siri-Eraclea, da Metaponto a Taranto. Eppure, lo Jonio non era e non è la meta iniziale più ovvia per i navigatori che giungono dalla Grecia: per arrivarvi, infatti, bisogna aggirare la Puglia, e in particolare la lunga Penisola Salentina. Orbene, le scoperte degli ultimi tempi rivelano proprio nel Salento una serie di antiche testimonianze prima ignorate, da Leuca a Cavallino e a Brindisi, che danno ragione alla logica della geografia: anche qui, nel VII secolo, se non prima, sbarcarono dunque i conquistatori.
Il movimento era d'altronde vasto, concentrico, parallelo nel tempo su tutte le coste dell'Italia Meridionale, dall'Adriatico al Tirreno. E così non stupisce che la colonia più antica secondo la tradizione, Ischia, sia anche la più lontana dalla Grecia. A conferma della sua priorità (o, almeno, non posterità) rispetto alle altre, vengono ora le nuove scoperte, che pongono in evidenza un ulteriore fenomeno di grande importanza storica: la presenza contemporanea dei Fenici, secolari concorrenti dei Greci nei traffici sul Tirreno. Si deve pensare che nel confronto prevalsero i Greci, perché furono loro ad affermarsi nell'Italia continentale, mentre i Fenici arretrarono nelle isole.
Più solide, anche se tuttora limitate, restano le conoscenze sulla storia dei Greci in Italia. Costituitisi in autonome città-stato, s'irradiarono profondamente nell'interno, dando vita anche a sub-colonie e passando dall'uno all'altro mare, come avvenne quando i Sibariti fondarono Poseidonia (poi Paestum). Certo, all'assestamento e all'irradiazione seguirono lotte di predominio, sulle quali abbiamo solo notizie episodiche: l'alleanza tra Metaponto, Sibari e Crotone che porta, intorno al 550 a.C., alla distruzione di Siri; la guerra tra Crotone e Sibari, che porta, nel 510, alla distruzione di quest'ultima; la Confederazione che nel IV secolo a.C. abbraccia quasi tutte le città, spezzata da fenomeni egemonici che vedono prevalere Siracusa e poi Taranto. E siamo ormai al III secolo a.C., quando Roma "spezza le reni" ai Sanniti e agli Irpini e conquista la Magna Grecia. Di nuovo cospicue rivelazioni riguardano l'irradiarsi dei Greci all'interno della Penisola e il loro incontro-scontro con le popolazioni autoctone. Soprattutto la Basilicata, terra prima ignorata o quasi, rivela le grandi vie della penetrazione lungo il corso dei fiumi e l'emergere di una civiltà indigena che assimila l'influsso greco e lo rielabora in forme originali. Le testimonianze archeologiche (valga da ultimo l'esempio del Colle dell'incoronata, scavato dall'Università di Milano nell'entroterra di Metaponto) mostrano con eccezionale precisione l'affiancarsi delle testimonianze indigene e di quelle greche, finché si forma una cultura che è certo greca d'ispirazione, ma che deve alla libera e spesso fantasiosa elaborazione locale la sua riemergente originalità.
Scoperte e ancora scoperte, dunque, in una terra che sembrava avere assunto l'immobilismo di un passato glorioso, ma per sempre scomparso. Una nuova generazione di archeologi, educata alle tecniche più moderne, sofisticate, rivoluzionarie persino, è la protagonista di un presente dinamico, cui potrà succedere un futuro travolgente.
C'è un itinerario affascinante, che si può immaginare e realizzare un itinerario del Sud. Un itinerario lungo spiagge placide bagnate da un mare purissimo, con boschi secolari di consolante frescura, tra villaggi dove le casette imbiancate a calce hanno l'impronta eterna del paesaggio mediterraneo. Un itinerario che ancora consente di scoprire un mondo diverso, forse neanche immaginato.
Partiamo da Ischia: un centro straordinario di turismo per l'Italia moderna, un centro strategico essenziale per l'Italia antica. Da Ischia si controllava la costa e si tenevano d'occhio i traffici lungo il Tirreno. Scoperte recenti nella necropoli di San Montano hanno riportato alla luce resti di vasi greci e insieme fenici, con iscrizioni nell'una e nell'altra lingua. Non è fantasia immaginare che proprio a Ischia si sia verificato lo scontro decisivo tra i due popoli per il controllo del continente. Dovettero vincerlo i Greci, perché i Fenici ripiegarono in Sicilia e in Sardegna. Dopo aver vinto, dunque, i Greci sbarcarono sul continente e fondarono Cuma, dove scavi antichi e recenti hanno rivelato l'acropoli con le mura e il grande santuario dedicato a Zeus, oltre a più tardi edifici romani. Ma il luogo di maggior fascino a Cuma, splendidamente conservato, è appena fuori le mura, passato alla storia come "l'antro della Sibilla", nel quale, secondo la narrazione poetica di Virgilio, Enea volle conoscere il futuro. Libro VI dell'Eneide: "E' da l'un canto / dell'euboica rupe un antro immenso / che nel monte penètra. Avvi d'intorno / cento vie, cento porte; e cento voci / n'escono insieme allor che la Sibilla / le sue risposte intuona". La Sibilla preannunzia l'avvenire fino alla conquista del Lazio, apre ad Enea le porte dei regni infernali, che ancora si credono lì sottostanti (e se ne conserva il nome nel Lago dell'Averno). La scienza, è vero, ha poi dimostrato che il cosiddetto antro della Sibilla è una creazione poetica, che si tratta solo di una galleria intesa a collegare la città con il porto: ma forse diminuisce per questo il fascino eccezionale del luogo?
Su tutto il Golfo di Napoli le testimonianze dell'antichità sono prevalentemente romane: bastino i nomi famosi di Miseno, Baia, Ercolano, Pompei, Castellammare di Stabia. E anche qui le nuove scoperte incalzano, dal palazzo sommerso di Baia, che restituisce splendide statue imperiali, al porto di Ercolano, che restituisce i corpi degli abitanti uccisi dall'eruzione del Vesuvio, e alle ville suburbane, che riaffiorano sul luogo dell'antica Oplonti, oggi Torre Annunziata. Ma per noi che cerchiamo i Greci, l'autostrada del Sole consente di tirare dritto da Napoli fino a Salerno e a Battipaglia, deviando fino a Paestum, la greca Poseidonia. Qui c'è un caso davvero tipico di nuove scoperte, che si inseriscono su quelle antiche. Perché Paestum balza da secoli incontro al visitatore con i suoi templi maestosi. Ma i templi sono nella città, mentre fuori di essa si estendono a largo raggio, sotto la terra, le necropoli. Certo, non si vedevano e non si vedono. Ma quindici anni fa l'utilizzazione del terreno incominciò a passare dal pascolo alla coltura agricola. Allora gli aratri sventrarono il suolo, e l'archeologo Mario Napoli scoprì centinaia di tombe. Dalle tombe sono riemerse in gran quantità le pitture murali, che raffigurano il viaggio del defunto nell'oltretomba, con le scene dei banchetti e dei giochi sportivi che si voleva lo accompagnassero. Le pitture più antiche, databili tra il 480 e il 470 a.C., sono anche le prime tornate alla luce: quella dell'ormai celebre Tomba del Tuffatore è emblematica. Scene di banchetto, di musica; sul coperchio, l'immagine più straordinaria, proprio quella del giovane che si tuffa in uno specchio d'acqua. Scena reale, o piuttosto simbolica, intesa a rappresentare allegoricamente il Viaggio nell'aldilà?
In ogni caso, questo è vera e propria, arte greca trapiantata sul suolo d'Italia. Centinaia di pitture, dicevamo. Ma non tutte greche. 0 non esclusivamente greche. Alcune hanno assorbito i caratteri popolari della gente del luogo, soprattutto nelle figure di donne dai capelli arruffati e dalle vesti raccolte maldestramente. La data è più bassa, tra il 340 e il 310 a.C. E le scoperte non sono finite: all'inizio del III secolo si colloca, ormai in piena età ellenistica, la terza e ultima serie di pitture tornate alla luce, con immagini austere e impersonali, tra cui spiccano varie figure femminili e quella maschile detta del "Magistrato".
Da Paestum alla vicina Ascea Marina, piccolo centro turistico che deve ad Amedeo Maiuri una descrizione indimenticabile: chi viene dal Nord, "volga le spalle alla pingue pianura di Paestum e alla meraviglia dei suoi templi e valichi i monti del Cilento in un mattino di tiepido aprile, fra colli svariati di ulivi e di querce, fra valloncelli di mandorli in fiore e seminati lucenti, fra dossi ammantati di lentischi, di mirti e di ginestre; o segua il tortuoso filo della costa tra vigneti e ficaie, fra bianche marine e nere colate di scogli, e discenda con le forre dei monti, con le acque della lento, con lo snodarsi delle rupi, verso il lido più chiuso e una pianura deserta dominata da una torre imperiosa cinta da una corona d'ulivi". Ascea è una splendida città greca sul mare italiano: due porti, un'acropoli, una cinta di mura, un arco che consente il passaggio alla sommità. E' l'antica Elea, città celebre di filosofi: da Parmenide, con la teoria dell'Essere immobile e immutabile, a Zenone, con la storia di Achille che non raggiunge mai la tartaruga...
Oltre, c'è Palinuro, e poi ancora Vibo Valentia, l'antica Hipponion. E, in fondo, Reggio, con gli inimitabili bronzi di Riace.
Se i due bronzi costituiscono le nuove gemme, il Museo Nazionale di Reggio è una raccolta grandiosa di arte della Magna Grecia, con "pezzi" provenienti da vari centri, soprattutto da Locri, con i celeberrimi pinakes, tavolette d'argilia figurate a rilievo e dipinte con scene del culto di Persefone, la dea dell'aldilà. Soprattutto impressiona, a Reggio, il continuo afflusso delle scoperte, il rinnovamento ininterrotto dell'esposizione: è un esempio straordinario, un'esperienza immediata del continuo evolversi delle conoscenze.
Locri, e il nuovo Museo, proprio all'inizio degli scavi, in un bosco di ulivi e di fichidindia, in mezzo al quale biancheggiano i monumenti maggiori: il santuario di Marasà; il quartiere abitato, dal nome significativo di Centocamere; il santuario di Marafioti, con l'attiguo teatro; le mura. Poi è Riace; poi ancora Monasterace Marina, dove si aprono sul mare le fondazioni del tempio dell'antica Caulonia, emergenti come in una pianta a rilievo. Poi Roccelletta, con i resti evidenti dell'antica Scillezio, con i resti dell'anfiteatro e del teatro. Monumenti romani, questi scoperti finora; il che accade qui e altrove. Ma sotto i monumenti romani, la ricerca dovrebbe porre in luce quelli greci, perché l'abitato fu certamente anteriore (come fu posteriore, fino a lasciare il proprio nome all'odierna Squillace). Si preannuncia qui l'archeologia del futuro.
E poi Crotone, nome evocatore di antiche glorie. Vuole la tradizione che l'ultimo dei Crotoniati fosse il primo dei Greci, che l'atleta locale Milone sapesse uccidere con un sol pugno un vitello, che le donne venissero scelte per la loro bellezza a raffigurare la divina Elena. Oggi, a prima vista, la città industriale sembra ignorare il suo passato. E' un'impressione fallace: a parte la colonna del vicino santuario di Era Lacinia e alcuni tratti di mura che già si conoscevano, gli scavi recenti hanno posto in luce quartieri di età greca presso la stazione delle Ferrovie Calabro-Lucane e vicino al Palazzo delle Poste; e la Fondazione Lerici ha scoperto, con l'esplorazione elettromagnetica, un'ampia zona della città antica fuori di quella moderna. Anche questo è archeologia del futuro.
Sibari è nel Golfo di Taranto. Incredibile, ma fin troppo vero: la celeberrima città antica, fino ad alcuni anni fa, neanche si sapeva dove fosse dislocata. Dobbiamo anche in questo caso ai tecnici della Fondazione Lerici, oltreché a quelli dell'Università di Pennsylvania, la localizzazione dell'abitato a grande profondità. C'era tant'acqua sotterranea che è stato necessario utilizzare, per gli scavi, un ulteriore ritrovato della tecnica moderna, i well-points: tubi che, conficcati nel terreno e raccordati da un collettore, aspirano la massa liquida. Così hanno avuto inizio gli scavi di Sibari: resti di edifici, frammenti di sculture, bronzetti e terrecotte figurate testimoniano sul terreno e nel Museo locale le prospettive di una ricerca allo stadio iniziale.
Policoro corrisponde all'antica Siri-Eraclea. Qui è il Museo della Sirtide, semplicemente magnifico, che si sviluppa di giorno in giorno, raccogliendo le testimonianze dell'abitato greco e dei dintorni. E pensare che, nel costruirne le fondazioni, casualmente si scoprì un santuario!
Siri-Eraclea può essere considerato uno dei più grandi centri artistici greci in Italia: per le teste e i busti della dea Demetra, per le figurine femminili, per gli splendidi vasi dipinti a figure rosse, con scene delle tragedie di Euripide. Tutt'intorno, la meravigliosa natura che va poi raddolcendosi, fino a Metaponto, ultima tappa prima di Taranto. Qui, osservando gli scavi in corso, si può rilevare che essi seguono un criterio preordinato, come se si sapesse prima ciò che si deve trovare. In realtà, è proprio questo che accade: le fotografie aeree realizzate da un maestro, Dinu Adamesteanu, sono lo strumento per la rivelazione della città antica, della quale si vede ormai bene l'impianto stradale e riemergono i templi con ricchi depositi votivi di opere d'arte. La pianta della città, com'è rivelata dalle fotografie aeree e dagli scavi, si vede bene nel locale Antiquario, ai margini dell'abitato, presso le famosissime Tavole Palatine.
Che nome singolare, per queste colonne greche che si levano in tutta la loro altezza sulla campagna, ancora con le basi e la trabeazione che le congiunge! Sulla loro antica funzione non abbiamo dubbi: appartennero a un tempio della dea Era. Quanto al nome, esso deriva da una leggenda che vale la pena di rievocare. Un paio di secoli fa, questa era ancora una landa deserta e selvaggia. Quando il vento fischiava tra le colonne, si pensava che portasse con sé esseri fantastici e lontani: i Paladini che si riunivano per concordare le loro imprese contro gli infedeli. Si sedevano, questi fantasmi altissimi, intorno a un'immensa tavola sorretta dalle colonne. Così la leggenda regna ancora in Magna Grecia.
Taranto è l'ultima grande città greca che s'incontra procedendo da Ovest verso Est, lungo la statale ionica. Annidata nella parte più interna dell'omonimo golfo, protetta e insieme aperta ai traffici mediterranei da un porto eccezionale che ancora la caratterizza, ha visto nei secoli un succedersi ininterrotto di costruzioni, che lascia in vista ben poco del passato: un tratto di mura, un paio di colonne. Ma quanta ricchezza nel suo Museo Nazionale! Ospita, infatti, una quantità impressionante di opere d'arte: della città e dell'intera area circostante. Fra l'altro le più grandi statue della fase più antica, le ,terrecotte figurate proprie di scuole che si trasmettevano i loro segreti attraverso i secoli, soprattutto l'arte dell'età ellenistica più recente, dalle statuette ai vasi dipinti e alle ricchissime oreficerie, vera gloria di Taranto. Sono diademi a foglie, collane con pendenti, orecchini nella tecnica finissima della granulazione. Ci rivelano un grande capitolo dell'arte antica, gli ori di Taranto. Si può tranquillamente immaginarli nelle vetrine di un gioielliere moderno: chi li distinguere e, se non pere e più splendidi?
Da Taranto ha inizio un'ultima parte del viaggio attraverso il Sud, che comporta però una scelta precisa. Le vie, infatti, sono tre: una per Lecce, che giunge al cuore del Salento; una per Brindisi, che ne esclude gran parte; una per Bari, che lo esclude per intero.
Ignorare il Salento vuoi dire ignorare le grandi novità dell'archeologia recente, che mostra da Cavallino a Leuca la presenza greca almeno dall'VIII secolo a.C., nel suggestivo incontro con la popolazione locale. In ogni caso, non èpossibile escludere Brindisi, dove, il Museo Provinciale raccoglie testimonianze che, mentre confermano l'ampia fioritura dell'Età Romana, dimostrano, specialmente con le terrecotte figurate e con la ceramica, la preesistente fase greca. Brindisi interessa inoltre come centro di una nuova branca dell'archeologia, quella subacquea. Sono proprio le scoperte in mare, da Torre Santa Sabina a Savelletri, che dimostrano l'antichità della penetrazione greca.
Da Brindisi a Bari, la costiera adriatica consente di prendere la via del ritorno. Attraverso Egnazia, punto d'arrivo del famoso viaggio narrato da Orazio nelle "Satire". E se il poeta si dimostra ancora capace di ridere e di scherzare sui pregiudizi del luogo (gli hanno raccontato che, sulla soglia di un tempio, l'incenso brucia senza fuoco), vuoi dire che era un gran viaggiatore: perché era giunto da Roma su una carrozza traballante, dopo notti di insonnia per il gracidare delle rane e lo schiamazzare dei servi, a stomaco vuoto perché i tordi dell'osteria s'erano bruciati. Certo, fu una grande città romana quella che vide, e di cui ci restano a largo raggio le testimonianze tra il verde cupo delle piantagioni di sedani, che costituiscono ancora una delle maggiori risorse agricole locali.
Sotto la città romana, gli scavi portano in luce quella anteriore, che fu dei Greci e soprattutto della popolazione locale, i Messapi, di cui vaste e ricche sono le memorie. C'è inoltre in quest'area una concentrazione di località turistiche con memorie storiche e con reperti archeologici di rilievo: da Torre Canne sul mare (e Canne nell'entroterra) con le terme di acque terapeutiche, a Selva di Fasano, da Alberobello e i suoi trulli a Castellana e le sue grotte, che costituiscono il panorama speleologico più spettacolare della Penisola. Questa è anche la terra di Rutigliano, sede delle recenti scoperte di un piccolo tesoro di ambre figurate, di bronzi per uso domestico e guerriero, di vasi dipinti con scene mitologiche. Non c'è il minimo dubbio che ci troviamo di fronte ad arte greca, appartenente alla necropoli di un florido abitato. Forse, a Bari.
Bari. In mancanza di testimonianze esterne della città antica, evidentemente sepolta sotto quella moderna, la gloria della grecità è dimostrata dall'impressionante addensarsi delle opere d'arte, scoperte in tutto il circondario, nel Museo Nazionale. Percorrendo le sale di questa straordinaria raccolta, osservando la quantità strabocchevole delle sue componenti, non si può non restare sbalorditi. Il problema storico riguardante Bari, anzi, il più grande problema storico della città, si avvia a soluzione: secondo le guide, anche le più aggiornate, Bari sarebbe una città relativamente tarda, sviluppatasi solo dopo la conquista romana. Ora, però, proprio il Museo offre la soluzione dell'anacronismo. Più di cinquecento vasi greci, dipinti con scene mitologiche, indicano nell'area di Ceglie (il sobborgo dal quale provengono) l'antica sede della città, mentre quella attuale doveva essere soltanto lo scalo marittimo. La pubblicazione dei vasi a cura degli archeologi dell'Università non costituisce solo una vera e propria rivelazione, ma restituisce a Bari le sue antiche origini.
Risalendo le strade adriatiche, si diradano le presenze greche. Alla biforcazione di Canosa, in direzione interna, l'obiettivo è di primaria importanza: Candela. Da qui, infatti, si ritorna in Basilicata, verso Melfi e il Vulture. E' l'itinerario della scoperta confermata in questi giorni: i Greci partirono dalle spiagge pugliesi e penetrarono nella montuosa Basilicata. Questa regione è ormai un unico cantiere. Quale strada, infatti, percorsero i Greci? Quella da Canosa a Candela, che sfocia nel Melfese; e quella da Metaponto a Potenza. Dalla parte adriatica, potevano seguire il corso del fiume Ofanto; da quella ionica poteva risalire i corsi del Bradano e del Basentello. C'era anche la via del Tirreno, lungo il Sele e il Passo di Conza. Così, per strade molto disagevoli, ma pazientemente percorse, Melfi finì per costituire un punto di convergenza dalle tre sponde marittime. Il Museo Nazionale del Melfese, recentemente costituito nel castello di Federico secondo, raccoglie ed espone in parte i nuovi materiali scoperti. Ma scoperti come? Per paradossale che sembri, molti preziosi reperti si trovavano da tempo nelle cantine e rischiavano di andare in rovina per l'umidità, per l'incuria per l'abbandono. L'archeologo al quale si deve grandissima parte del recupero, Dinu Adamesteanu, che insegna all'Università di Lecce, ha narrato con grande semplicità la storia quasi incredibile della sua esperienza. E certo non è tutto qui: ha esplorato anche il terreno, e a questo punto il racconto ha dell'inverosimile e dell'affascinante: "Negli umidi depositi del Castello di Federico li, al piano terra, dove per più di sei mesi l'acqua penetrava da ogni parte, si trovava un'ingente quantità di materiale archeologico. Un'altra parte, molto piccola, in parte restaurata, si trovava al piano superiore, chiusa in una stanza marginale. Nei carteggi della Soprintendenza, si trovavano tre rapporti fatti dal benemerito professor Cassotta da Melfi, ispettore onorario della zona, in cui si avvertiva la stessa Soprintendenza che durante i lavori eseguiti nella contrada Chiucchiari, a Melfi stessa, con cantieri di lavoro, erano venute alla luce, tra altre sepolture, cinque grandi tombe".
Da queste tombe, dunque, oltre che da quelle scavate in seguito, provengono i materiali scoperti. Abbiamo assistito, a suo tempo, al lavoro con cui i reperti sono stati tolti dalla melma, puliti, restaurati. Ricordiamo con emozione la generosità dell'archeologo, che forniva non solo le informazioni, ma anche le fotografie degli oggetti riportati in superficie. E crediamo di avere imparato da lui, in larga parte, quell'arte dello "scavo in museo", che abbiamo poi applicato con favorevoli risultati in altre regioni d'Italia.
Oggi, il Museo di Melfi, come quello "Ridola" di Matera, dove si è svolta una vicenda analoga, raccoglie, tra "scavi in museo" e ricerche sul terreno, le creazioni di un'arte che fiorì tra il VI e il IV secolo a.C. e che nessuno avrebbe prima supposto in una regione così interna, così lontana dalle maggiori vie di comunicazione, così tradizionalmente (e ingiustamente) depressa. Sono anzitutto corazze, schinieri, cinture, decorazioni di carri da guerra e da parata in bronzo: le figurazioni finemente incise mostrano animali stilizzati e contrapposti in coppie, palmette e serpenti attorti; insomma, in prevalenza oggetti di gusto ornamentale. Altri bronzi sono estranei alla guerra: specchi dai manici figurati, recipienti di vario tipo, colini, aspersori, tripodi, candelabri tra cui uno di straordinaria bellezza con un giovinetto tra quattro serpenti.
Non meno ricca è la ceramica. I vasi, di tipo assai vario, spesso adattati in forme animali, decorati a colori vivaci (rosso, seppia, giallo), mostrano decorazioni talvolta geometriche, talvolta animali, che si caratterizzano per la loro bellezza espressiva. Si aggiungano le ambre lavorate, tra cui alcune teste femminili e un guerriero alato. Ma veniamo al punto essenziale: quest'arte lucana che improvvisamente ci si rivela in tutta la sua ricchezza, può dirsi, e fino a qual punto, greca? Ebbene, greca può dirsi senza dubbio e largamente d'ispirazione; ma su tale ispirazione è intervenuta una libera vena locale, vivace, popolaresca, che ha elaborato i modelli in nuove forme, con scelte autonome e originali.
Sembra evidente che nelle regioni interne della Magna Grecia vivessero famiglie principesche, che si opposero all'espansione greca e al contempo, come poi faranno i Romani, ne assimilarono e ne rielaborarono la cultura. Anche questa è una rivelazione recente, che illumina, in queste terre tanto ricche di fascino e tanto neglette dal turismo banale e di maniera, il senso della più antica storia d'Italia.

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