§ IL NOSTRO MEDITERRANEO

MARE MORTO




Enrico Surdo, Carlo Martini



L'attività dei pescatori di frodo nell'area salentina non è mai cessata. Sono almeno vent'anni di azione sterminatrice, e i risultati sono sotto gli occhi di tutti: specie in via di estinzione, altre specie scomparse dalle nostre coste, vie alimentari sconvolte, impoverimento generale del patrimonio ittico, ricorso ad aree marine sulle coste settentrionali dell'Africa e sulle dirimpettaie coste della Jugoslavia, con un pagamento di pedaggi, per accordi bilaterali tra autorità governative. In questo contesto, i responsabili del nostro Paese si trovano di fronte a diverse difficoltà. Innanzitutto, è scarsa (e in alcuni casi addirittura inesistente) la vigilanza costiera settoriale, poiché la maggior parte dei mezzi viene impiegata per contrastare traffici illegali (tabacco, armi, sostanze stupefacenti). In secondo luogo, non si creano centri di studio per la riproduzione e per il successivo ripopolamento delle acque. La ricerca scientifica, applicata rigorosamente in altri Paesi, da noi è ancora scienza d'un altro pianeta. E intanto i fondali vengono distrutti, gli inquinamenti rischiano di trasformare l'intero Mediterraneo in un gran lago morto, e la pesca di frodo completa il panorama e fa emblematico il deserto sottomarino. E' appena il caso di ricordare, per converso, che i giapponesi hanno creato lungo le loro coste, in grandissimi specchi d'acqua, le "sea farms", le fattorie marine, introducendovi addirittura specie sconosciute in precedenza (come le "granseole", un giorno stanziate nella sola laguna veneta), con flora importata e "coltivata": è l'habitat indispensabile per la riproduzione. Altrove, dunque, si ripropone, in termini scientifici, la moltiplicazione dei pesci. Da noi, su migliaia di chilometri di coste, si perpetuano storie di distruzione.
Il primo congresso mondiale sull'acquacultura, indetto congiuntamente dalla European e dalla World Mariculture Society, si è tenuto nell'ottobre 1981 a Venezia, presenti tecnici e operatori di settantotto Paesi. Significativo, fra gli altri, l'intervento dell'indiano Pillay, portavoce della Fao. Ha fatto notare come alla crisi della pesca - che nel 1980 ha registrato una diminuzione netta di ben 300 mi a tonnellate - corrisponda un produzione crescente da parte dell'acquacultura: nove milioni di tonnellate nel corso dell'anno, che si prevede raddoppieranno nel prossimo decennio. Eppure, ha aggiunto, tutto ciò non deve indurre a superficiali illusioni: l'acquacultura, pur fornendo un contributo rilevante, non ci salverà mai dalla fame. Esistono inoltre problemi che proprio il suo recente sviluppo ha evidenziato: ormai l'acquacultura è diventata un enorme e complicato business che coinvolge delicati aspetti, anche politici, e in cui confluiscono, integrandosi, le tecnologie e gli interessi più disparati.
A questa complessità di contenuti vanno poi aggiunti gli inevitabili problemi tecnici che tuttora sussistono. Fra tutti, probabilmente il più sentito è quello della produzione, dunque la disponibilità per l'ingresso, di novellame da semina. In Europa, la riproduzione artificiale di spigole, orate, rombi e sogliole è oggi - per le prime due specie mediante l'iniezione di ormoni ipofisari, le gonadotropine - di uso corrente, ma i grattacapi iniziano poco dopo la schiusa delle uova: le piccole larve soffrono di patologie e vengono decimate durante due momenti critici ben precisi, che corrispondono all'inizio dell'alimentazione, allorché cominciano a predare sullo zooplancton che viene loro fornito come cibo vivo, e al periodo in cui, trascorsi anche un paio di mesi, devono subire lo svezzamento alimentare.
Va sottolineato, oltre tutto, che sebbene ritenuta attività "ecologica" per eccellenza, in realtà persino l'acquacultura non è esente da peccati contro l'ambiente. Lo ha rivelato, sempre a Venezia, l'intervento di un ecologo, il tedesco Kinne. L'eccessiva forzatura degli allevamenti, sempre più intensivi, e l'introduzione di nuove specie in ambienti diversi da quelli originali - peraltro avvenuta un pò ovunque e quasi sempre con successo - faranno inevitabilmente emergere forme patologiche. Senza contare che le acque, che un moderno impianto di acquacultura scarica, sono ricche di materiale organico e non possono non influire sull'ambiente nel quale vengono riversate. Questa, oltre che un'ingerenza, rappresenta uno spreco: quelle acque dovrebbero essere purificate e riciclate, innescando la produzione primaria di fitoplancton, alghe, batteri, microorganismi. Già, i batteri! Perché mai, dal momento che sono teoricamente necessari cento chili di microorganismi per arrivare a produrre un chilo di pesce, dovremmo consumare tanta energia? Esistono batteri che, oltre all'economicità di produzione, garantiscono all'uomo un valore nutritivo elevato. Ecco che allora si schiude - secondo Kinne - un'ipotesi avveniristica, un'evoluzione della stessa acquacultura: per soddisfare la crescente domanda alimentare di un pianeta sempre più sovrapopolato, l'uomo dovrà cambiare gusti, adattandosi a cibi che oggi gli appaiono improponibili, ad esempio i batteri. Fantascienza? Ce lo auguriamo. Per noi, che importiamo spigole e orate, mentre dissanguiamo i nostri mari, disdegnando persino l'eccellente pesce azzurro di cui ancora disponiamo, lo choc sarebbe forse eccessivo.
Un'impresa per la produzione di novellame sorge a due passi dal Capo Lilibeo, presso Marsala. E' una "fabbrica di pesci" che è al lavoro, su base industriale, da due anni, e fornisce avannotti di novanta giorni -quattro centimetri e mezzo di lunghezza, un grammo o pochissimo più di peso, 350 lire di valore venale -ad allevamenti della Sardegna e dell'area di Trapani. Si è specializzata nella produzione di orate e di spigole e, se le cose andranno per il meglio, dal 1982 produrrà in batteria anche saraghi.
E' il primo stabilimento al mondo che riproduce orate a carattere industriale; il primo in Europa che produce industrialmente le spigole; il primo a proporre nel vecchio continente l'allevamento intensivo di specie marine, quali appunto le spigole e le orate, che sono i pesci di maggior pregio sui mercati europei. E' una fabbrica, infine, che ha richiamato l'attenzione della Fao e di tecnici e specialisti di ogni Paese, compresi russi e americani.
In realtà, la strada dell'avannotteria è sempre stata considerata irta di difficoltà per il basso indice di sopravvivenza larvale. Eppure, a Marsala sono riusciti a superare questo handicap. Allora è evidente che nuovi orizzonti possono schiudersi per le località costiere minacciate da tritolo e da inquinamento: si può far ricorso al ripopolamento da acquacoltura, ovviamente se c'è convenienza economica.
Sono al lavoro sette persone in tutto, quattro delle quali tecnici: tre biologi, responsabili rispettivamente della tecnologia degli impianti, della produzione primaria e dell'avannotteria, e un chimico, responsabile della produzione dei mangimi e dell'analisi delle acque. E questi quattro tecnici sono riusciti a riprodurre il miracolo della vita, con accoppiamenti naturali, e nei periodi naturali di frega: dunque, senza "spremiture"; con una femmina che depone le uova e con un maschio che le feconda.
Le uova, una volta fecondate, vengono raccolte in una vasca-nido, dove una luce verdeazzurra ripropone la luminosità propria dei fondali marini, e termostati controllano la temperatura, e piccoli tubi di silicone trasmettono le necessarie quantità di ossigeno. Le uova (minuscoli puntini bianchi, appena visibili a occhio nudo) appena schiuse galleggiano a mezz'acqua, e le larvette neonate appaiono sospese come in un liquido limbo, raggruppate in una specie di pulviscolo sottile, simile a una microscopica galassia composta d'un'infinità di minuscoli corpicini biancastri, vibranti di vita, in un tremolio appena percepibile.
Nelle vasche successive, altre spigole e altre orate, in stadi sempre più avanzati: larve di due o tre giorni, ancora alimentate attraverso il riassorbimento del sacco vitellino; pesci di due o tre millimetri; avannotti di tre-quattro centimetri, pronti ad esser ceduti al mercato degli allevamenti e già abituati al mangime tipico delle aziende d'ingrasso.
Quale ciclo si segue?
Dal momento della fecondazione, bastano due o tre giorni perché l'uovo si schiuda, liberando la larva, e perché questa, attraverso passaggi intermedi, nel giro di un paio di mesi si trasformi in avannotto. Ma non è un ciclo semplice. Uno dei problemi più complicati che si é dovuto risolvere é stato quello dell'alimentazione delle larve fino allo svezzamento. Ma anche qui la soluzione trovata si é ispirata a ritmi naturali. Si è somministrato ai pesciolini quell'alimento che i loro fratelli trovano nel mare, cioè lo zooplancton, vale a dire quegli organismi marini composti di poche cellule, che variano da una grandezza di 100-300 micron per i Rotiferi a 500 micron in media per la Artemia salina e che si coltivano in zone appositamente attrezzate, a partire dal fitoplancton, cioé da alghe unicellulari. Per poter alimentare le larve, si è ricostruita in laboratorio quella catena alimentare che é presente naturalmente in tutti i mari.
Successivamente, gli avannotti, che dai sessanta agli ottanta giorni misurano mediamente un paio di centimetri e mezzo, vengono alimentati con mangimi granulati secchi, la cui composizione è a base di farina di pesce, farina di cereali, caseina, e integrato con oligoelementi e vitamine. Questa dieta si protrae fino al novantesimocentesimo giorno di vita: da questo momenti, gli avannotti vengono seminati nei bacini di allevamento e sottoposti a diete intensive di ingrasso.
Siamo dunque giunti alla ricostruzione di ritmi e di cicli vitali, in un'iniziativa che "costruisce" e vende avannotti, ma vende anche tecnologia; ed è importante anche da questo punto di vista, se si considera che nel solo nostro Paese si consumano circa sei milioni di quintali di pesce, farina, fresco, surgelato ed essiccato ogni anno, e che per il quaranta per cento si tratta di pesce importato, con una dipendenza dall'estero che nel 1979 ha pesato sulla bilancia commerciale per una somma di seicento miliardi di lire, pari a circa due miliardi al giorno, mentre per l'80 si sono sfiorati i settecento miliardi.
L'acquacoltura - se ne parla ormai da anni - potrebbe consentire di sganciarci dalla dipendenza dall'estero, in tutto o in buona parte, rendendo fertili tutte quelle terre marginali dove è possibile l'allevamento di anguille, di cefali, di spigole, di orate. Ma nel nostro Paese l'acquacoltura ha una produzione di appena 783.000 quintali all'anno (citiamo da una relazione del professor Lumare, presentata per il Consiglio Nazionale delle Ricerche alla Conferenza Nazionale della Pesca). Di questa produzione, il 63 per cento interessa la mitilicoltura, il 7,1 per cento riguarda la vallicoltura e la stagnicoltura, il 25 per cento èindirizzato verso la piscigattocoltura e solo l'1,9 per cento si incentra nell'anguillicoltura. Nel complesso, la produzione degli allevamenti rappresenta circa il 25 per cento di quei tre milioni e mezzo di quintali di organismi acquatici raccolti lungo le nostre coste con la pesca.
Per l'allevamento del pesce marino, quindi, siamo ancora a quantitativi da incrementare. Si potrebbe fare infinitamente di più, perchè le potenzialità ambientali sono molto favorevoli. Ma siamo ai primordi per ciò che riguarda le strutture tecniche e quelle scientifiche che devono operare da supporto, sia per lo scarso impegno politico sia per la relativa giovinezza del settore. Proprio a Marsala, in un'area depressa, nel pauroso vuoto di iniziative esistente in questa terra siciliana, si é fatto qualcosa di concreto. E si pensi che la Finanziaria Meridionale ha già speso diversi miliardi per finanziare la ricerca sulla riproduzione delle spigole, in collaborazione con un Ente di stato francese; e gli scienziati francesi, da oltre due anni sulle nostre sponde, sono pagati per tentare di riprodurre le spigole che al Capo Lilibeo si riproducono con cicli naturali e con ritmi industriali.
Morta a Gallipoli e nello Jonio, la mattanza muore anche in Sicilia. Il rituale, terribile e bello, con cui il tonno prigioniero viene arpionato e ucciso nella "camera della morte" agonizza, trafitto a sua volta dall'inquinamento, dal supertraffico costiero, dai moderni, rapaci sistemi di pesca atlantici e mediterranei, dagli esplosivi. Gli scarichi incontrollati, le sarabande di barche, traghetti, aliscafi, motoscafi, deviano dai vecchi e risaputi passi i "tonni genetici", i grossi pesci che nel periodo della riproduzione cercano acque appartate e pulite. Pescherecci di cento nazionalità, appostati lungo le rotte seguite per millenni dall'esemplare meno furbo della fauna marina, intercettano la preda quando èancora lontana dalle trappole alle quali sarebbe destinata. Gli effetti si scontano sulle rive nord-occidentali della Sicilia, nelle Isole Egadi, nella loro capitale, Favignana, nelle coste joniche della Calabria, in tutte quelle comunità la cui economia si imperniava sul tonno e che, ora, non trovano una congrua alternativa nell'agricoltura e neanche nel turismo.
La mappa delle tonnare - i caseggiati a terra e i marchingegni di reti disposti in mare all'inizio della stagione del passaggio per ingabbiare i tonni che, poi, i pescatori spingono verso la camera finale - si e progressivamente ristretta e una serie di croci immaginarie, simbolo di cessate attività, potrebbe segnare postazioni una volta famose e redditizie.
Una volta, nei tempi d'oro, dai primi del secolo all'anteguerra, l'economia del tonno era una delle caratteristiche del Tirreno e dello Jonio, e i pescatori calavano le tonnare persino davanti alle coste tunisine e libiche. Ora i palangari, "tonnare volanti", traina, che consentono di fare pingui bottini con poca spesa e nessuna fatica, hanno reso antieconomiche le orme tradizionali e quasi patetica la figura del tonnarolo che attende con l'arpione in pugno il sempre meno frequente mastodonte. I palangari giapponesi, grosse funi da cui pendono altri fili con ami innescati, fanno le prime stragi davanti alle coste atlantiche dell'Africa. Alle Eolie, barche messinesi, catanesi, palermitane, salernitane, si addentrano nei banchi avvistati dall'alto e calano le tonnare volanti, grandi ciancioli che permettono di cingere o catturare sciami di tonni. Il resto lo fanno francesi, maltesi, italiani, spagnoli, jugoslavi e altri ancora, prendendo i tonnarelli piccoli e non ancora smaliziati alla traina, cioé con un filo di nailon alle cui estremità stanno un amo e una penna che viene scambiata per un piccolo pesce.
Per questo, a resistere sono rimaste in tutto due o tre tonnare, e più per un caparbio ossequio a un passato di prestigio che per un presente vantaggioso. Calare una tonnara, del resto, costa oggi dai 350 ai 450 milioni di lire.
Il passaggio dei tonni, descrescente nel dopoguerra, si è rapidamente rarefatto in questi ultimi anni. A Favignana ancora nel 1974 se ne catturavano 3.500, ma nel 1979, ultimo anno di attività di tutte le tonnare isolane, se ne catturarono solo 800 (1.116 in tutto il trapanese). L'anno scorso si è registrato il minimo storico: 500. Nel corso dell'81 c'é stata una lieve risalita 597, mentre anche dalle tonnare spagnole si segnala una ripresa di passaggi. Tuttavia, fanno notare gli esperti, é troppo poco e troppo presto per contare in un'inversione di tendenza che, probabilmente non ci sarà mai più. Racconta un "rais", cioé un capociurma, che c'erano mattanze di 7-800 tonni, e di mattanze se ne potevano fare da otto a quindici all'anno. Ci sono targhe commemorative delle vette toccate: 10.159 tonni, record assoluto, nel 1859; 7.361 nel 1957, cifra di tutto rispetto agli albori della crisi.
Allo stato attuale, l'80 Per cento del tonno consumato nel nostro Paese é giapponese. Strutture che potrebbero dare cento, danno appena dieci: ecco la radice della crisi produttiva italiana. La stagione é lunga, ma i giorni veramente lavorati non sono molti: quelli della calata e della levata delle reti, quelli della mattanze. Così, tutto viene a costare più caro, il pesce fresco e quello salato, il tonno in scatola, il fegato, il lattume, le uova ovvero la bottarga che, quando è pronta, in settembre, oscilla dalle 80 alle 100 mila lire al chilo.
Il pesce fresco, il Thunnus tynnus dall'incomparabile sapore, il tonno rosso che si pesca nel Mediterraneo, lo acquistano in gran parte i giapponesi, che lo mangiano crudo, e in cambio ci rifilano lo yellowfin, l'insipida pinna gialla che, magari, poi in Italia si "taglierà con un grissino", ma che è tutta un'altra cosa. Intanto, si è appurato che il tonno rosso, oltre che sempre più raro, sta diventando anche meno fecondo. Nei mari siciliani si è cominciato a mettere in gabbia tonni da 150 chili (le ricerche sono coperte dal segreto, ma pare si tratti di tonni non rossi, esemplari di tonno subjuveniles), con l'intento di accertare le possibilità di riproduzione in cattività. Finora, si é superato solo il primo scoglio: dopo aver rifiutato per quindici giorni il cibo, i tonni prigionieri hanno mangiato sarde. Per quanto ci é dato sapere, oltre non si é riusciti ad andare.
Lentamente, ma forse inesorabilmente, il Mediterraneo, si avvia a diventare un mare morto. Dicevamo del traffico intenso. Dobbiamo aggiungere anche i danni prodotti dal passaggio delle petroliere, che seguono la via preferenziale del Canale di Suez, e soprattutto quelli procurati dal lavaggio delle stive, con scarichi in mare aperto e con la creazione di quelle grandissime "macchie" che, giungendo sottocosta, hanno creato un mostro devastatore, l'alga rossa, simbolo del deserto senza vita. E ancora: gli scarichi industriali costieri da impianti di raffinazione e di trasformazione del greggio; gli scarichi urbani; le rapine edilizie, che stanno assorbendo, distruggendole, le ultime fasce di dune; le bonifiche indiscriminate e i prosciugamenti, che hanno cancellato stagni e lagune e bacini a marea. Dal dopoguerra, in particolare, si sono sommati delitti ecologici a delitti ecologici. E poiché si é trattato di delitti che rendevano bene, nessuno ha voglia (per quanto se ne parli: e se ne parla fin troppo) di completare studi sul territorio. Forse anche perché nel nostro Paese si preferisce (e non solo per amore di fliologia) parlare di "riassetto" piuttosto che di "assetto". E i riassetti sono quasi sempre altre fonti di reddito per gli speculatori, sono specie di aree di bassa pressione che richiamano, per le sistemazioni di rovine consapevolmente prodotte, capitali pubblici.
Insieme con la Calabria, il Salento gode di una favorevolissima posizione geografica, posto com'é a cavallo di due mari, fra l'altro assai diversi fra di loro, e dunque in grado di sviluppare attività differenziate ma complementari. Dal punto di vista "qualitativo", i due mari salentini godono una salute diversa da quella di altre fasce marittime costiere italiane. La presenza degli impianti petrolchimici a Brindisi, quella dell'italsider e della Shell (IP) a Taranto, non hanno compromesso le coste se non in piccole aree locali. Rispetto al tasso medio di inquinamento dei mari italiani, dunque, le acque salentine possono considerarsi privilegiate.
Il calo della pescosità, dunque, non è imputabile a quelle cause generali di deperimento delle acque che hanno provocato i collassi pescherecci, ad esempio, dei mari di Napoli, di Genova, di Livorno o di Pescara. Non é l'industria che ha messo in crisi la pesca; sono le attività di frodo che hanno determinato l'impoverimento, stravolgendo i sentieri subacquei, le "strade azzurre", come le definiscono gli specialisti. Scomparso il tonno, o comunque rarefatto in termini assoluti, anche il sarago ha preso il largo; i grandi passi di una volta sono rimasti solo nel ricordo di chi fu protagonista di grandi retate. E i tentativi di ritorno sulle antiche rotte, che quasi obbligatoriamente portavano i pesci a doppiare il Capo di Leuca, vengono frustrati dagli agguati sterminatori di poche decine di persone, del resto facilmente individuabili, e in ogni caso note per la loro attività, che operano impunemente da posti fissi, dalla costa e in mare aperto.
Così, si incrementa la diseconomia del mare. Niente, o quasi, vallicoltura né acquacoltura, in una zona che pure non difetta di acque interne, sia pure di limitata dimensione. Niente immissione nel mare di avannotti, niente ricreazione dell'habitat, sul tipo, appunto, di quelle fattorie marine che costellano le aree del Giappone; niente centri intensivi di riproduzione per l'arricchimento dei mari, come vorrebbero logica dell'economia e logica dell'ecologia. Si fa il discorso alla rovescia, come se i mari salentini fossero serbatoi senza fine, o peggio ancora, come se, una volta esaurite le loro potenzialità, Jonio e basso Adriatico si possano ignorare dal punto di vista produttivo. Questa é la tecnica dello spreco, in una terra che ha da tempo disarmato le flottiglie e che, fra non molto, correrà il rischio di dover mettere in disarmo anche i trattori per l'esiguità delle proprietà terriere, per la concorrenza straniera, per la fuga dai campi. Di che si vivrà, dopo, nessuno è venuto a dircelo. In via di tramonto il mito dell'industrializzazione, gonfiato in modo abnorme anche il terziario, ci resta un turismo stagionale che neanche si é posto il problema del lungo periodo annuale: quell'arco di tempo maggiosettembre che altrove, in Calabria e in alcune zone della Sicilia, ad esempio, è già ampiamente e sapientemente sfruttato. Dopo di che, ci resterà il non-lavoro, cioé l'assistenzialismo totale assurto a sistema. Il mancato riequilibrio delle attività produttive si paga. Si paga anche lo scialo. E per correre ai ripari, se é troppo tardi, non c'è intervento pubblico che tenga.

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