§ I NUOVI ECONOMISTI

GLI UOMINI DELLA "SCOMMESSA ITALIA"




Dario Giustizieri, Lucio Tartaro



Fino alla fine degli Anni '60 erano un gruppo ristretto, che preferiva, con poche eccezioni, restare segregato all'interno delle Università. Ogni economista vestiva la casacca di qualche Scuola e incrociava la penna con i colleghi in dotte dispute teoriche. Oggi, invece, gli economisti sono davvero tanti (1.500 almeno, contando solo quelli che lavorano negli Atene!) e sono dappertutto: nel Governo e in Parlamento, nei Consigli di Amministrazione delle imprese e alla testa di grandi Banche, nelle società di consulenza e al vertice dei giornali. Anche le casacche sono quasi tutte scolorite, le divisioni in Scuole sono sempre fluide e incerte. Dieci o quindici anni fa, chi avesse voluto tracciare una mappa degli economisti italiani poteva contare su alcuni punti di riferimento certi. C'era innanzitutto la Scuola Marginalista, che puntava sull'autosufficienza dei meccanismi di mercato. Tra i nomi più noti, quello di Ugo Papi. C'era però, già affermato, un altro gruppo di docenti, che aveva studiato a fondo la lezione di John Maynard Keynes sul ruolo dello Stato nel sostenere la domanda globale e che, sia pure con nette distinzioni interne, si collocava più a sinistra. Era una generazione che aveva vinto la battaglia della programmazione all'inizio degli Anni '60. Qualche nome tra i più illustri: Paolo Sylos Labini, Giorgio Fuà, Sergio Steve e Federico Caffé. E Ferdinando Di Fenizio, il primo a introdurre Keynes nella cultura italiana e tra i primi a occuparsi di programmazione.
C'era, poi, a fianco di questi maestri, un'altra generazione, di professori più giovani, con una forte preparazione teorica maturata quasi sempre in studi all'estero, attenti alle nuove tendenze del dibattito dottrinale, ma anche più pronti a un impegno diretto nella politica. Gli economisti più noti si chiamavano Siro Lombardini, Luigi Spaventa, Beniamino Andreatta, Mario Arcelli. Fu proprio Spaventa, all'inizio degli Anni '70, a portare un attacco a fondo alla cultura tradizionale. La sede prescelta fu la Società degli Economisti, da sempre roccaforte del pensiero economico più tradizionale. Utilizzando soprattutto le teorie di Piero Sraffa, Spaventa sostenne che non esiste un equilibrio ottimale nella distribuzione della remunerazione tra i fattori della produzione: possono esistere varie situazioni, che premiano maggiormente il capitale o il lavoro e che dipendono dallo stato del conflitto esistente tra queste due forze. Era una grossa spallata al liberismo con pericolose conseguenze pratiche (e qualcuno fa discendere da questi discorsi la teorizzazione del salario come variabile indipendente nel sistema economico) e a Spaventa rispose con veemenza Veniero Del Punta, professore a Roma e caporedattore della rivista teorica della Confindustria. Ma lo scandalo tra gli addetti ai lavori fu grande e tutti si aspettavano un dibattito lungo e appassionato. Invece, negli anni successivi, non accadde nulla.

Quel che resta delle Scuole
In realtà, sia che lo facciano con lo spirito un pò avventuroso e pasticcione del bricoleur, sia che lo facciano con rigore e attenzione ai problemi teorici e con lo sforzo di trovare soluzioni nuove, tutti gli economisti oggi chiamati a svolgere compiti pratici appartengono più o meno a un'unica Scuola, cioé al grande filone keynesiano, che ha avuto un tenace assertore nella scuola di Bologna guidata da Andreatta. Trasferire in Italia le teorie keynesiane si è rivelato difficile, perché lo strumento fiscale, che Keynes privilegia, da noi é poco efficiente.
Ai margini della grande corrente keynesiana, c'é oggi il gruppo più teorico e astratto dei neoricardiani in senso stretto, che hanno in Pierangelo Garegnani di Roma il loro esponente più significativo. Sono il gruppo rimasto più vicino alle teorie di Sraffa e sono un punto di riferimento per tutti gli altri Keynesiani che si occupano di teoria, anche se con frequenti polemiche. Sono infatti accusati di aver tentato una sintesi mostruosa tra autori profondamente diversi, da Ricardo a Marx, da Sraffa a Keynes, ricavandone una teoria economica parziale e sostanzialmente poco utile per capire la realtà.
Meno astratto è invece il secondo filone che si richiama a Sraffa e alla Scuola di Cambridge e che ha in Lunghini (Pavia) e in Gianni Nardozzi (Firenze) due degli economisti più noti. Rifiutandosi di interpretare la teoria economica attraverso il filtro di un solo gruppo di autori, gli economisti di questa tendenza cercano di abituare gli allievi a considerare l'analisi economica come uno strumento profondamente influenzato dai tempi in cui fu formulato. Tipica di questo gruppo è anche la grande attenzione verso gli aspetti istituzionali dei problemi economicì: un contesto cui è molto attento anche Michele Salvati, dell'Università di Modena. L'esperienza di Modena è indicativa della crisi vissuta dalle Scuole economiche in Italia. Nell'Università della città emiliana, all'inizio degli Anni '70, si riunì un gruppo di economisti di sinistra - marxisti, sraffiani, keynesiani puri -che intendeva dar vita a un'Università con una forte caratterizzazione ideologica. Oltre a Salvati, c'erano Ferdinando Vianello, Marco Lippi, Massimo Pivetti. Ma in pochi anni il tentativo fallì, perché i dissensi all'interno del gruppo superavano gli elementi di coesione. E ora Salvati si occupa sempre meno di teoria economica e sempre più di problemi concreti, a metà strada tra l'economia e l'analisi delle istituzioni.
Al di fuori della galassia keynesiana, ci sono gli unici gruppi ai quali è possibile dare un'etichetta politica definita: a sinistra i marxisti puri, il cui esponente più importante è Mario Nuti, e a destra i neomarginalisti, decisi a rivendicare uno spazio crescente nel pensiero economico. Gli esponenti più noti sono Sergio Ricossa e Domenico Tosato (Torino).
Accanto a questi filoni, che rappresentano al momento le tendenze più significative e stabili del pensiero economico, si intrecciano mode, atteggiamenti, idee nuove che complicano ulteriormente il quadro. C'è, per esempio, il gruppo dei monetaristi: nella politica economica italiana, l'uso dello strumento monetario prevale su qualunque altro, ma nessun economista che si occupi di questi problemi - né Mario Monti (Bocconi), né Andreatta - è disposto a definirsi seguace della Scuola di Milton Friedman, che vuole controllare la politica economica esclusivamente (o quasi) attraverso il governo della quantità di moneta immessa nel sistema. C'è la nuova moda della teoria dell'offerta, che mira soprattutto a operare attraverso la leva fiscale per elevare i livelli dell'attività produttiva (ma nessuno in Italia lo propone). C'è il keynesismo rivisto a cui si ispirano gli economisti socialisti, a cominciare dal loro uomo-guida, Francesco Forte, che pur mantenendo fermi i capisaldi della politica economica keynesiana, sottopone a rimeditazione lo Stato assistenziale per snellirne e decentrarne le strutture. Ci sono le nuove teorie economiche che razionalizzano anche le aspettative degli operatori e la loro influenza sui livelli dei prezzi e dell'attività produttiva. Ci sono infine fiammate di neoprotezionismo del ristretto gruppo di economisti (Massimo Pivetti, Paolo Leon e altri), i quali ritengono che una politica di difesa delle produzioni interne potrebbe consentire di elevare il livello dell'attività economica e migliorare la distribuzione del reddito.

Il boom dell'economia applicata
Ma gran parte degli economisti, oggi, parla d'altro. Alberto Quadrio Curcio (Cattolica) afferma che il 70 per cento delle ricerche che ottengono un finanziamento dal Consiglio Nazionale delle Ricerche riguarda l'economia applicata, anche se sempre con un risvolto teorico. Il rischio è che si tratti di ricerche troppo parcellizzate, su temi troppo specifici, e da cui è difficile ricavare indicazioni utili anche per far progredire ulteriori ricerche. Ma la qualità della ricerca è nettamente migliorata (su questo il consenso è generale) e gli economisti, anche quelli che provengono da Giurisprudenza o da Scienze Politiche, si sono impossessati ormai delle tecniche quantitative, con largo uso della matematica. E' anche passata la fase dei grandi econometrici: l'unico che funziona è quello Link di Prometeia, a Bologna, mentre anche la Banca d'Italia fa uso assai limitato del suo. Si diffondono invece altre ricerche econometriche, basate sulle matrici delle interdipendenze settoriali, (in questo momento almeno tre Università, e cioé Pavia, Venezia e Bologna, lavorano sui sistemi input-output).

Clima e rapporti internazionali
Nel complesso, la cultura economica nelle Università italiane è fortemente cresciuta negli ultimi anni: su questo giudizio il consenso dei docenti è pressoché unanime. I rapporti tra le sedi universitarie sono intensi. E' in programma una grande ricerca, con la partecipazione di professori' di quattordici Atenei, sullo sviluppo dell'economia italiana, nei suoi aspetti reali: si tratta di un progetto speciale del CNR. Ma già adesso si infittiscono le iniziative di coordinamento della ricerca, attraverso comitati di docenti. E alcune grandi Università si sono anche collegate per consentire un unico "dottorato di ricerca". Si sono anche moltiplicati i rapporti con l'estero e molti giovani si trasferiscono in Università straniere per un periodo fino a tre anni: non più solo alle due Cambridge o alla London School of Economics, ma ovunque ci sia un docente o una Scuola che li interessi. I titoli con cui arrivano sono apprezzati, e molti di loro ottengono presto il privilegio di pubblicare articoli su riviste di prestigio.
Insomma, è quasi un'età aurea per gli economisti. Ma con un neo: che le strutture in grado di assorbire economisti sono ormai in difficoltà. Smantellate le strutture della programmazione nazionale, in fase di ridimensionamento molti centri-studi economici aziendali, ormai al limite le strutture accademiche, i nuovi economisti vanno spesso a lavorare in organizzazioni collaterali (centri-studi regionali o sindacali), che per la loro impostazione strettamente legata all'attualità non consentono di fare vera ricerca. Dice Romano Prodi (Bologna): "I centri di studio e di ricerca dell'economia possono anche essere esterni all'Università, come accade con l'istituto Brooking di Washington. Ma allora deve trattarsi di strutture durature, che garantiscano al ricercatore una situazione stabile". Ma di questo tipo di struttura, finora, in Italia, c'è ben poco: forse solo Nomisma, il centro di ricerca sull'economia reale promosso dalla Banca Nazionale del Lavoro diretta proprio da Prodi.

Economia italiana dall'agricoltura al terziario
L'economia italiana dell'immediato dopoguerra era più agricola o terziaria che industriale. Ancora nel 1951, infatti la percentuale degli occupati del settore agricolo era del 44 per cento, contro il 29 per cento dell'industria e il 27 per cento del terziario. Il basso grado di industrializzazione si accompagnava a un livello di sviluppo economico modesto. Stime del reddito pro capite reale, aggiustate per tenere conto del diverso potere d'acquisto delle monete, mostrano che il nostro Paese raggiungeva nel 1950 un livello di reddito pro capite pari a circa un quarto di quello degli Stati Uniti, a meno di un quarto di quello del Regno Unito, al 54 per cento di quello francese e al 68 per cento di quello tedesco-federale.
L'arretratezza economica relativa dell'Italia ha però, per alcuni aspetti, facilitato la crescita economica negli Anni '50 e '60, permettendo un certo recupero rispetto ai Paesi più ricchi. Sistemi economici a livello intermedio di sviluppo, come erano l'Italia e il Giappone in quegli anni, hanno potuto raggiungere rilevanti tassi di crescita del prodotto nazionale, spostando forza-lavoro da un settore a produttività bassa, come l'agricoltura, a settori a produttività più alta, come l'industria, elevando così i livelli medi di produttività e di prodotto dell'intero sistema.
L'Italia nell'immediato dopoguerra aveva inoltre alcune peculiarità: una elevatissima disoccupazione (più del 10 per cento della forza-lavoro), un forte dualismo (tra Nord e Sud, tra salari e produttività, tra le medie e grandi imprese e quelle piccole e a carattere artiginale), un divario assai consistente tra i redditi degli impiegati e dei dirigenti rispetto ai lavoratori manuali e una distribuzione territoriale del reddito fortemente diseguale.

Le fasi dello sviluppo economico
Il periodo della ricostruzione (1946-1950) - Gli anni dello sviluppo (1951-1963) - Il periodo della ristrutturazione e del decentramento produttivo (1963-1973) - La fase successiva alla crisi energetica (dal 1973 ai nostri giorni).
Le due prime fasi sono state contrassegnate da una crescita del prodotto nazionale e della produzione industriale molto elevata, dovuta al recupero del potenziale produttivo prebellico, accompagnato dalla riconversione della produzione per usi civili e a un intenso processo di rinnovamento e ammodernamento degli impianti e dei macchinari.
Nella seconda fase, l'economia italiana ha continuato a svilupparsi a un ritmo assai rapido, e comunque maggiore della media dei Paesi industrializzati. Il prodotto interno lordo italiano è infatti cresciuto, tra il 1951 e il 1963, a un tasso di incremento medio annuo del 5,4 per cento, e anche gli investimenti, la produttività e le esportazioni sono aumentati assai velocemente. L'occupazione totale, invece, in ascesa fino al 1958, ha iniziato a ristagnare anche negli anni del boom economico, poiché la crescita occupazionale nell'industria e nel terziario riusciva a malapena a far fronte alla rapidissima riduzione dell'occupazione agricola. Anche di qui, le forti correnti migratorie, dapprima verso le aree del "triangolo", poi verso quelle dell'Europa comunitaria.
La terza fase (1963-1973) è stata caratterizzata da una crescita assai difficile e contrastata e quindi da un netto rallentamento del tasso di incremento del prodotto e dell'accumulazione, da una più forte e diffusa conflittualità sindacale (1969-1973) e, negli Anni '70, da maggiori tensioni inflazionistiche e nei conti con l'estero.
Il peggioramento tendenziale si è aggravato dal 1973 al 1980: si è infatti quasi dimezzato, rispetto al periodo precedente, il tasso di crescita del PIL (prodotto interno lordo), ma si è anche bloccato il processo di accumulazione. Se inoltre, nel periodo 1963-73, il tassi di incremento del prodotto e della produttività era stato ancora un poco superiore a quello medio degli altri Paesi dell'Ocse, successivamente non è stato più così. Mentre nella seconda e nella terza fase le esportazioni erano cresciute assai più rapidamente che nella media degli altri Paesi industrializzati, consentendo di aumentare, almeno fino al 1967, la quota italiana sul mercato mondiale dei manufatti, ciò non è stato più vero nella quarta fase. In quest'ultimo periodo, infatti, è aumentato il tasso sia di disoccupazione sia d'inflazione. I prezzi, che fino al 1972 erano saliti più o meno come nel complesso degli altri Paesi industrializzati, hanno iniziato a salire assai più rapidamente che all'estero, risentendo anche delle conseguenze della svalutazione della divisa italiana.

La fase della ricostruzione
La divisione del mondo in blocchi e l'inserimento dell'Italia in quello occidentale, vale a dire nella sfera di influenza americana, hanno condizionato fortemente le vicende politiche ed economiche successive.
Dall'essere uno dei Paesi più chiusi agli scambi con l'estero, l'Italia passerà in trent'anni a un grado di apertura assai elevato, con un'impetuosa crescita delle esportazioni e delle importazioni, con un interscambio indirizzato in misura maggiore verso gli altri Paesi della sfera occidentale e in particolare verso quelli che entreranno a far parte della Comunità Economica Europea.
Nella seconda metà degli Anni '40 si sono inoltre verificati eventi interni densi di significati e di conseguenze. L'indebolimento registrato dalla sinistra, sia a livello politico sia a livello sindacale, la scissione socialista e l'espulsione delle sinistre del governo, il successo del partito democristiano nelle elezioni del 1948 e la divisione del sindacato in tre tronconi: sono esempi importanti delle crescenti difficoltà incontrate dal movimento operaio. Dal punto di vista economico, gli oltre due milioni di disoccupati e la persistenza di ampie fasce di sottoccupati nelle zone rurali hanno contribuito ad accentuare la tendenza dall'indebolimento dei sindacati. Il quadro politico muterà in modo rilevante solo verso la fine degli Anni '50 e condizionerà fortemente la politica economica di fondo di quegli anni. Tale politica sarà fondamentalmente liberista, ma corretta dall'intervento pubblico in certi settori e zone dell'economia, realizzato soprattutto attraverso la Cassa per il Mezzogiorno, istituita appunto nel 1950, e attraverso le imprese a partecipazione statale.

Gli anni dello sviluppo
Gli anni che vanno dal 1951 al 1963 sono stati anni di sviluppo rapido e relativamente stabile (si sono registrate modeste recessioni nel 1954 e nel 1958). Alla fine del 1963 si è aperta la crisi economica che ha interrotto questa fase. Sintomi delle difficoltà esplose poi nel 1963-64 si erano però già manifestati negli anni del boom economico, per cui è forse più corretto parlare di due sottoperiodi distinti: dal 1951 al 1958, e dal 1959 al 1963. Nel primo, come nel secondo sottoperiodo, sono cresciute rapidamente le esportazioni, il PIL, la produttività e gli investimenti. La dinamica dell'occupazione, della forza-lavoro e dei salari è stata invece nettamente difforme nei due sottoperiodi. Mentre nel primo l'occupazione e la forza-lavoro aumentavano e i salari crescevano più o meno in linea con la crescita della produttività, nel secondo sottoperiodo si ebbero un arresto dell'occupazione totale, un calo della forza-lavoro e del tasso di attività e un incremento dei salari superiore all'incremento della produttività.
La riduzione della disoccupazione, i mutamenti sociopolitici generali (passaggio al centro-sinistra) e quelli interni al sindacato contribuivano intanto ad aumentare la forza contrattuale dei sindacati. Il loro rafforzamento, che si espresse nel periodo 1960-'63 in una maggiore conflittualità nelle fabbriche, la carenza di certi tipi di forza-lavoro qualificata in alcune aree del Nord industrializzato (mentre rimanevano rilevanti riserve di forza-lavoro in eccesso nelle regioni meridionali) e l'aumento del costo della vita contribuirono a spingere rapidamente in alto i salari monetari. Le fughe di capitali e il forte aumento della domanda interna, e quindi delle importazioni, conducevano intanto a un netto peggioramento della bilancia dei pagamenti.
Il deficit dei conti con l'estero e l'inflazione, giudicata per quei tempi troppo elevata (era giunta all'8 per cento), indussero la Banca d'Italia a mettere in atto nel secondo semestre del 1963 una stretta creditizia assai severa, che fece cadere gli investimenti, il livello d'attività e l'occupazione, aprendo così la strada alla crisi del 1964-'65.

Gli anni della ristrutturazione e del decentramento produttivo
Con la crisi del 1963-'64 si è aperta una nuova fase contrassegnata da una profonda trasformazione del sistema produttivo. Un primo periodo che va dal 1964 al 1968, ha visto soprattutto fenomeni di ristrutturazione, riconversione e razionalizzazione produttiva all'interno delle fabbriche, insieme con processi importanti di concentrazione economica e finanziaria. Ciò ha permesso - una volta superato, all'inizio del 1965, il fondo della crisi - di realizzare elevatissimi incrementi di produttività, ma a costo dell'intensificarsi dei ritmi di lavoro e dell'espulsione di 869 mila unità lavorative dal 1963 al 1966, seguita, nel triennio successivo, da una quasi completa stagnazione dei livelli occupazionali. In questo periodo, grazie all'indebolimento sindacale legato alla crescita della disoccupazione, sono state le direzioni delle imprese a condurre il gioco.
Intanto, il processo verso l'unità sindacale si rafforzava. Aumentavano nella base operaia il malcontento per i maggiori ritmi lavorativi e la protesta sociale verso le promesse governative non mantenute del programma economico nazionale 1966-'70. Nonostante, infatti, che il ritmo reale di crescita del PIL fosse maggiore di quello previsto dal piano, gli obiettivi aventi maggior contenuto sociale del piano stesso (forte aumento dell'occupazione, drastica riduzione del divario Nord-Sud, consistente aumento nella dotazione dei servizi sociali, numerose riforme di struttura, e via dicendo) non venivano nel frattempo quasi per nulla realizzati.
Il forte aumento della conflittualità del periodo 1969-'73 (ascesa della forza contrattuale dei sindacati, introduzione nelle imprese dei Consigli di Fabbrica, ecc.) ha condotto a una crescita salariale nettamente superiore alla crescita della produttività, a una maggiore rigidità nell'utilizzo della forza-lavoro e in definitiva a una riduzione dei margini di profitto. La risposta imprenditoriale all'aumento della conflittualità è stata però vigorosa. Essa é passata soprattutto attraverso il parziale trasferimento sui prezzi dell'aumento dei costi e il largo e crescente ricorso al decentramento produttivo e all'aiuto statale, mentre la difesa sindacale dei livelli occupazionali ha impedito alla stretta creditizia della primavera del 1970 di trasformarsi in un forte aumento della disoccupazione.
Il decentramento produttivo, con l'aumento dell'uso del lavoro a domicilio e di estese forme di lavoro nero, costituisce probabilmente la caratteristica fondamentale di questo periodo. Si è fatto ricorso al lavoro decentrato per diminuire il costo del lavoro (sia per i minori salari, sia per la frequente evasione dei contributi sociali) e per acquisire una maggiore flessibilità nell'uso della forza-lavoro, data la crescente rigidità che le lotte operaie, la presenza di un forte sindacato in fabbrica e l'introduzione dello Statuto dei Lavoratori avevano prodotto nelle grandi e nelle medie imprese.

La fase post-crisi energetica
Gli eventi esterni stavano nel frattempo scuotendo le economie occidentali. Dal 1969 al 1973 si era rivelato in Italia sempre più difficile mantenere sotto controllo i due vincoli della bilancia dei pagamenti e dei prezzi, e ciò in parte per eventi di origine interna (aumenti salariali, calo del tasso di crescita della produttività, aumento dei tassi d'interesse, crescita delle fughe di capitali) e molto a causa degli eventi esterni (crescita del costo delle materie prime, crisi monetaria internazionale, eccetera). Va inoltre tenuto presente che gli impulsi di origine esterna si producevano su un'economia di gran lunga aperta agli scambi con l'estero, e quindi più esposta agli effetti di trasmissione.
Il grado di apertura dell'economia italiana, misurato dall'interscambio (importazioni + esportazioni) in percentuale sul PIL, era infatti salito dal 14 per cento del 1961 a oltre il 20 per cento del 1973 nè la crescita sembrava essere in via di esaurimento. La necessità di rispettare i due vincoli, e fra questi, soprattutto, il vincolo dei conti con l'estero, aveva indotto le autorità di politica economica a una politica sussultoria, con brevi fasi espansionistiche seguite da bruschi colpi di freno.
La stretta operata all'inizio del 1970 era stata seguita da una politica più espansiva nel 1971-'72; ma il deterioramento dei conti con l'estero, favorito anche dall'aumento delle fughe di capitali, e il tentativo di ridare lato alle imprese consentendo loro di trasferire più agevolmente l'incremento dei costi sui prezzi, indussero la Banca d'Italia a passare nel febbraio 1973 alla fluttuazione della lira, vale a dire alla svalutazione nei confronti delle altre principali monete. Malauguratamente, ciò avvenne proprio in un periodo di rapido aumento dei prezzi delle materie prime, che culminò nella crisi energetica dell'autunno 1973. Il quadruplicamento dei prezzo del petrolio, avutosi fra l'autunno 1973 e l'inizio '74, associato alla svalutazione della lira, iniettò un formidabile impulso inflazionistico nell'economia e condusse a un forte aumento del deficit dei conti con l'estero. Continuò di conseguenza la politica di "stop and go". Le drastiche misure restrittive dell'ultimo trimestre del 1973 e dell'inizio del 1974 precipitarono l'economia nella crisi del 1974-'75, la peggiore del dopoguerra.
La ripresa successiva, agevolata dalla politica più espansiva del 1975, fu tarpata dalla crisi valutaria del marzo 1976. Il deficit estero e la caduta della lira indussero le autorità di politica economica a un'altra severa stretta creditizia e fiscale, che portò alla debole congiuntura del biennio successivo. La ripresa del 1979-'80 è stata infine interrotta dalla politica più restrittiva condotta nella seconda metà del 1980 e soprattutto dal colpo di freno monetario del 1981.
Questo andamento sussultorio della politica e dell'economia si è quindi tradotto in un rallentamento del trend di sviluppo e in un ritorno alla disoccupazione di massa.

I nuovi problemi della politica economica
La via d'uscita da una situazione di questo genere non può essere solamente trovata nella manipolazione degli usuali strumenti macroeconomici della politica economica a breve, né questo deve sorprendere. I problemi da affrontare sono ora infatti, per molti versi, più complessi di quanto lo fossero negli Anni '50 e '60, in particolare quelli connessi all'inflazione e alla bilancia dei pagamenti. La riduzione della crescita dei prezzi e, soprattutto, il riequilibrio dei conti con l'estero non sono più, se mai lo sono stati, un semplice vincolo della politica economica, ma divengono gli obiettivi primari della politica a breve, a cui tutti gli altri obiettivi, incluso quello della piena occupazione, sono stati in realtà pesantemente subordinati. Da qui nasce l'esigenza di una politica di medio-lungo periodo che rimuova, o almeno riduca drasticamente, l'importanza del vincolo estero e attenui l'inflazione.
Come risolvere quindi questi due problemi non trascurando allo stesso tempo le questioni dell'occupazione e del Mezzogiorno, resi ancor più drammatici dalla crisi economica e dalle conseguenze del terremoto? Non vi è, ovviamente, una ricetta unitaria e miracolosa, ma si può tentare di seguire diverse vie, fra loro collegate, alcune delle quali parzialmente previste, ma finora per nulla realizzate, nel piano a medio termine 1981-'83 (ora divenuto piano 1982-'84).
La prima via consiste nel tentare di aggredire i punti di maggiore debolezza strutturale dei conti con l'estero, vale a dire l'energia, i prodotti forestali e agricolo-alimentari, la chimica. La seconda via consiste nel concentrare soprattutto nelle regioni meridionali molte di queste attività produttive e soprattutto nello sviluppare le potenzialità agricole e turistiche del Sud, dando un contributo importante alla bilancia agricoloalimentare e all'afflusso di valuta estera.
Una terza via potrebbe far leva sullo sviluppo dell'industria. I programmi di industrializzazione dovrebbero peraltro rivolgersi in modo particolare a quei comparti in cui la dinamica del valore aggiunto è maggiore, ma in cui il rapporto capitalellavoro non è eccessivo. Ma una politica di questo tipo presuppone un drammatico impulso pubblico e privato alle spese per la ricerca e lo sviluppo, senza il quale sarebbe impossibile penetrare con successo in settori come l'elettronica e la chimica fine.
Resta il fatto che, in un'ottica di medio-lungo periodo, sia la riduzione del vincolo estero sia la compressione dell'inflazione richiedono in ogni caso un vasto e articolato intervento pubblico. Il costo dell'intervento per ridurre il vincolo estero e l'inflazione, sommato al costo dell'intervento per il Mezzogiorno, sarebbe inoltre proibitivo per le risorse nazionali, per cui deriva la necessità di un'ampia intersezione fra i due tipi di intervento. E' assai probabile, comunque, che, tanto sul versante economico quanto su quello politico, solo riformando lo Stato e vincendo la scommessa per il Mezzogiorno sia possibile vincere la scommessa Italia. I nuovi economisti, dunque, hanno materia a sufficienza per lavorare e per confrontarsi.

Le analisi degli economisti
L'interpretazione forse più famosa, ma assai controversa, sugli Anni '50, fu quella avanzata da Vera Lutz, che fondò la sua analisi sul "dualismo economico italiano", ipotizzando che un ridotto aumento salariale nel settore delle grandi e medie imprese può favorire l'accumulazione del capitale e l'occupazione, mentre il contrario accade se l'eccessiva forza contrattuale dei sindacati tiene alti i salari di questo settore dell'economia. Questa interpretazione venne correttamente criticata dai vari autori italiani (come Luigi Spaventa), che mostrarono i limiti dell'approccio di tipo statico fondato su una funzione di produzione di breve periodo, usata nei contributi della Lutz.
Per gli anni dello sviluppo (1951-'63), le interpretazioni più note sono probabilmente quella di Antonio Graziani e quella di Kindleberger. Per Graziani, in quegli anni avrebbe operato in Italia un modello di sviluppo legato alle esportazioni. L'aumento degli scambi con l'estero avrebbe indotto una rapida crescita del PIL e della produttività, favorendo la concorrenzialità delle industrie nazionali. Questo tipo di sviluppo avrebbe però acuito le contraddizioni di fondo dell'economia italiana (dualismo Nord-Sud, dualismo tra settori dinamici e stagnanti dell'industria, migrazioni e loro costo sociale ed economico, congestione urbana, ecc.). Secondo Kindleberger al sistema italiano potrebbe applicarsi abbastanza bene per quegli anni il modello di sviluppo di Lewis, basato sull'offerta illimitata di forza-lavoro proveniente dall'agricoltura e impiegata nell'industria e nel terziario moderno. Numerosi autori, fra i quali Mariano D'Antonio, ne hanno criticato i presupposti teorici ed empirici. La Banca d'Italia e Paolo Sylos Labini hanno invece soprattutto guardato al rapporto tra i margini di profitto, l'accumulazione e lo sviluppo economico. Per gli Anni '60 e '70, molti contributi hanno infine messo l'accento, con angolature diverse, sul conflitto tra capitale e lavoro (Antonio Graziani, 1975; Michele Salvati, 1975; Giorgio Fuà, 1976), nonché sulle relazioni di tali conflitti con i mutamenti nel grado di apertura e nel mercato del lavoro (Vittorio Valli, 1979). In un recente contributo, Fuà ha assimilato l'Italia ad altri Paesi di più recente industrializzazione (come Spagna, Grecia, ecc.), mostrando le difficoltà che hanno questi Paesi a sviluppo tardivo ad avvicinarsi ai Paesi di più antica industrializzazione.

Sedici teorie dello sviluppo
I testi a carattere generale sull'evoluzione economica italiana del dopoguerra sono molto numerosi. A titolo esemplificativo, si ricordano i seguenti contributi fondamentali:
Alle K. Stevenson A., Introduzione all'economia italiana, Il Mulino, Bologna, 1976.
Bagnasco A., Tre Italie: la problematica territoriale dello sviluppo italiano, Il Mulino, Bologna, 1977.
Ciocca P., Filosa R., Rey G.M., Introduzione e sviluppo dell'economia italiana nell'ultimo ventennio: un riesame critico, in Banca d'Italia "Contributo alla ricerca economica n. 3", Roma, 1973.
D'Antonio M., Sviluppo e crisi del capitalismo italiano: 1945-1972, De Donato, Bari, 1973.
Fuà G. (a cura di), Lo sviluppo economico in Italia, F. Angeli, Milano, 1969, vol. II e III; seconda ediz. 1974, vol. I, 1981.
Fuà G., Occupazione e capacità produttive: la realtà italiana, Il Mulino, Bologna, 1976.
Fuà G., Problemi dello sviluppo tardivo in Europa, Il Mulino, Bologna, 1980.
Graziani A. (a cura di), L'economia italiana dal 1945 ad oggi, Il Mulino, Bologna, prima ediz. 1972, seconda ediz. 1979.
Kindleberger C.P., Lo sviluppo economico europeo ed il mercato del lavoro, Etas Libri, Milano, 1967.
Lutz V., Italy: A Study in Economic Development, Oxford University Press, London, 1962.
Marzano F., Un'integrazione del processo di sviluppo economico dualistico in Italia, Giuffré, Milano, 1969.
Podbielski G., Storia dell'economia italiana: 1945-1974, Laterza, Bari, 1975.
Salvati M. Il sistema economico italiano. Analisi di una crisi, Il Mulino, Bologna, 1975.
Spaventa L., Dualism in Economic Growth, in "Banca Nazionale del Lavoro Quarterly Review", dicembre 1979.
Sylos Labini P., Aspetti dello sviluppo economico italiano, in "Problemi dello sviluppo economico", Laterza, Bari, 1970, pp. 105-178.
Valli V., L'economia e la politica economica italiana: 1945-1979, nuova edizione, Etas Libri, Milano, 1980.


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