La tutela delle
minoranze linguistiche, prevista dall'articolo 6 della Costituzione e
imperfettamente realizzata da un complesso di disposizioni contenute in
alcuni statuti regionali e in altre fonti normative accessorie, trae origine
dal movimento di pensiero volto a combattere l'intolleranza, che ebbe
la sua più importante espressione nell'illuminismo settecentesco.
Quando, a partire dal secolo XIX, la realizzazione dello Stato Nazione,
divenne l'obiettivo preminente su tutti gli altri fattori di aggregazione
politica, la tutela le minoranze nazionali venne sentita come esigenza
simile a quella che aveva rappresentato, già nei due secoli precedenti,
il fondamento delle lotte per la libertà religiosa e per la tutela
delle minoranze religiose, e strumenti già sperimentati con riferimento
a queste ultime cominciarono a trovare applicazione anche alle prime.
Del resto, esistevano situazioni nell'ambito delle quali la religione
costituiva una componente essenziale di una determinata nazionalità
(come, ad esempio, quella irlandese) o addirittura giustificava il recupero
di nazionalità per altri versi prive dei requisiti tradizionalmente
propri delle aggregazioni rilevanti anche sul piano politico (come, ad
esempio, quella israelita). Un importante tentativo di generalizzare la
tutela delle minoranze "di lingua, di razza e di religione"
mediante l'impiego degli strumenti del diritto internazionale fu compiuto
nel primo dopoguerra, nel quadro delle attività che portarono alla
formazione della Società delle Nazioni; ma i risultati pratici
conseguiti' furono scarsi. Di conseguenza, le minoranze continuarono a
subire persecuzioni o tentativi di assimilazione forzata, mentre in parecchi
casi furono programmati ed eseguiti trasferimenti di popolazioni ritenute
disomogenee dal punto di vista "nazionale". Fuori d'Europa,
inoltre, il problema si presentò molto spesso nelle forme proprie
della discriminazione razziale e si ebbero anche casi di espulsione in
massa degli appartenenti a gruppi etnici minoritari o di massacri di essi.
Nel secondo dopoguerra, i gravissimi problemi di questa natura che erano
rimasti sul tappeto furono affrontati dapprima soprattutto nell'ambito
dell'ONU come problemi di lotta contro le discriminazioni, che privavano
gli individui dei diritti fondamentali di libertà o che comportavano
lesioni dell'eguaglianza, intesa essenzialmente come eguaglianza di diritto.
Solo in un secondo tempo tornò ad affermarsi l'esigenza di affiancare,
alla tutela degli individui contro le discriminazioni, anche la tutela
dei gruppi etnici, linguistici e religiosi contro le minacce recate alla
loro identità collettiva. Questo indirizzo è stato accolto,
oltre che in vari documenti internazionali di portata più limitata,
nell'articolo 27 del Patto internazionale per i diritti politici e sociali,
approvato dall'Assemblea Generale dell'ONU il 19 dicembre 1966 e reso
esecutivo del nostro Paese con la legge 881 del 25 ottobre 1977; nello
stesso periodo, il medesimo principio è stato incluso nelle Costituzioni
di numerosi Paesi, tanto da poter essere considerato ormai' come una delle
regole che maggiormente qualificano, in senso democratico e civile, gli
ordinamenti giuridici degli Stati moderni. Tuttavia, se questo orientamento
è largamente prevalente, almeno sulla carta, tanto negli Stati
dell'area occidentale, quanto (ma molto meno) nei Paesi socialisti e nel
Terzo Mondo, assai diversa è la giustificazione che ad esso viene
data sul piano ideologico. Mentre infatti, secondo la filosofia politica
dei primi la tutela dei gruppi minoritari è vista più come
uno sviluppo dei diritti individuali di libertà nell'ambito dello
Stato, concepito tendenzialmente come unitario, e quindi come una deroga
ai princìpi propri di esso, secondo il pensiero politico marxista
tutte le collettività hanno uguale diritto di esprimere la propria
identità nazionale. Se non che, la burocratizzazione politica e
la preminenza del partito unico finiscono per prevalere sugli interessi
dei singoli gruppi etnici; le espressioni e manifestazioni "religiose"
sono ostacolate o apertamente avversate; e l'emancipazione sul piano politico
ed economico resta solo parvenza di libertà di fronte agli interessi
di blocco ideologico. Se è ormai vivo nella coscienza di tutti
il dramma vissuto dagli ebrei (ma, ad esempio, anche dagli "zingari")
nella Germania nazista, altrettanto vivo è quello che ha riguardato
intere popolazioni dell'Unione Sovietica, forzatamente trasferite a migliaia
di chilometri di distanza dai luoghi d'origine; e altrettanto vivo e attuale
è quello delle popolazioni della Lettonia, dell'Estonia e della
Lituania, che comunque non sembrano disposte a rinunciare alla loro identità
linguistico-religiosa e alla loro "nazionalità".
Quali sono le minoranze in Italia? Ne presentiamo un panorama schematico,
con i dati sulle origini storiche e con i problemi che ancora sono sul
tappeto, perchè si abbia - se possibile - un ventaglio di ipotesi
per la loro tutela al passo con i tempi, e perchè esso costituisca,
nello stesso tempo, motivo di dibattito, di approfondimento dei temi e
di conoscenza.
Gli Occitani
Circa 200.000 autoctoni vivono in 12 vallate alpine in una fascia lungo
il confine francese delle Alpi Occidentali (Marittime e Cozie), con
una enclave nella Valle del Roia in Liguria, e per il resto in Piemonte:
la maggioranza in provincia di Cuneo (dalla Val Corsaglia alla Valle
del Po), il resto in altre tre Valli della provincia di Torino (Val
Pellice, Val Chisone-Germanasca, Alta Val di Susa). Per etnìa,
tradizioni, usi, costumi e lingua queste persone appartengono alla grande
Famiglia Occitana, che si estende per tutto il sud della Repubblica
Francese e travalica i Pirenei per entrare in una valle spagnola (quella
catalana). Essi fanno parte di quella civiltà alpina che, fin
dalla preistoria, è uguale sui due versanti delle Alpi e si ricollega
a quella della gente ligure che i Romani, all'epoca della loro conquista,
combatterono sia sul Po che sul Rodano.
Malgrado le invasioni barbariche, i saraceni, le varie dominazioni che
li hanno divisi - in parte includendoli nel Delfinato, altri sotto il
marchesato di Saluzzo, altri ancora al Ducato di Savoia, il quale gradatamente
li riunirà poi tutti sotto il suo dominio - quella radice etnica
occitana è rimasta sempre presente nelle persistenza della lingua
occitana, che, anche se ridotta a dialetti con varianti fra valle e
valle, è perfettamente intercomprensibile in tutta la zona.
Inglobate nel Ducato di Savoia, le popolazioni occitane ne vivono forzatamente
le vicende (fornendo abbondante carne da cannone e tributi vari) pur
con un anelito all'autonomia che si realizza, per alcune di esse, per
qualche secolo, nella Repubblica degli Escartoûn, nella zona semiindipendente
della Val Maira, nella effimera repubblica di S. Martino in Val Germanasca
(1704-1708), nei vari "affrancamenti" che riescono ad ottenere
le comunità della Val Pellice. Il riconoscimento dell'appartenenza
dei dialetti di questa fascia alpina alla lingua occitana è dovuto,
alla fine del secolo scorso, ai linguisti della scuola dell'Alscoli
e in particolare al Morosi, a cui si debbono gli studi sulla parlate
della Valli Valdesi e, in conseguenza, dell'isola occitana in Calabria:
Guardia Piemontese.
Questo ci porta ad accennare ad un'altra particolarità della
zona, quella dell'esistenza, in seno a questa minoranza occitana in
Italia, di una minoranza religiosa, i Valdesi, che occupano le vallate
più a nord: la Val Pallice, la Val Germanesca e, fino al XVIII
secolo, la Val Chisone.
Movimento ereticale del Medioevo, originato dalla protesta di un mercante
lionese (di nome Valdo) verso il 1170, il movimento si' estende rapidamente
nel XIII e XIV secolo in molte parti d'Europa. Scomunicato e duramente
represso dall'inquisizione, trova rifugio in queste vallate, dove all'inizio
è accolto favorevolmente dai locali feudatari, bisognosi di mano
d'opera per il dissodamento delle loro terre. L'aumento di popolazione
comporta però la necessità di emigrare, emigrazione che
si orienta verso la Calabria, in provincia di Cosenza, nei villaggi
di Montalto, S. Sisto, Vaccarizzo, La Guardia. La popolazione in quelle
zone si accresce rapidamente e nel 1560 ha già raggiunto il numero
di circa 10.000 individui. Tuttavia l'adesione dei Valdesi alla Riforma
protestante provoca violente repressioni che, con la strage del 1561,
porta alla completa sparizione dei Valdesi di Calabria. I pochi superstiti,
obbligati a convertirsi, vengono confinati nel villaggio di La Guardia
(ora Guardia Piemontese). Questi, malgrado tutto, continuano a mantenere
attraverso i secoli le loro caratteristiche originarie e in particolare
il loro dialetto, prettamente occitano, ancor oggi parlato e che ha
diritto al suo riconoscimento in base all'art. 6 della Costituzione.
Negli stessi anni, i Valdesi delle Valli del Piemonte invece resistono
vittoriosamente alle milizie dei Savoia ed obbligano il duca Emanuele
Filiberto a un trattato di pace, con il quale egli riconosce l'esistenza
nei suoi possedimenti di una popolazione di religione diversa, accettando
che essa possa esercitare il suo culto, confinata però strettamente
nelle sue Valli. Questo trattato, purtroppo, non segnerà la fine
delle persecuzioni contro i Valdesi, che saranno vittime di feroci repressioni
per tutto il XVII secolo e non verranno parificati, agli effetti civili,
agli altri cittadini che nel secolo scorso, con le "lettere patenti"
di Carlo Alberto, pubblicate il 17 febbraio 1848.
E' stato necessario questo accenno per inquadrare questa minoranza,
pur essa occitana, nella zona occitana, anche perchè, pur costituendo
solo il 10% circa di tutta la popolazione occitana, essa ne rappresenta
la parte più evoluta culturalmente. Basterà ricordare
che all'epoca dell'unità d'Italia, mentre la popolazione italiana
aveva ancora il 90% circa di analfabeti, nelle Valli valdesi la proporzione
era inversa: un analfabetismo di poco superiore al 10%.
I Valdesi vantano una delle più antiche letterature occitane,
risalenti al XIV secolo, scritte in una lingua che già rappresenta
una koinè per tutta la zona.
Se la leadership del movimento di autonomia delle vallate occitane d'Italia
oggi fa capo prevalentemente ai movimenti sorti in questi ultimi decenni
nelle Vallate dei Cuneese, essi si rifanno idealmente alla "Carta
di Chivasso", stilata durante la Resistenza, in un incontro avvenuto
a Chivasso il 19 dicembre 1943 fra i rappresentanti della Resistenza
della Val d'Aosta e quattro occitani valdesi. La Carta di Chivasso richiede,
per tutte le Valli alpine:
- il diritto di costituirsi in comunità politico-amministrative
dirette da elementi originari del luogo;
- il diritto di usare la lingua locale, accanto alla lingua italiana,
in tutti gli atti pubblici e nella stampa locale, il suo insegnamento
in tutte le scuole di ogni ordine e grado;
- un sistema di tassazione di tutte le industrie che vi si trovano (idroelettriche,
minerarie, turistiche, ecc.), in modo che una parte dei loro utili torni
alle vallate alpine;
- una ragionevole e sostanziale riforma agraria;
- il potenziamento delle industrie e dell'artigianato locale;
- la dipendenza dalle amministrazioni locali delle opere pubbliche,
servizi e concessioni aventi carattere locale.
Hanno contribuito al risveglio di questa identità occitana, già
19 anni fa, un gruppo di intellettuali piemontesi, guidati da Gustavo
Buratti, con la creazione dell'"Escolo dòu Po", su
imitazione delle "Escole" provenzali del movimento dei Félibrige
ispirato al grande poeta occitano Fréderic Mistral, premio Nobel.
L'Escolo dòu Po ha promosso annualmente degli incontri fra gruppi
occitani di quà e di là delle Alpi e tra valle e valle,
come pure l'A.I.D.L.O.M. nelle sue lotte a favore delle lingue e delle
culture minacciate.
Nel 1961 un insegnante, Sergio Arneodo, in una piccola località
della Val Maira (in prov. di Cuneo), Sancto Lucìo de la Coumboscuro,
prende l'iniziativa di insegnare ai suoi allievi come scrivere e leggere
il loro patouà occitano e pubblica i loro scritti in un giornaletto
ciclostilato, "Coumboscuro", che col passar degli anni è
diventato un periodico mensile a stampa, espressione del "movimento
provenzale-occitano Coumboscuro"; esso ha assunto una colorazione
politica definita, che su vari argomenti e un contrasto con gli altri
movimenti, ma che ha in comune con questi le rivendicazioni autonomistiche,
fra le quali la richiesta di un distretto autonomo occitano a cui dovrebbero
far capo le varie comunità occitane.
Sorgono nel 1965 i movimenti del M.A.O. (Movimento Autonomista Occitano)
e l'U.D.A.V.0. (Unione degli Autonomisti Valli Occitane). Il primo,
che pubblica un foglio mensile, "Ousitanìo Vivo", ha
avuto come capo carismatico François Fontan, fondatore in Francia
del P.N.O. (Parti Nationaliste Occitan) stabilitosi a Frassino in Val
Varaita e scomparso prematuramente nel 1979. Questo movimento assume
la caratteristica di partito politico e come tale si presenta alle elezioni
provinciali e comunali nella provincia di Cuneo, ottenendo una ventina
di amministratori comunali in diverse vallate e la rappresentanza in
quattro comunità montane. Alle elezioni europee del 1979 il M.A.O.
e Coumboscuro hanno presentato i loro candidati nella lista dell'Union
Valdôtaine, lista che nelle province di Torino e Cuneo ha ottenuto
circa 20.000 voti, di cui circa il 50% provenienti dalle Valli Occidentali.
L'U.D.A.V.O. ha avuto all'inizio maggior diffusione nelle vallate della
provincia di Torino, portando avanti la sua battaglia fra il 1971 e
il 1976 con il foglio mensile "Lou Soulestrelh"; ma, molti
dei suoi punti programmatici essendo comuni con quelli del M.A.O., ha
preferito orientare la sua azione verso l'impegno culturale, pubblicando,
per mezzo dell'associazione "Soulestreth", una rivista quadrimestrale,
"Novel Temp", quaderno di cultura e studi occitani alpini,
pur mantenendo la sua autonomia di scelta nella comune lotta a favore
della minoranza occitana.
Richiamandosi alla Carta di Chivasso e riferendosi anche ai princìpi
espressi nella "Carta dei diritti delle comunità etniche
minoritarie e delle minoranze linguistiche", approvata dal Congresso
AIDLCM di Châtillon del 25/7/76, i movimenti occitani hanno lo
scopo comune di ottenere il riconoscimento di una Regione Autonoma a
Statuto Speciale, nulla quale la tutela delle caratteristiche etnico-linguistiche
occitane venga attuata e, inoltre, siano adottati i provvedimenti a
carattere socio-economico necessari a consentire la sopravvivenza delle
popolazioni nel particolare ambiente montano: perchè esse, per
sopravvivere, non siano obbligate ad emigrare o ad assoggettarsi ad
un faticoso pendolarismo fra la loro abitazione e i lontani posti di
lavoro nella pianura.
Si potrà obiettare che in queste vallate la lingua occitana è
ormai ridotta a dialetto, utilizzato solo nell'ambito strettamente familiare
o di villaggio, quindi non può essere considerata lingua di cultura,
dimenticando con ciò il background di questa lingua, che ha espresso
la cultura europea del Medio Evo e che è risorta a dignità
con l'opera dei Mistral e della sua scuola alla fine del secolo scorso.
D'altra parte i vari periodici dei movimenti occitani, da oltre un decennio,
hanno dimostrato che la parlata locale può servire da veicolo
di informazione per tutta la zona, senza che le varianti fra Valle e
Valle siano d'ostacolo alla intercomunicazione; essi anzi, hanno già
dato inizio all'abbozzo di una koinè che potrà essere
in avvenire la lingua ufficiale unificata.
La comunità
etnica valdostana
La parola "francoprovenzale", a livello popolare, è
molto poco conosciuta e usata solo in Valle d'Aosta. E' stata inventata
per definire un gruppo di parlate che non rientravano perfettamente
nei sistemi "d'oc o d'oil", recentemente, nel 1873, dal linguista
Isaia Graziadio Ascoli. La definizione è stata discussa per lungo
tempo e, finalmente, accettata dalla grande maggioranza dai linguisti.
Come in tutta l'area francoprovenzale, si usa la parola "patois",
e il termine francoprovenzale è usato esclusivamente dagli addetti
ai lavori oppure nel tentativo, talvolta disperato, di spiegare ai forestieri
la natura del linguaggio e di situarlo, linguisticamente parlando, in
un contesto geografico.
L'area francoprovenzale comprende la Savoia, parte del Delfinato, il
Forez, il Lionese, il territorio lungo la riva sinistra della Saône
fino ai Vosgi e alle porte di Besançon, la Svizzera Romanda (eccezion
fatta per il distretto di Porrentruy, nel Jura), la Valle d'Aosta (fatta
eccezione per i tre comuni walser della Valle di Gressoney), le Valli
del Piemonte a sud della Valle d'Aosta, fino alla Valle di Susa. A questi
territori si devono aggiungere le due isole linguistiche di Faeto e
Celle San Vito, in Puglia.
Questa vasta area, attualmente spezzettata e dipendente da tre Stati
diversi, è stata politicamente unita all'epoca del secondo regno
di Borgogna e, successivamente, sotto la Casa Savoia.
Nessuna koiné del francoprovenzale si è mai formata e,
di conseguenza, la tradizione scritta della parlata, se si eccettua
un breve periodo a Lione, nel secolo XIV, è recente e risale
al XIX secolo, quando alcuni poeti e narratori si sono cimentati a comporre
in francoprovenzale.
Queste brevi notizie (non mi sembra sia il caso, in queste sede, di
appronfondire la natura del francoprovenzale da un punto di vista linguistico)
servono a situare il problema del francoprovenzale in Valle d'Aosta
in quel contesto più ampio che è il suo contesto naturale.
Questa breve sintesi tratterà essenzialmente del problema valdostano.
Essendo il tema estremamente complesso e le relazioni all'interno dell'area
froncoprovenzale poco sviluppate, saranno lasciati da parte i problemi
del francoprovenzale al di fuori della Valle d'Aosta.
Per cominciare, una breve storia linguistica della Valle d'Aosta, anche
se superficialmente, s'impone.
La genesi del francoprovenzale in Valle d'Aosta è quella di tutte
le parlate romanze sul loro territorio. Schematicamente: un sostrato
celtico con residui di lingue preindoeuropee precedentemente parlate
nella regione: la varietà locale di latino che costituisce la
base: un superstrato germanico, dovuto ai contributi diversi delle popolazioni
che hanno occupato successivamente la regione. Il tutto arricchito da
contributi vari di parlate vicine o particolarmente influenti in periodi
storici determinati.
Quando nel corso del XVI secolo il latino ha progressivamente perso
la sua funzione di lingua ufficiale, il suo posto è stato preso
dal francese.
Nel 1561, con le lettere patenti del 22 settembre, Emanuele Filiberto
decretava: "Facciamo sapere che essendo stata, da sempre, la lingua
francese, nel nostro paese e ducato di Aosta, più comune e più
generalizzata di ogni altra e che avendo il popolo e i sudditi di detto
paese la conoscenza e l'abitudine di parlare la detta lingua più
correntemente che ogni altra ... perciò, dichiariamo volere che
in detto paese e ducato d'Aosta nessuno abbia ad usare, in procedure
e atti di giustizia, contratti, inchieste e altre cose similiari "un'altra
lingua", pena la nullità di detti contratti e procedure
e di cento lire d'ammenda".
L'intervento di Emanuele Filiberto non fa dunque che ratificare un dato
di fatto poichè già nel XV secolo il francese è
usato, in alternanza col latino, in atti pubblici e privati e, a partire
dal 1536, gli Atti della Congrégation des Trois Etats e dei Conseil
des Commis, gli organi politico-amministrativi della Valle d'Aosta di
allora, sono redatti in francese.
D'altra parte il primo "chroniqueur" valdostano, Charles Dubois
(e come lui i suoi continuatori), redige in francese, nel 1462, la sua
storia della Casa di Challant, esattamente un secolo prima dell'ufficializzazione
del francese. Comincia così per i Valdostani un lungo periodo
di bilinguismo durante il quale la vita quotidiana si svolge in francoprovenzale
e il francese èpraticato in chiesa, a scuola e nei rapporti con
le amministrazioni. Inoltre, il francese è la sola lingua scritta
della popolazione, una popolazione, è bene sottolineare, precocemente
alfabetizzata, se è vero che alla fine del XIX secolo in Valle
d'Aosta non esisteva praticamente l'analfabetismo.
Questo tipo di bilinguismo non ha nulla di straordinario: in una situazione
analoga vive l'Europa intera, per non parlare che dell'Europa. La diglossia
"lingua popolarellingua letteraria", che attualmente sta quasi
scomparendo, è la situazione "normale", e lo è
ancora oggi per Paesi che sicuramente non possono essere definiti sottosviluppati:
basti pensare alla Svizzera tedesca ("dialetto germanico-tedesco
letterario") e alla Fiandra belga ("Fiammingo/Olandese").
Poco a poco, come dappertutto, la lingua letteraria, diventa anche qui
l'espressione quotidiana della borghesia locale e del clero, i quali
tuttavia, non perdono mai la conoscenza attiva dei "patois".
Finchè questa situazione dura non ci sono conflitti a sfondo
linguistico. Ed èa questa situazione di equilibrio, verso questo
tipo particolare di bilinguismo, che la Valle d'Aosta sembra tendere.
Ma nel 1860 con l'unità d'Italia e il passaggio della Savoia
alla Francia, le cose cambiano: la Valle d'Aosta, coi suoi 80.000 abitanti,
si ritrova ad essere la sola regione francofona compressa in uno stato
a stragrande, per non dire quasi totale, maggioranza italofona. Si verificano
dei cambiamenti istituzionali (gli Stati Sardi erano ufficialmente bilingui,
la nuova Italia no) s'instaura una politica uniformizzatrice. L'Italia
era fatta. Bisognava fare gli italiani.
Già nell'ottobre 1860 un Decreto Ministeriale impone l'italiano
in tutte le scuole del Regno. La Valle d'Aosta fa così subito
conoscenza con una nuova realtà. Un deputato piemontese, nel
1861, Giovenale Veggezzi-Ruscalla, stampa un libretto dal titolo eloquente:
"Diritto e necessità di abrogare il francese come lingua
ufficiale in alcune Valli della provincia di Torino", che si riferisce,
nonostante il titolo, principalmente alla Valle d'Aosta. Nel libello
in questione, il francese èdefinito "questo sconcio, questa
macchia alla nazionalità italiana". E' la storia delle percussioni
subite dal francese. Basterà ricordare che questa lingua è
stata progressivamente bandita, in ordine di tempo, dalle Scuole superiori,
dal Tribunale, dall'Amministrazione pubblica, dalle Scuole elementari
e nel periodo fascista, tocco finale, dalla stampa e dal culto.
Naturalmente i Valdostani non hanno accettato passivamente queste imposizioni.
Ad ogni sopruso del governo, hanno risposto con una levata di scudi
generale facendo recedere, ogni volta, ma solo in parte, il governo.
Così facendo hanno imboccato, più o meno consciamente,
la via del compromesso. E da compromesso a compromesso si sono trovati
privati, nel breve volgare di tre generazioni, di una cospicua parte
del loro patrimonio linguistico.
Ma ritorniamo al francoprovenzale. Già nel 1861, quindi prima
di Ascoli, il Giovenale Veggezzi-Ruscalla, nel suo attacco alla lingua
francese, riservava un trattamento di favore per il francoprovenzale:
"Non mi sono mai sognato di uccidere la lingua di queste belle
Valli (scriveva in una lettera del 1861), ma l'idioma di Aosta è
il patois, non il francese ... " Dunque nel 1861, per la prima
volta, il francoprovenzale veniva opposto al francese. Questa strategia
(il patois sì, il francese no) si rivela particolarmente fortunata,
tant'è vero che sarà ripresa periodicamente dalla pubblicistica
italiana per negare il diritto dei Valdostani al francese. I Valdostani,
unanimi, hanno sempre respinto questa opposizione che consideravano
ridicola in quanto, se applicata all'Italia di allora, avrebbe significato
l'abolizione dell'italiano.
La definizione data dall'Ascoli nel 1873 e la successiva pubblicazione
del famoso saggio "Schizzi franco-provenzali" (1878), è
passata, negli ambienti culturali valdostani praticamente inosservata.
Nè gli eruditi locali, ne i primi' poeti francoprovenzali sembravano
prestare attenzione alla teoria di Ascoli. Il
primo testo valdostano franco provenzale risale infatti al 1850; per
trovarne un secondo (le prime poesie di Cerlogne: il primo e il più
grande poeta valdostano in francoprovenzale) bisognerà aspettare
cinque anni. Poi, grazie soprattutto a Cerlogne, altri poeti compongono
in francoprovenzale. Cerlogne dà anche una grammatica (1892)
e un dizionario dei patois (1907), senza mai usare la parola "francoprovenzale",
pur essendone sicuramente a conoscenza. La spiegazione è che
i Valdostani hanno sempre considerato la loro parlata come un dialetto
francese e il termine "patois" soddisfaceva ampiamente le
loro esigenze. Per il valdostano, francoprovenzale e francese sono sempre
stati due tratti indissolubili, indispensabili e complementari della
loro cultura. In questi ultimi anni, con la nascita del Movimento Arpitano,
per la prima volta l'opposizione francoprovenzale/francese è
stata proposta dai Valdostani. Ed è significativo che, periodicamente,
esponenti di partiti italiani in Valle sposino le tesi arpitane (almeno
in parte). Il francoprovenzale, infine, ha preso nuovo vigore con la
nascita dell'ecologia, che ha fatto riemergere i valori della natura,
dell'etnologia, dei dialetti. Il clima sembra più favorevole
che nel passato e l'antica lingua è riemersa, o rifiorita, con
un misto di civetteria e di fierezza.
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