§ GENTI NOSTRE

"LE PICCOLE PATRIE"




Ada Provenzano
coll. Tonino Caputo




La tutela delle minoranze linguistiche, prevista dall'articolo 6 della Costituzione e imperfettamente realizzata da un complesso di disposizioni contenute in alcuni statuti regionali e in altre fonti normative accessorie, trae origine dal movimento di pensiero volto a combattere l'intolleranza, che ebbe la sua più importante espressione nell'illuminismo settecentesco.
Quando, a partire dal secolo XIX, la realizzazione dello Stato Nazione, divenne l'obiettivo preminente su tutti gli altri fattori di aggregazione politica, la tutela le minoranze nazionali venne sentita come esigenza simile a quella che aveva rappresentato, già nei due secoli precedenti, il fondamento delle lotte per la libertà religiosa e per la tutela delle minoranze religiose, e strumenti già sperimentati con riferimento a queste ultime cominciarono a trovare applicazione anche alle prime. Del resto, esistevano situazioni nell'ambito delle quali la religione costituiva una componente essenziale di una determinata nazionalità (come, ad esempio, quella irlandese) o addirittura giustificava il recupero di nazionalità per altri versi prive dei requisiti tradizionalmente propri delle aggregazioni rilevanti anche sul piano politico (come, ad esempio, quella israelita). Un importante tentativo di generalizzare la tutela delle minoranze "di lingua, di razza e di religione" mediante l'impiego degli strumenti del diritto internazionale fu compiuto nel primo dopoguerra, nel quadro delle attività che portarono alla formazione della Società delle Nazioni; ma i risultati pratici conseguiti' furono scarsi. Di conseguenza, le minoranze continuarono a subire persecuzioni o tentativi di assimilazione forzata, mentre in parecchi casi furono programmati ed eseguiti trasferimenti di popolazioni ritenute disomogenee dal punto di vista "nazionale". Fuori d'Europa, inoltre, il problema si presentò molto spesso nelle forme proprie della discriminazione razziale e si ebbero anche casi di espulsione in massa degli appartenenti a gruppi etnici minoritari o di massacri di essi.
Nel secondo dopoguerra, i gravissimi problemi di questa natura che erano rimasti sul tappeto furono affrontati dapprima soprattutto nell'ambito dell'ONU come problemi di lotta contro le discriminazioni, che privavano gli individui dei diritti fondamentali di libertà o che comportavano lesioni dell'eguaglianza, intesa essenzialmente come eguaglianza di diritto. Solo in un secondo tempo tornò ad affermarsi l'esigenza di affiancare, alla tutela degli individui contro le discriminazioni, anche la tutela dei gruppi etnici, linguistici e religiosi contro le minacce recate alla loro identità collettiva. Questo indirizzo è stato accolto, oltre che in vari documenti internazionali di portata più limitata, nell'articolo 27 del Patto internazionale per i diritti politici e sociali, approvato dall'Assemblea Generale dell'ONU il 19 dicembre 1966 e reso esecutivo del nostro Paese con la legge 881 del 25 ottobre 1977; nello stesso periodo, il medesimo principio è stato incluso nelle Costituzioni di numerosi Paesi, tanto da poter essere considerato ormai' come una delle regole che maggiormente qualificano, in senso democratico e civile, gli ordinamenti giuridici degli Stati moderni. Tuttavia, se questo orientamento è largamente prevalente, almeno sulla carta, tanto negli Stati dell'area occidentale, quanto (ma molto meno) nei Paesi socialisti e nel Terzo Mondo, assai diversa è la giustificazione che ad esso viene data sul piano ideologico. Mentre infatti, secondo la filosofia politica dei primi la tutela dei gruppi minoritari è vista più come uno sviluppo dei diritti individuali di libertà nell'ambito dello Stato, concepito tendenzialmente come unitario, e quindi come una deroga ai princìpi propri di esso, secondo il pensiero politico marxista tutte le collettività hanno uguale diritto di esprimere la propria identità nazionale. Se non che, la burocratizzazione politica e la preminenza del partito unico finiscono per prevalere sugli interessi dei singoli gruppi etnici; le espressioni e manifestazioni "religiose" sono ostacolate o apertamente avversate; e l'emancipazione sul piano politico ed economico resta solo parvenza di libertà di fronte agli interessi di blocco ideologico. Se è ormai vivo nella coscienza di tutti il dramma vissuto dagli ebrei (ma, ad esempio, anche dagli "zingari") nella Germania nazista, altrettanto vivo è quello che ha riguardato intere popolazioni dell'Unione Sovietica, forzatamente trasferite a migliaia di chilometri di distanza dai luoghi d'origine; e altrettanto vivo e attuale è quello delle popolazioni della Lettonia, dell'Estonia e della Lituania, che comunque non sembrano disposte a rinunciare alla loro identità linguistico-religiosa e alla loro "nazionalità".
Quali sono le minoranze in Italia? Ne presentiamo un panorama schematico, con i dati sulle origini storiche e con i problemi che ancora sono sul tappeto, perchè si abbia - se possibile - un ventaglio di ipotesi per la loro tutela al passo con i tempi, e perchè esso costituisca, nello stesso tempo, motivo di dibattito, di approfondimento dei temi e di conoscenza.

Gli Occitani
Circa 200.000 autoctoni vivono in 12 vallate alpine in una fascia lungo il confine francese delle Alpi Occidentali (Marittime e Cozie), con una enclave nella Valle del Roia in Liguria, e per il resto in Piemonte: la maggioranza in provincia di Cuneo (dalla Val Corsaglia alla Valle del Po), il resto in altre tre Valli della provincia di Torino (Val Pellice, Val Chisone-Germanasca, Alta Val di Susa). Per etnìa, tradizioni, usi, costumi e lingua queste persone appartengono alla grande Famiglia Occitana, che si estende per tutto il sud della Repubblica Francese e travalica i Pirenei per entrare in una valle spagnola (quella catalana). Essi fanno parte di quella civiltà alpina che, fin dalla preistoria, è uguale sui due versanti delle Alpi e si ricollega a quella della gente ligure che i Romani, all'epoca della loro conquista, combatterono sia sul Po che sul Rodano.
Malgrado le invasioni barbariche, i saraceni, le varie dominazioni che li hanno divisi - in parte includendoli nel Delfinato, altri sotto il marchesato di Saluzzo, altri ancora al Ducato di Savoia, il quale gradatamente li riunirà poi tutti sotto il suo dominio - quella radice etnica occitana è rimasta sempre presente nelle persistenza della lingua occitana, che, anche se ridotta a dialetti con varianti fra valle e valle, è perfettamente intercomprensibile in tutta la zona.
Inglobate nel Ducato di Savoia, le popolazioni occitane ne vivono forzatamente le vicende (fornendo abbondante carne da cannone e tributi vari) pur con un anelito all'autonomia che si realizza, per alcune di esse, per qualche secolo, nella Repubblica degli Escartoûn, nella zona semiindipendente della Val Maira, nella effimera repubblica di S. Martino in Val Germanasca (1704-1708), nei vari "affrancamenti" che riescono ad ottenere le comunità della Val Pellice. Il riconoscimento dell'appartenenza dei dialetti di questa fascia alpina alla lingua occitana è dovuto, alla fine del secolo scorso, ai linguisti della scuola dell'Alscoli e in particolare al Morosi, a cui si debbono gli studi sulla parlate della Valli Valdesi e, in conseguenza, dell'isola occitana in Calabria: Guardia Piemontese.
Questo ci porta ad accennare ad un'altra particolarità della zona, quella dell'esistenza, in seno a questa minoranza occitana in Italia, di una minoranza religiosa, i Valdesi, che occupano le vallate più a nord: la Val Pallice, la Val Germanesca e, fino al XVIII secolo, la Val Chisone.
Movimento ereticale del Medioevo, originato dalla protesta di un mercante lionese (di nome Valdo) verso il 1170, il movimento si' estende rapidamente nel XIII e XIV secolo in molte parti d'Europa. Scomunicato e duramente represso dall'inquisizione, trova rifugio in queste vallate, dove all'inizio è accolto favorevolmente dai locali feudatari, bisognosi di mano d'opera per il dissodamento delle loro terre. L'aumento di popolazione comporta però la necessità di emigrare, emigrazione che si orienta verso la Calabria, in provincia di Cosenza, nei villaggi di Montalto, S. Sisto, Vaccarizzo, La Guardia. La popolazione in quelle zone si accresce rapidamente e nel 1560 ha già raggiunto il numero di circa 10.000 individui. Tuttavia l'adesione dei Valdesi alla Riforma protestante provoca violente repressioni che, con la strage del 1561, porta alla completa sparizione dei Valdesi di Calabria. I pochi superstiti, obbligati a convertirsi, vengono confinati nel villaggio di La Guardia (ora Guardia Piemontese). Questi, malgrado tutto, continuano a mantenere attraverso i secoli le loro caratteristiche originarie e in particolare il loro dialetto, prettamente occitano, ancor oggi parlato e che ha diritto al suo riconoscimento in base all'art. 6 della Costituzione.
Negli stessi anni, i Valdesi delle Valli del Piemonte invece resistono vittoriosamente alle milizie dei Savoia ed obbligano il duca Emanuele Filiberto a un trattato di pace, con il quale egli riconosce l'esistenza nei suoi possedimenti di una popolazione di religione diversa, accettando che essa possa esercitare il suo culto, confinata però strettamente nelle sue Valli. Questo trattato, purtroppo, non segnerà la fine delle persecuzioni contro i Valdesi, che saranno vittime di feroci repressioni per tutto il XVII secolo e non verranno parificati, agli effetti civili, agli altri cittadini che nel secolo scorso, con le "lettere patenti" di Carlo Alberto, pubblicate il 17 febbraio 1848.
E' stato necessario questo accenno per inquadrare questa minoranza, pur essa occitana, nella zona occitana, anche perchè, pur costituendo solo il 10% circa di tutta la popolazione occitana, essa ne rappresenta la parte più evoluta culturalmente. Basterà ricordare che all'epoca dell'unità d'Italia, mentre la popolazione italiana aveva ancora il 90% circa di analfabeti, nelle Valli valdesi la proporzione era inversa: un analfabetismo di poco superiore al 10%.
I Valdesi vantano una delle più antiche letterature occitane, risalenti al XIV secolo, scritte in una lingua che già rappresenta una koinè per tutta la zona.
Se la leadership del movimento di autonomia delle vallate occitane d'Italia oggi fa capo prevalentemente ai movimenti sorti in questi ultimi decenni nelle Vallate dei Cuneese, essi si rifanno idealmente alla "Carta di Chivasso", stilata durante la Resistenza, in un incontro avvenuto a Chivasso il 19 dicembre 1943 fra i rappresentanti della Resistenza della Val d'Aosta e quattro occitani valdesi. La Carta di Chivasso richiede, per tutte le Valli alpine:
- il diritto di costituirsi in comunità politico-amministrative dirette da elementi originari del luogo;
- il diritto di usare la lingua locale, accanto alla lingua italiana, in tutti gli atti pubblici e nella stampa locale, il suo insegnamento in tutte le scuole di ogni ordine e grado;
- un sistema di tassazione di tutte le industrie che vi si trovano (idroelettriche, minerarie, turistiche, ecc.), in modo che una parte dei loro utili torni alle vallate alpine;
- una ragionevole e sostanziale riforma agraria;
- il potenziamento delle industrie e dell'artigianato locale;
- la dipendenza dalle amministrazioni locali delle opere pubbliche, servizi e concessioni aventi carattere locale.
Hanno contribuito al risveglio di questa identità occitana, già 19 anni fa, un gruppo di intellettuali piemontesi, guidati da Gustavo Buratti, con la creazione dell'"Escolo dòu Po", su imitazione delle "Escole" provenzali del movimento dei Félibrige ispirato al grande poeta occitano Fréderic Mistral, premio Nobel.
L'Escolo dòu Po ha promosso annualmente degli incontri fra gruppi occitani di quà e di là delle Alpi e tra valle e valle, come pure l'A.I.D.L.O.M. nelle sue lotte a favore delle lingue e delle culture minacciate.
Nel 1961 un insegnante, Sergio Arneodo, in una piccola località della Val Maira (in prov. di Cuneo), Sancto Lucìo de la Coumboscuro, prende l'iniziativa di insegnare ai suoi allievi come scrivere e leggere il loro patouà occitano e pubblica i loro scritti in un giornaletto ciclostilato, "Coumboscuro", che col passar degli anni è diventato un periodico mensile a stampa, espressione del "movimento provenzale-occitano Coumboscuro"; esso ha assunto una colorazione politica definita, che su vari argomenti e un contrasto con gli altri movimenti, ma che ha in comune con questi le rivendicazioni autonomistiche, fra le quali la richiesta di un distretto autonomo occitano a cui dovrebbero far capo le varie comunità occitane.
Sorgono nel 1965 i movimenti del M.A.O. (Movimento Autonomista Occitano) e l'U.D.A.V.0. (Unione degli Autonomisti Valli Occitane). Il primo, che pubblica un foglio mensile, "Ousitanìo Vivo", ha avuto come capo carismatico François Fontan, fondatore in Francia del P.N.O. (Parti Nationaliste Occitan) stabilitosi a Frassino in Val Varaita e scomparso prematuramente nel 1979. Questo movimento assume la caratteristica di partito politico e come tale si presenta alle elezioni provinciali e comunali nella provincia di Cuneo, ottenendo una ventina di amministratori comunali in diverse vallate e la rappresentanza in quattro comunità montane. Alle elezioni europee del 1979 il M.A.O. e Coumboscuro hanno presentato i loro candidati nella lista dell'Union Valdôtaine, lista che nelle province di Torino e Cuneo ha ottenuto circa 20.000 voti, di cui circa il 50% provenienti dalle Valli Occidentali.
L'U.D.A.V.O. ha avuto all'inizio maggior diffusione nelle vallate della provincia di Torino, portando avanti la sua battaglia fra il 1971 e il 1976 con il foglio mensile "Lou Soulestrelh"; ma, molti dei suoi punti programmatici essendo comuni con quelli del M.A.O., ha preferito orientare la sua azione verso l'impegno culturale, pubblicando, per mezzo dell'associazione "Soulestreth", una rivista quadrimestrale, "Novel Temp", quaderno di cultura e studi occitani alpini, pur mantenendo la sua autonomia di scelta nella comune lotta a favore della minoranza occitana.
Richiamandosi alla Carta di Chivasso e riferendosi anche ai princìpi espressi nella "Carta dei diritti delle comunità etniche minoritarie e delle minoranze linguistiche", approvata dal Congresso AIDLCM di Châtillon del 25/7/76, i movimenti occitani hanno lo scopo comune di ottenere il riconoscimento di una Regione Autonoma a Statuto Speciale, nulla quale la tutela delle caratteristiche etnico-linguistiche occitane venga attuata e, inoltre, siano adottati i provvedimenti a carattere socio-economico necessari a consentire la sopravvivenza delle popolazioni nel particolare ambiente montano: perchè esse, per sopravvivere, non siano obbligate ad emigrare o ad assoggettarsi ad un faticoso pendolarismo fra la loro abitazione e i lontani posti di lavoro nella pianura.
Si potrà obiettare che in queste vallate la lingua occitana è ormai ridotta a dialetto, utilizzato solo nell'ambito strettamente familiare o di villaggio, quindi non può essere considerata lingua di cultura, dimenticando con ciò il background di questa lingua, che ha espresso la cultura europea del Medio Evo e che è risorta a dignità con l'opera dei Mistral e della sua scuola alla fine del secolo scorso. D'altra parte i vari periodici dei movimenti occitani, da oltre un decennio, hanno dimostrato che la parlata locale può servire da veicolo di informazione per tutta la zona, senza che le varianti fra Valle e Valle siano d'ostacolo alla intercomunicazione; essi anzi, hanno già dato inizio all'abbozzo di una koinè che potrà essere in avvenire la lingua ufficiale unificata.

La comunità etnica valdostana
La parola "francoprovenzale", a livello popolare, è molto poco conosciuta e usata solo in Valle d'Aosta. E' stata inventata per definire un gruppo di parlate che non rientravano perfettamente nei sistemi "d'oc o d'oil", recentemente, nel 1873, dal linguista Isaia Graziadio Ascoli. La definizione è stata discussa per lungo tempo e, finalmente, accettata dalla grande maggioranza dai linguisti. Come in tutta l'area francoprovenzale, si usa la parola "patois", e il termine francoprovenzale è usato esclusivamente dagli addetti ai lavori oppure nel tentativo, talvolta disperato, di spiegare ai forestieri la natura del linguaggio e di situarlo, linguisticamente parlando, in un contesto geografico.
L'area francoprovenzale comprende la Savoia, parte del Delfinato, il Forez, il Lionese, il territorio lungo la riva sinistra della Saône fino ai Vosgi e alle porte di Besançon, la Svizzera Romanda (eccezion fatta per il distretto di Porrentruy, nel Jura), la Valle d'Aosta (fatta eccezione per i tre comuni walser della Valle di Gressoney), le Valli del Piemonte a sud della Valle d'Aosta, fino alla Valle di Susa. A questi territori si devono aggiungere le due isole linguistiche di Faeto e Celle San Vito, in Puglia.
Questa vasta area, attualmente spezzettata e dipendente da tre Stati diversi, è stata politicamente unita all'epoca del secondo regno di Borgogna e, successivamente, sotto la Casa Savoia.
Nessuna koiné del francoprovenzale si è mai formata e, di conseguenza, la tradizione scritta della parlata, se si eccettua un breve periodo a Lione, nel secolo XIV, è recente e risale al XIX secolo, quando alcuni poeti e narratori si sono cimentati a comporre in francoprovenzale.
Queste brevi notizie (non mi sembra sia il caso, in queste sede, di appronfondire la natura del francoprovenzale da un punto di vista linguistico) servono a situare il problema del francoprovenzale in Valle d'Aosta in quel contesto più ampio che è il suo contesto naturale. Questa breve sintesi tratterà essenzialmente del problema valdostano. Essendo il tema estremamente complesso e le relazioni all'interno dell'area froncoprovenzale poco sviluppate, saranno lasciati da parte i problemi del francoprovenzale al di fuori della Valle d'Aosta.
Per cominciare, una breve storia linguistica della Valle d'Aosta, anche se superficialmente, s'impone.
La genesi del francoprovenzale in Valle d'Aosta è quella di tutte le parlate romanze sul loro territorio. Schematicamente: un sostrato celtico con residui di lingue preindoeuropee precedentemente parlate nella regione: la varietà locale di latino che costituisce la base: un superstrato germanico, dovuto ai contributi diversi delle popolazioni che hanno occupato successivamente la regione. Il tutto arricchito da contributi vari di parlate vicine o particolarmente influenti in periodi storici determinati.
Quando nel corso del XVI secolo il latino ha progressivamente perso la sua funzione di lingua ufficiale, il suo posto è stato preso dal francese.
Nel 1561, con le lettere patenti del 22 settembre, Emanuele Filiberto decretava: "Facciamo sapere che essendo stata, da sempre, la lingua francese, nel nostro paese e ducato di Aosta, più comune e più generalizzata di ogni altra e che avendo il popolo e i sudditi di detto paese la conoscenza e l'abitudine di parlare la detta lingua più correntemente che ogni altra ... perciò, dichiariamo volere che in detto paese e ducato d'Aosta nessuno abbia ad usare, in procedure e atti di giustizia, contratti, inchieste e altre cose similiari "un'altra lingua", pena la nullità di detti contratti e procedure e di cento lire d'ammenda".
L'intervento di Emanuele Filiberto non fa dunque che ratificare un dato di fatto poichè già nel XV secolo il francese è usato, in alternanza col latino, in atti pubblici e privati e, a partire dal 1536, gli Atti della Congrégation des Trois Etats e dei Conseil des Commis, gli organi politico-amministrativi della Valle d'Aosta di allora, sono redatti in francese.
D'altra parte il primo "chroniqueur" valdostano, Charles Dubois (e come lui i suoi continuatori), redige in francese, nel 1462, la sua storia della Casa di Challant, esattamente un secolo prima dell'ufficializzazione del francese. Comincia così per i Valdostani un lungo periodo di bilinguismo durante il quale la vita quotidiana si svolge in francoprovenzale e il francese èpraticato in chiesa, a scuola e nei rapporti con le amministrazioni. Inoltre, il francese è la sola lingua scritta della popolazione, una popolazione, è bene sottolineare, precocemente alfabetizzata, se è vero che alla fine del XIX secolo in Valle d'Aosta non esisteva praticamente l'analfabetismo.
Questo tipo di bilinguismo non ha nulla di straordinario: in una situazione analoga vive l'Europa intera, per non parlare che dell'Europa. La diglossia "lingua popolarellingua letteraria", che attualmente sta quasi scomparendo, è la situazione "normale", e lo è ancora oggi per Paesi che sicuramente non possono essere definiti sottosviluppati: basti pensare alla Svizzera tedesca ("dialetto germanico-tedesco letterario") e alla Fiandra belga ("Fiammingo/Olandese"). Poco a poco, come dappertutto, la lingua letteraria, diventa anche qui l'espressione quotidiana della borghesia locale e del clero, i quali tuttavia, non perdono mai la conoscenza attiva dei "patois".
Finchè questa situazione dura non ci sono conflitti a sfondo linguistico. Ed èa questa situazione di equilibrio, verso questo tipo particolare di bilinguismo, che la Valle d'Aosta sembra tendere.
Ma nel 1860 con l'unità d'Italia e il passaggio della Savoia alla Francia, le cose cambiano: la Valle d'Aosta, coi suoi 80.000 abitanti, si ritrova ad essere la sola regione francofona compressa in uno stato a stragrande, per non dire quasi totale, maggioranza italofona. Si verificano dei cambiamenti istituzionali (gli Stati Sardi erano ufficialmente bilingui, la nuova Italia no) s'instaura una politica uniformizzatrice. L'Italia era fatta. Bisognava fare gli italiani.
Già nell'ottobre 1860 un Decreto Ministeriale impone l'italiano in tutte le scuole del Regno. La Valle d'Aosta fa così subito conoscenza con una nuova realtà. Un deputato piemontese, nel 1861, Giovenale Veggezzi-Ruscalla, stampa un libretto dal titolo eloquente: "Diritto e necessità di abrogare il francese come lingua ufficiale in alcune Valli della provincia di Torino", che si riferisce, nonostante il titolo, principalmente alla Valle d'Aosta. Nel libello in questione, il francese èdefinito "questo sconcio, questa macchia alla nazionalità italiana". E' la storia delle percussioni subite dal francese. Basterà ricordare che questa lingua è stata progressivamente bandita, in ordine di tempo, dalle Scuole superiori, dal Tribunale, dall'Amministrazione pubblica, dalle Scuole elementari e nel periodo fascista, tocco finale, dalla stampa e dal culto.
Naturalmente i Valdostani non hanno accettato passivamente queste imposizioni. Ad ogni sopruso del governo, hanno risposto con una levata di scudi generale facendo recedere, ogni volta, ma solo in parte, il governo. Così facendo hanno imboccato, più o meno consciamente, la via del compromesso. E da compromesso a compromesso si sono trovati privati, nel breve volgare di tre generazioni, di una cospicua parte del loro patrimonio linguistico.
Ma ritorniamo al francoprovenzale. Già nel 1861, quindi prima di Ascoli, il Giovenale Veggezzi-Ruscalla, nel suo attacco alla lingua francese, riservava un trattamento di favore per il francoprovenzale: "Non mi sono mai sognato di uccidere la lingua di queste belle Valli (scriveva in una lettera del 1861), ma l'idioma di Aosta è il patois, non il francese ... " Dunque nel 1861, per la prima volta, il francoprovenzale veniva opposto al francese. Questa strategia (il patois sì, il francese no) si rivela particolarmente fortunata, tant'è vero che sarà ripresa periodicamente dalla pubblicistica italiana per negare il diritto dei Valdostani al francese. I Valdostani, unanimi, hanno sempre respinto questa opposizione che consideravano ridicola in quanto, se applicata all'Italia di allora, avrebbe significato l'abolizione dell'italiano.
La definizione data dall'Ascoli nel 1873 e la successiva pubblicazione del famoso saggio "Schizzi franco-provenzali" (1878), è passata, negli ambienti culturali valdostani praticamente inosservata. Nè gli eruditi locali, ne i primi' poeti francoprovenzali sembravano prestare attenzione alla teoria di Ascoli.
Il primo testo valdostano franco provenzale risale infatti al 1850; per trovarne un secondo (le prime poesie di Cerlogne: il primo e il più grande poeta valdostano in francoprovenzale) bisognerà aspettare cinque anni. Poi, grazie soprattutto a Cerlogne, altri poeti compongono in francoprovenzale. Cerlogne dà anche una grammatica (1892) e un dizionario dei patois (1907), senza mai usare la parola "francoprovenzale", pur essendone sicuramente a conoscenza. La spiegazione è che i Valdostani hanno sempre considerato la loro parlata come un dialetto francese e il termine "patois" soddisfaceva ampiamente le loro esigenze. Per il valdostano, francoprovenzale e francese sono sempre stati due tratti indissolubili, indispensabili e complementari della loro cultura. In questi ultimi anni, con la nascita del Movimento Arpitano, per la prima volta l'opposizione francoprovenzale/francese è stata proposta dai Valdostani. Ed è significativo che, periodicamente, esponenti di partiti italiani in Valle sposino le tesi arpitane (almeno in parte). Il francoprovenzale, infine, ha preso nuovo vigore con la nascita dell'ecologia, che ha fatto riemergere i valori della natura, dell'etnologia, dei dialetti. Il clima sembra più favorevole che nel passato e l'antica lingua è riemersa, o rifiorita, con un misto di civetteria e di fierezza.


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