§ LA POLEMICA SUI "TERRONI"

L'ONDA RAZZISTA




V. A. Stagno



Le polemiche funeree che spesso, da noi, rilanciano gli interrogativi sulla pena di morte, hanno una curiosa peculiarità: si presentano ogni volta come nuove, mentre sono vecchie di secoli. Può così accadere di ritrovarle tutte in un curioso libretto stampato a Napoli poco più di centoventi anni fa e scritto dal celebre Alessandro Dumas (l'autore dei "Tre moschettieri") a commento di un processo che aveva appena concluso il clamoroso giallo di un omicidio: vittima, un orologiaio napoletano, tal Francesco Ruffa, il cui corpo, reso irriconoscibile, era stato abbandonato dagli assassini sulla strada consolare fra Napoli ed Aversa.
Si era nei primissimi anni dell'unità d'Italia. Mancava ancora la capitale, Roma, perché sulla sopravvivenza del potere temporale dei Papi vigilavano le truppe francesi di Napoleone terzo. Solo quando, nel 1870, i francesi furono sconfitti dati prussiani a Sedan e Napoleone ebbe altre gatte da pelare, sicché dovette richiamare le truppe che proteggevano Roma, Cavour mandò i bersaglieri a Porta Pia e il Regno ebbe la sua capitale storica.
Ma il giallo cui ci stiamo riferendo è di sette-otto anni prima. Alessandro Dumas - uno dei tantissimi europei entusiasti della causa nazionale italiana - era giunto a Napoli al seguito di Garibaldi. Direttore onorario delle Belle Arti, curava gli scavi di Pompe!; ma, spirito vulcanico, si occupava anche di problemi attuali, come giornalista.
Benché padroneggiasse poco la lingua italiana (il citato libretto fu scritto in francese, e io tradusse Eugenio Torelli Viollier, che nel 1876 avrebbe fondato a Milano il "Corriere della Sera"), Dumas dirigeva un combattivo giornale, "L'indipendente". In merito all'omicidio dell'orologiaio Ruffa, proprio le indiscrezioni pubblicate dall'"Indipendente" - grazie a chissà quale soffiata - misero sulla pista giusta la polizia, la quale arrestò il ventitreenne Giuseppe Cherubini, di professione artigiano, (fabbricava casse per orologi), ma anche ruffiano; insieme con lui, vennero arrestati quattro complici, fra cui Marianna Stabile, trentenne, prostituta e proprietaria di un bordello.
L'assassinio era avvenuto nello agosto del 1862. Il Cherubini aveva prospettato al Ruffa la possibilità di un ottimo affare: "Mettete nel portafoglio cinquecento ducati e seguitemi; una gentildonna ha bisogno di vendere i propri gioielli e ve Il darà sottocosto". Francesco Ruffa abboccò e il Cherubini lo condusse in un appartamento, che negli atti del processo viene menzionato come "casa onorata".
Spieghiamo il perché di questa definizione con le parole dello stesso Dumas: "Pare che, quando una di queste creature, padrona in Napoli di una casa infame, ha un amante, riconoscendo essa stessa l'ignominia del commercio che fa, prende in fitto per ricevere l'amante una casa a parte, che prende il nome di "casa onorata", ed alla porta della quale ella smette le sue vesti di meretrice per entrarvi degna di colui che ama".
Come siano andate esattamente le cose nella casa onorata di Marianna Stabile non fu accertato. Fatto è che l'avido orologiaio Francesco Ruffa non combinò il vagheggiato affare, fu derubato dei 500 ducati, di un anello, e pochi giorni dopo fu trovato cadavere sulla strada per Aversa. Giuseppe Cherubini e Marianna Stabile furono processati e riconosciuti colpevoli di omicidio. L'unità d'Italia risaliva a un paio d'anni prima e i codici non erano stati ancora unificati. Solo in Toscana era stata già abrogata la pena di morte; a Napoli vigeva ancora. Di fatto, però, i magistrati napoletani - aperti a quel rinnovamento culturale e morale che, sul solco di Cesare Beccaria, propugnava l'abolizione della pena capitale - ricorrevano sistematicamente a stratagemmi e a cavilli per non applicarla. Anche a costo di forzature paradossali. Così, nel caso dell'omicidio Ruffa, la giuria accordò agli assassini le attenuanti generiche (di cui, francamente, non c'era l'ombra) per poterli condannare ai lavori forzati, anziché alla fucilazione.
Contro questa sentenza insorse Alessandro Dumas, che in polemica elegante ma dura con i magistrati scrisse il citato libretto, intitolato "La pena di morte e il giurì napoletano". La tesi del celebre romanziere si impernia su due argomenti-chiave:
1) finché una legge esiste, va applicata senza contorsionismi;
2) l'abrogazione della pena capitale è un'ottima cosa, ma solo per i Paesi civili, non per quelli ancora immaturi, dove soltanto la paura delle morte può arginare il dilagare della violenza sanguinaria.
L'opuscolo, letto oggi, capovolge il clichet tradizionale, secondo cui l'intellettuale francese del secolo XIX è portatore di idee liberali, mentre i borghesi dell'Italia Meridionale indulgono allo scetticismo conservatore. Gli intellettuali napoletani, con cui il focoso creatore del moschettiere D'Artagnan polemizza abilmente, appaiono dei progressisti illuminati. Per esempio, il procuratore generale del processo dichiarò di essere stato costretto dalla legge a chiedere per gli imputati "l'ultimo supplizio", ma elogiò i giurati che avevano accordato le attenuanti generiche per protestare contro la pena capitale "che è in opposizione con le leggi della civiltà e dell'umanità".
La posizione assunta dal procuratore generale, secondo Dumas, era "socialmente parlando, un fatto gravissimo". Ciò che davvero sconcerta non è che lo scrittore fosse, in assoluto, favorevole alla pena capitale. E' una tesi che ha sostenitori colti e in buona fede persino oggi: figuriamoci se non poteva averne centovent'anni fa. Ma Dumas discrimina tra Paesi civili e no, fra nazioni nelle quali gli assassini "hanno diritto a un trattamento privilegiato e altre in cui devono andare al patibolo". Scrive, ad esempio: "Siamo nell'Italia Meridionale. La civiltà non è una pianta esotica, che trasportata da una terra ad un'altra, fiorisca e maturi i frutti: la civiltà cresce e si sviluppa nella sua terra natale".
A un altro intellettuale napoletano, il deputato Ranieri, che sosteneva la bontà della sentenza, osservando che il Parlamento stava per abrogare in tutta Italia la pena di morte, (in realtà, il nuovo codice Zanardelli venne solo nel 1890), Dumas replicava affermando che sarebbe stato un errore, perché l'abrogazione del patibolo poteva essere logica "a titolo di premio" per Paesi come la Svizzera, l'Olanda o la Prussia, "ma crediamo che non si possa far godere questo benefizio alle province meridionali che, dopo Roma, sono le più sanguinose dell'Italia".
E poiché il deputato Ranieri citava l'esempio della Toscana, Dumas arrivò implicitamente a ipotizzare trattamenti diversi da regione a regione del medesimo Stato. Domandò infatti al Ranieri: "Quale rassomiglianza tra Firenze e Napoli, fra la Toscana e le province meridionali, salvo che gli Appennini le attraversano entrambe"? Nel Sud era diffuso il brigantaggio: "Ed un uomo di nobilissimo ingegno vuole applicare alla terra nudrice dei briganti le leggi della dolce e mite Toscana, che per tre secoli fu detta l'Atene d'Italia, mentre le province napoletane n'erano appena l'Albania e l'Epiro!".
Il libello dumasiano non manca di pagine magistrali per gusto letterario e ironia. Poiché il procuratore generale aveva affermato che i lavori forzati erano una "condanna a vivere", Dumas rilevò: "In Napoli, sotto questo bel cielo, innanzi a questo limpido mare, in quest'atmosfera che sveglia nell'uomo ogni sorta di sensualità, vivere è tutto, e vivere in galera, a Procida, a Ponza, a Castellammare, a Gaeta, a Tremiti, a Messina, a Palermo, è sempre vivere". Ci sono argomentazioni calzanti: per esempio, quelle contro l'abuso paternalistico delle amnistie, che di fatto riduceva le condanne a vita, in media, a detenzione di nove anni. Ci sono invettive lucidamente appassionate contro la diffusa corruzione del potere; c'è l'esortazione a manifestare disprezzo "a quei giudici prevaricatori, a quegli amministratori concussionari, a quei prelati sacrileghi, a quei ministri svergognati". Frasi che purtroppo sembrano scritte oggi e non certo per la sola Napoli, ma che il romanziere francese sembrava rivolgere in esclusiva all'Italia Meridionale, e che sbrigativamente utilizzava in difesa della ghigliottina.
Uno dei giurati del processo Ruffa scrisse a Dumas una limpida lettera a sostegno della sentenza e contro la pena di morte: "Quando una società ha il fango sotto i piedi", osserva il giurato, "non ha ( ... ) in ogni delitto una parte qualunque di complicità?". Parole attualissime anche queste. Dumas pubblicò la lettera sull'"Indipendente", ma la fece seguire da una lunga e cortese risposta, che puntualmente ribadiva le sue tesi: "La cancrena corrode le parti inferiori e vergognose della vostra società; chiamate il chirurgo, signore, e presto: il medico non basta più; ove la medicina è impotente, il ferro deve supplire ed il chirurgo della società è il carnefice".
Ma beninteso, solo a Napoli e nell'Italia Meridionale. Non a Firenze o a Parigi. Dumas non era certo un codino; nel suo amore per l'Italia, così denso di contraddizioni, c'era anche genuina ansia di rinnovamento. Si sa che lo scrittore era mulatto: forse l'implicito razzismo che traspare dalle sue polemiche a favore della ghigliottina fu una ritorsione dell'inconscio?
Questo episodio mi torna alla mente, ora che si è riaccesa la polemica sui terroni. Si tratta di storie ricorrenti, sempre noiosamente uguali a se stesse. Ma "qualche cosa" deve pur provocarle, "qualcuno" deve far scattare la molla per un qualche fine. E' dunque legittimo. chiedersi "che cosa", "chi" e "perché".
Nella primavera del 1981, fu Corrado Augias. Su "Repubblica", costui sbandierò la nuova equazione: napoletani = africani. Bene. Sono duecento anni che qualcuno chiama africani i meridionali e che qualche meridionale si offende anche a nome di tutti i suoi conterranei. Senza andare tanto lontano, cominciò Giacomo Leopardi, che definì Napoli "semibarbara e africana". E proseguì il ministro Farini, appena giunto ad ispezionare il Sud, per conto di Cavour. Scrisse. "Eccellenza, questa è Africa e i beduini, in riscontro di questi caffoni, sono fiore di virtù civili". E il fatto di apparire "africani" era già passo avanti. I viaggiatori colti del Sette e dell'Ottocento, infatti, avevano scritto che il Sud era "un paradiso, abitato da diavoli".
Perché, in passato, i meridionali apparvero africani agli occhi dei settentrionali? Forse, perché, topograficamente e climaticamente, il Sud era vicino al continente nero. Forse perché, di conseguenza, c'era più gente bruna, scalza e semisvestita che al Nord. Forse ancora perché c'erano le palme e i cedri. O, infine, perché c'erano più analfabeti, (nel 1861, l'86 per cento, contro il 61 per cento del Nord).
In quell'occasione, Giorgio Bocca, da piemontese abituato al concreto, sostenne che "l'altra cultura", quella meridionale, "se vuole essere aiutata dall'Italia industriale, deve anche cercare di adattarsi, di rinunciare in parte a se stessa". Questo sì che è parlar chiaro. Peccato che i meridionali non abbiano imparato questa lezione subito dopo l'unità, quando erano essi l'Italia industriale, e commisero l'ingenuità di dare una mano al Nord senza chiedergli contropartite di rinunzie culturali. Forse sarebbe giovata anche a quelli al di là della linea gotica.
Si sa, ma non si può dire, che, al momento dell'unificazione, sessant'anni di decadenza non erano riusciti a cancellare in Napoli i benefici effetti del Settecento. Si sa, ma non. si può dire, che la consistenza del Banco di Napoli, al momento della conquista e dell'esproprio, era di 433 milioni contro i 148 milioni di tutto il resto d'Italia. Si sa, ma non si può dire, che il 51 per cento di tutti gli operai dell'industria italiana erano nel Sud; che intorno a Napoli vi erano le più grandi acciaierie, i più grandi cantieri navali, le più grandi cartiere. Si sa, ma non si può dire, perché la storia dei vinti la scrivono i vincitori. Manovrando sul corso forzoso dei dazi, la nascente industria meridionale e l'agricoltura estensiva furono strozzate dal Nord. Liborio Romano potenziò l'uso "politico" della camorra, Giolitti l'uso clientelare del corpo elettorale. Si sa, ma non si può dire, che chi non accettò le nuove regole del gioco fu eliminato senza pietà: quattro milioni di meridionali fuggirono all'estero; tredicimila cosiddetti "briganti" furono fatti fuori fisicamente.
So che questa è acqua passata e che non è molto chic parlarne. Ma si deve ammettere che, se un "piemontese" lamenta il sottosviluppo industriale del Sud, somiglia un pò troppo a quel giovane che prima ammazzò i genitori e poi chiese clemenza al giudice perché orfano. E' invece chic scandalizzarsi periodicamente per il tasso di assenteismo all'Alfa Sud, strizzando così l'occhio a una delle direzioni aziendali più inette del capitalismo pubblico italiano ed ergendosi a mosche cocchiere di una civiltà industriale che finora ha lambito il Sud o con lo sperpero delle industrie ad alta intensità di capitale, o con la rapina del lavoro nero. A leggere ciò che è andato scrivendo Bocca, assai brillante nel dimostrare questo è il contrario di questo, pare che la dinamica del sottosviluppo, studiata da Sanir Amin e da Gunther Franck, operi in tutti i Paesi del globo tranne che nel nostro, sicché lo sviluppo di una parte dell'Italia - caso unico al mondo! - non ha nulla a che fare con il sottosviluppo dell'altra parte. Bocca ne deduce che i meridionali e la loro arcaica civiltà sono incontestabilmente e globalmente inferiori ai settentrionali e alla loro società industriale.
Gira e rigira, queste polemiche finiscono puntualmente per fornire alibi ai peggiori speculatori, pubblici e privati, del Nord e del Sud. E finiscono, comunque, per tradire la verità, accreditando l'idea di un Sud compatto economicamente ed omogeneo culturalmente. In realtà, non esiste un solo tipo di Mezzogiorno, né esiste un solo tipo di meridionali, e non esiste un solo modo per industrializzarlo. Nella stessa zona di Napoli ci sono due esempi antitetici di industrializzazione. L'Olivetti di Arco Felice fu pensata da Adriano Olivetti nei minimi dettagli, studiata su misura delle caratteristiche socio-culturali dei lavoratori locali, realizzata da uomini di raffinata sensibilità, come Ottiero Ottieri, (ricordate Donnarumma all'assalto?). Che io sappia, mai questa azienda ha lamentato assenteismo e bassa produttività. A pochi chilometri di distanza, la famigerata Alfa Sud di Pomigliano d'Arco è stata realizzata nel modo tragicomico argutamente descritto da Antonio Vitiello in un libro che Bocca e Augias farebbero bene a leggere ("Come nasce un'industria subalterna", Guida editore); e l'avviamento è avvenuto nel modo penoso descritto da Masi e dalla Signorelli in un altro libro ("L'industria del sottosviluppo", stesso editore).
Ma torniamo alla polemica innescata da Augias. A prescindere dal tono usato e dalle imperscrutabili intenzioni, siamo proprio sicuri che i suoi argomenti siano sostanzialmente offensivi nei confronti dei meridionali? Quando egli scrive che "sognare per Pomigliano d'Arco e per Battipaglia un futuro uguale a quello di Biella o di Busto Arsizio è una sciocchezza culturale ed economica", siamo proprio sicuri che, a parte i suoi reconditi intenti, quest'affermazione sia proprio degradante per i lavoratori del Sud? La sociologia del lavoro ha impiegato un secolo di studi e di ricerche per individuare certe connessioni tra tipi di lavoro, motivazioni e produttività. Ed è giunta alla conclusione che anche le minime variazioni socio-culturali (Lombroso non c'entra, si tratta di Max Weber!) si riflettono sulle abitudini e sul rendimento dei lavoratori. Perché mai, dunque, un leccese, un nolano, un milanese o un veneziano dovrebbero essere tutti parimenti motivati al modo di produzione industriale che, per dirla con Ivan Illich, "fa degli uomini la materia prima lavorata dalle macchine?" E perché amare la catena di montaggio è "più civile" che odiarla? Perché un lavoratore che avverte ancora i bisogni radicali dell'amicizia, dell'introspezione, del gioco, dell'amore, dell'ironia, è più arretrato di un lavoratore che ormai reagisce soltanto agli stimoli alienanti del denaro e del possesso? Perché impiantare un'acciaieria a Rimini è da considerare un sacrilegio, mentre impiantarla a Santa Maria di Leuca è da ritenere un privilegio?
"Solo per i meridionali, ignoranti e incivili: siete il cancro del Nord, o imparate l'educazione o verrete eliminati": questa minacciosa alternativa, rivolta agli immigrati da un volantino stampato in dodici milioni di esemplari "sparsi in Liguria, in Piemonte e in Lombardia", è stata firmata dalla "Lega L.P.L.", dalle iniziali delle regioni che sono la meta privilegiata dell'esodo dei meridionali.
Non si tratta di un episodio isolato. E' la punta di un iceberg saldamente presente nella società italiana, ha scritto Lombardi Satriani, e su cui in genere si preferisce non soffermarsi. Prosegue l'autore: "Dopo una fase di innegabile solidarietà nei confronti delle vittime del terremoto del novembre 1980, emersero tutti gli stereotipi sui meridionali: indolenti, biechi, abulici, fatalisti, approfittatori, in perenne attesa di assistenza, furbi, tendenzialmente ladri, camorristi, e così via Per protestare contro l'aumento della pressione fiscale -truffaldinamente motivata con le esigenze della ricostruzione nel Sud - a Genova sfilò per le strade un corteo di migliaia di persone che scandivano slogans quali "Meridionali sanguisughe, non vogliamo mantenervi", a Torino migliaia di operai Fiat rifiutarono vibratamente la trattenuta di qualche ora di salario decisa dai sindacati a favore delle vittime del terremoto ( ... )".
Quando un delitto di mafia o di camorra colpisce l'opinione pubblica nazionale, prosegue Lombardi Satriani, si esplicita la tendenza a considerare il fenomeno mafioso e quello camorristico, invece che prodotti di determinate condizioni socio-economiche e politiche, mali endemici del Sud, segno inequivocabile di una sua ontologica "diversità". E dalla diversità all'inferiorità il passo è, nella nostra società, pericolosamente breve e viene puntualmente percorso. Certo, si può non giungere al livello di consapevolezza e di rifiuto testimoniato dal volantino ligure-piemontese-lombardo e la presa di distanza dal diverso - quali che siano i parametri secondo i quali si stigmatizza la sua diversità: geografici, sociali, di razza, di sesso, di abitudini sessuali, e così via può essere infinitamente più sottile, ma il risultato è sostanzialmente lo stesso: l'altro, per il fatto stesso di essere tale, ègiudicato negativamente; esso viene considerato inferiore e, pertanto, rifiutato.
L'"eliminazione" cui fa riferimento il volantino ( ... ) non è soltanto una minaccia paradossale nella sua truculenza; essa indica puntualmente la via che una società razzista deve percorrere. Vi sono molte maniere di eliminare, come vi sono diverse forme di genocidio. Anche l'assimilazione violenta, il costringere altri a perdere le loro peculiarità, a occultare, fino all'oblio, la propria identità culturale, è eliminazione. In questi tempi non si ripete più tanto spesso che le vie del Signore sono infinite, ma, più incisivamente, si fa in modo che le vie della distruzione (degli uomini, oltre che delle cose) siano infinite.

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