Il Gargano, la "montagna
del sole" di Eisermann, è stato riscoperto dalle masse turistiche
in una dimensione quasi nuova, la più congeniale e interessante:
quella interna delle foreste. Dimensione che, secondo l'immagine di Antonio
Baldini, il quale volle vedere nel promontorio, con un'espressiva raffigurazione
di sintesi, "la minuscola Italia di prova", non poteva passare
ancora in secondo piano ed essere ulteriormente sottaciuta. Sicché
accanto alle coste del Gargano, tra le più affollate dalla penisola,
ormai, che corrono in una successione variegata da Manfredonia fino a
Rodi e oltre, all'archeologia e al misticismo del Gargano, si son poste
anche le foreste. La più estesa, non privata: la "Umbra".
L'origine del nome, come del resto quella dello stesso promontorio su
cui sorge, si perde nella notte dei tempi e i diversi ètimi proposti
dagli studiosi appaiono poco attendibili. Secondo alcuni, "Umbra"
è terra abitata da popoli umbri; per altri, più credibilmente,
è rifugio di genti sfuggite alle alluvioni delle valli limitrofe;
per altri ancora, "Umbra" deriva da "pioggia"; per
altri, infine, "dà ombra". Anche le notizie sulle origini
e sull'evoluzione della foresta, soprattutto del periodo prerinascimentale,
sono vaghe e imprecise. "Umbra", comunque, dovrebbe essere il
residuo di quella forte ed esuberante vegetazione che un tempo copriva
quasi tutto il Gargano, ricordato da diversi autori latini (Virgilio,
Orazio, Lucano, Plinio il Vecchio, Strabone, Silio ltalico), italiani
(Pontano, Alberti, Cavalieri, Fazio degli Uberti) e anche stranieri (Gregorovius,
Lenormant, Bestraux).
La sua storia è un continuo e doloroso succedersi - comune a non
poche altre zone della regione - di conquiste, usurpazioni e cessioni
da parte di longobardi, bizantini, saraceni, normanni, svevi, angioini,
albanesi che, a vicenda, si strapparono città, boschi e terreni,
scrivendo una storia di scempi.
Tralasciando i periodi più antichi, diremo che nella seconda metà
del '500 un nobile, Girolamo (o come vuole Baldacci) Geronimo Grimaldi
da Genova, acquistò da un altro feudatario (probabilmente un erede
di Consalvo di Cordova), per circa 30 mila ducati, tutto il territorio
di Monte Sant'Angelo, compresa la Foresta Umbra. La famiglia Grimaldi
si trasmise questa proprietà fino all'epoca dell'occupazione napoleonica,
quando Maria, principessa di Gerace, temendo l'abolizione del feudo, tentò
di vendere l'Umbra al Comune di Monte Sant'Angelo. Ma il governo di Gioacchino
Murat annullò la vendita a causa degli enormi debiti che la principessa
aveva contratto: così tutti i beni furono incamerati dallo Stato.
Caduto il Regno delle Due Sicilie, l'Umbra passò, nel 1861, al
demanio del Regno d'Italia e, cosa assurda, venne posta in vendita. Ma
le misurazioni topografiche e le stime del valore, compiute per incarico
dell'Amministrazione delle Finanze, furono così confuse e contraddittorie,
che la pratica dell'alienazione si trascinò per vari anni. Quando,
poi, sulla base di duemila ettari di superficie è di circa tre
milioni di lire di valore (molti, per quei tempi) si iniziarono le aste,
queste andarono tutte deserte. E fu una fortuna.
Infatti, i Ministri dell'Agricoltura e del Tesoro dell'epoca, riconosciuta
(anche se tardi) l'utilità della foresta, sospesero gli atti di
vendita, e con legge n. 3713 del 1885 l'Umbra fu dichiarata inalienabile
è consegnata all'Amministrazione Forestale dello Stato. Fu l'atto
ufficiale di nascita dell'attuale Umbra. Oggi, comprende i boschi di Sfilzi,
Ginestra, Caritate e lacotenente, con una superficie di undicimila ettari;
una delle maggiori aziende forestali italiane, rappresenta anche oltre
la metà del patrimonio forestale pugliese. A forma di grande triangolo,
nella zona centro-orientale garganica, è compresa tra i territori
di Monte Sant'Angelo, Vieste, Mattinata, Peschici, Vico, lschitella e
Carpino. Si eleva da una quota di 150 metri sul livello del mare a poco
più di 800 nelle aree più alte. Vi crescono faggio, aceri,
carpini, querce, tigli, abeti, castagni, pioppi, larici, ontani, tassi.
L'agrifoglio si coglie a bracciate, coi pungitopo; i ciclamini tessono
tappeti rossi, punteggiati di musco; il narciso, il serpillo, la melissa
sono inebrianti; le felci salgono oltre i due metri, tra fragole, more,
asparagi, muscari: giardino di botanica - definiva l'Umbra il Galanti
- ricco di oltre duemila specie vegetali. Caccia bandita dal 1954: questo
è il regno incontrastato di daini, caprioli, cervi, lepri, tassi,
ricci, ghiri, faine, volpi, linci, gatti selvatici. I cinghiali, numerosi
fino al secolo scorso, sono riapparsi (anche se non stanzialmente), fuggiti
dalle riserve di Pugnochiuso, dopo un incendio.
E' la foresta dei miracoli, la foresta miracolosamente salvata, come isola,
nel cuore montuoso del promontorio. Qualche curiosità. Una quercia
abbattuta alcuni anni fa da un fulmine nella regione Caritate misurava
a mezzo fusto circa tre metri di diametro: aveva oltre sei secoli di vita.
Un gigantesco acero bianco, patriarca degli alberi della foresta, venne
dichiarato dai Borboni monumento nazionale per la sua maestosità.
Al tronco portava inciso l'emblema: il delfino con la mezzaluna in bocca.
Fu venduto nel 1870 per 175 lire a un boscaiolo e un disco del tronco
fu conservato nel Museo Agrario di Roma. Lo si può ancora ammirare.
I rasoi della
camorra
Nella chiesa di Santa Maria della Sanità, a Napoli, c'era e forse
c'è ancora una statua dedicata a San Vincenzo Ferreri, chiamato
familiarmente "'O munacone". Chissà per quale oscura
ragione "'O munacone" era stato nominato patrono della Bella
Società Riformata la quale, come si rileva dallo statuto introdotto
nel 1820, aveva "per fattore Dio, per consigliere San Giuseppe,
per protettrice Mamma Santa Immacolata". Ci voleva un bel coraggio
per invocare la protezione del Padreterno, della Madonna e dei Santi
su quella che non era una congregazione religiosa dedita ad opere di
pietà, ma la criminale arciconfraternita che per quattro secoli
ha spadroneggiato a Napoli, terrorizzandola con i coltelli e con i rasoi
adoperati senza remissione.
Prodotto locale o sinistro retaggio della dominazione spagnola, la "camorra"
(sinonimo dialettale dio "tangente") trovò a Napoli
un terreno fertilissimo, sul quale prosperare per l'azione concomitante
di due fattori: da una parte la carenza e la corruzione dei pubblici
poteri, dall'altra la mentalità sopraffattrice della malavita
partenopea, tesa a realizzare la massima delle aspirazioni: vivere alle
spalle del prossimo, senza "faticare". La caratteristica più
odiosa di questo tipo di delinquenza consisteva nello sfruttamento sistematico
della povera gente, che non aveva il coraggio o la possibilità
di difendersi.
Canaglie, ma sempre napoletani, cioé fantasiosi e intelligenti,
i camorristi capirono subito che l'unione faceva la forza. Divisi, sarebbero
stati spazzati via in un baleno; insieme, avrebbero dominato la città.
Da questo patto scellerato, sorse quella che si sarebbe chiamata via
via "Società dell'Umiltà", "Bella Società
Riformata", organizzata su schemi semplici ma funzionali. Al vertice
della gerarchia stava il "capintesta", democraticamente eletto
da dodici "capintriti" che controllavano i quartieri della
città. Costoro, a loro volta, capeggiavano i "capiparanza",
vale a dire gli esponenti dei gruppi di camorristi che operavano nei
vari settori della vita cittadina. Questa era la Società Maggiore.
Ma esisteva un'altra, la Società Minore, composta da "giovanotti
onorati", "picciotti" e "picciotti di sgarro",
specie di reclute senza diritto alla spartizione delle tangenti, che
aspiravano alla qualifica di camorristi effettivi e ai relativi emolumenti,
sgomitando per mettersi in luce, disposti a commettere i più
nefandi delitti. Il ricambio era largamente assicurato: per ogni "camorrista"
che finiva in galera o al cimitero, c'erano cento picciotti che sollecitavano
l'onore di prenderne il posto. Ogni sera i proventi delle estorsioni
affluivano nelle mani del "contaiuolo" una sorta di segretario-tesoriere,
che li distribuiva fra tutti gli affiliati. La setta disponeva di un
ottimo servizio di informazioni e di un tribunale in piena regola, la
temutissima Gran Mamma, che giudicava le violazioni al codice d'onore
della Società. Se l'accusa era di "infamità"
(delazione), il reo difficilmente sfuggiva alla condanna a morte, che
veniva eseguita seduta stante o nel più breve tempo possibile.
La setta aveva anche il suo inno ufficiale. Diceva: Nui non simmo cravunare
(carbonari), nui non simmo realisti (seguaci del re), nui facimmo 'e
camurriste, jammo 'n culo a chillo e a chiste". Come programma
politico, era un modello di chiarezza.
La tecnica con cui la camorra imponeva taglie, tangenti e percentuali
su qualsiasi attività lecita o illecita, palese od occulta, era
abilmente graduata e persuasiva. Dalla richiesta si passava all'intimidazione,
quindi alla minaccia. Se la vittima resisteva all'estorsione, si beccava
lo "sfregio", cioé la rasoiata che lo sfigurava nel
volto, e infine, se nel frattempo non aveva cambiato idea, arrivava
l'immancabile, micidiale coltellata. Nulla sfuggiva all'occhio rapace
della Società: gioco d'azzardo, prostituzione, contrabbando,
commerci, funerali. Pagavano quotidianamente la tangente anche i facchini
del porto, i pescivendoli, i vetturini, i venditori di acqua fresca,
gli immigrati clandestini. Persino i ladri versavano una percentuale
sulla refurtiva. Nelle carceri, dove i camorristi comandavano più
dei secondini, gli altri detenuti erano soggetti al contributo per "l'olio
della Madonna", che dovevano sborsare se volevano uscire vivi da
quell'inferno. Ma un autentico colpo di genio l'ebbe quel camorrista
che impose la tassa dei dieci per cento sulle messe in suffragio dei
defunti. Di tutte le chiese di Napoli, la sola esentata era quella di
Santa Maria della Sanità, che ospitava la statua di "'O
munacone". Anche agli esosi farabutti napoletani era parso eccessivo
e sconveniente esigere un balzello dal loro celeste patrono.
Prevenuti dai compagni nella faccenda delle messe, altri camorristi
ebbero la magnifica idea di allestire in una strada del centro una falsa
edicola votiva dedicata alla Madonna della Pignasecca. L'inaudito inganno
giocato al sentimento religioso della popolazione venne a galla solo
quando gli autori della truffa, non avendo raggiunto un accordo sulla
suddivisione delle elemosine che ogni sera prelevavano dalla cassetta
delle offerte, si sfidarono in un clamoroso "dichiaramento"
pubblico, scambiandosi coltellate e rivoltellate a profusione, che fecero
scorrere molto sangue. Pur lasciando agli affiliati ampia libertà
d'iniziativa individuale, la camorra gestiva socialmente alcune attività,
quali il "gioco piccolo", un lotto clandestino in concorrenza
con quello del governo; la riscossione di un secondo dazio abusivo sulle
derrate introdotte in città; e, negli ultimi tempi, una scuola
di specializzazione per borsaiuoli. L'alunno poteva considerarsi promosso
solo quando riusciva a sfilare il borsellino dalle tasche di un fantoccio,
senza far tintinnare uno solo delle decine di campanelli di cui era
munito.
Incredibilmente, la gente dei "bassi" pagava senza fiatare,
molto per paura, ma un poco anche perché, in cambio delle tangenti,
la camorra assicurava protezione, ordine e giustizia, che la popolazione
raramente riusciva ad ottenere dalla polizia e dai tribunali borbonici,
tanto che aveva perso l'abitudine di ricorrervi. Valendosi della violenza,
ma anche del buon senso, gli esponenti della setta componevano litigi,
combinavano matrimoni, recuperavano roba rubata, aiutavano i popolani
più disgraziati. Ogni anno, dodici fanciulle povere in età
da marito, una per ogni quartiere di Napoli, ricevevano una ricca dote,
detta dei "capintesta", consuetudine mantenuta fino ai primi
anni del '900. Fra l'imbelle e corrotta polizia borbonica e la camorra,
il popolo parteggiava apertamente per la seconda, esaltandosi alle imprese
dei suoi capi più famosi, come "Michele 'a Nubiltà",
"Tore 'e Criscienzo" e "Ciccio Cappuccio", figure
picaresche capaci di gesti di grande generosità. Un singolare
tipo di "guappo", "don Teofilo Sperino", si fregiava
di ben dieci medaglie al valor civile, meritate per altrettanti atti
di coraggio con cui aveva salvato vite umane.
In una organizzazione statale in sfacelo come quella borbonica, la Bella
Società Riformata costituiva una forza di notevole peso, un vero
Stato nello Stato, che nessuno era riuscito a scalzare. Esistono prove
di chiare collusioni della camorra con la Corte dei Borboni, col governo,
con la polizia, con la burocrazia, con la classe politica. E poiché
a Napoli può succedere di tutto, capitò anche che nel
1861, squagliatasi la polizia durante il vuoto di potere intercorso
fra la fuga di Francesco Il e l'arrivo di Garibaldi, il ministro Liborio
Romano affidasse proprio alla camorra il compito di formare la Guardia
Cittadina, con la quale fu possibile garantire alla popolazione un minimo
di ordine e di legalità. Con quella fulminea trasformazione,
che aveva sbalordito gli stessi napoletani, si era guadagnata anche
la patente di benemerita dell'unione nazionale.
Non furono gli scandali né le inchieste parlamentari ad infliggere,
a cavallo del primo decennio del '900, la mazzata decisiva alla Bella
Società Riformata, ma l'Arma dei Carabinieri. Incaricato di condurre
le indagini per il delitto Cuocolo, il capitano Carlo Fabbroni montò,
con la collaborazione dell'ex camorrista Gennaro Abbatemaggio, un atto
d'accusa che raggiunse lo scopo. L'intero stato maggiore della camorra,
compreso l'ultimo "capintesta" Enrico Alfano, detto "Erricone",
ripescato a New York, dove si era rintanato, dal celebre Giuseppe Petrosino,
venne cacciato in galera e duramente condannato dalla Corte d'Assise
di Viterbo, con sentenza dell'8 luglio 1912. Sembra accertato che la
camorra non c'entrasse col delitto Cuocolo, e lo stesso deus ex machina,
Abbatemaggio, finì per rimangiarsi tutte le accuse: ma ormai
l'organizzazione era stata sgominata.
Ma non distrutta. Si ricostituì, poi, abbandonando la teatralità
spagnola, per assumere le più sofisticate movenze nordamericane,
come testimonia la fine di "Pascalone 'e Nola" e di "Totonno
'e Pomigliano", che nel 1955 si contendevano la strana, napoletanissima
carica di "presidente dei prezzi" del mercato ortofrutticolo.
Ora, "capintesta", "capintriti" e "capiparanza"
non taglieggiano più i poveri diavoli dei bassi, ma si occupano
di droga, di sigarette, di mercati annonari, di appalti, di edilizia,
di lavori pubblici, di impianti di incenerimento, di costruzione di
strade, scuole, case, servizi. Si ricava di più e si rischia
di meno. Altro che sposare una ragazza sedotta per rimpiazzare il seduttore
che se l'era svignata nel Regno Unito, come fece quel povero fesso di
"Michele 'a Nubiltà"!
Sul fiume dei
papiri
Si parte al tramonto, in barca. Anzi, meglio dire su una chiatta. Si
risale il Ciane, il fiume dei papiri, l'unico in Italia nel quale questa
pianta orientale, non sappiamo per quale singolarità della terra,
cresce naturalmente. Il fiume corre parallelo all'Anapo, vicinissimo
a Siracusa. E' lungo pochi chilometri, alimentato da una fonte, che
è poi anch'essa una ninfa trasformata. L'intera idrologia locale
ha origini mitologiche.
Scivoliamo in silenzio, nella prima parte, fra eucalipti e giardini
di aranci. Sullo sfondo, ormai lontano, l'Etna. Poi, sulle due rive,
cominciano a mostrarsi i papiri. Dapprima in gruppi isolati, poi sempre
più alti e più fitti, finché ci si trova sperduti
in quella selva di lunghissimi gambi privi di foglie, un pò piegati
per il peso del ciuffo di crini spioventi che li fa assomigliare a larve
di palme. Dalla parte più bassa, quella che rimane immersa nell'acqua,
gli antichi egiziani ricavavano la carta.
Nel '700 un siracusano, Francesco Landolfo, riuscì a interpretare
il segreto e lo trasmise ai suoi discendenti. Ne nacque un'industria
unica al mondo, e singolare. Siracusa svettava sul papiro. Oggi è
stato distrutto quasi ovunque: una piccola siepe circonda la fonte Aretusa.
E quello sul Ciane? Il fiume rischia l'inquinamento, che segnerebbe
la morte di questa pianta preziosa. A battersi contro la sua estinzione
sono, come sempre, i giovani, preoccupati per questo paesaggio scientifico
e culturale che collega Sicilia ad Egitto, il Ciane al Nilo. Intorno
a questo paesaggio, un altro, quello delle latòmie, dalle quali
i siciliani cavavano la pietra per costruire: cunicoli, corridoi, grotte
(fra cui ]'Orecchio di Dioniso), che sono un gran patrimonio, che testimoniano
dell'alacrità delle genti locali. Anche contro l'abbandono di
quest'altro paesaggio, l'impegno dei giovani. Questa generazione, certamente,
è migliore della nostra.
|