§ IL CORSIVO

SOLITUDINE DEGLI ITALIANI




Giovanni Arpino



Siamo cinquantasette milioni di italiani soli. Benché raccolti in infinite ghenghe, partiti e sindacati, circoli ed assemblee, clan familiari e associativi, i cinquantasette milioni di italiani portano, dentro di sé, un pezzo di solitudine che non rassomiglia agli altri, un pezzo di carbone che fa fuoco per conto suo e non gradisce, non capisce, le altrui scintille.
Pur costituendo un popolo di chiaccheroni permanenti, non ci scambiamo opinioni, ma bugie. Nella nostra federazione dei dialetti ci unisce qualche vocabolo osceno o spregiante, qualche bestemmia comunitaria. Da sempre, le nostre tragedie storiche scaraventano in palcoscenico una miriade di solisti, ma il coro è assente o così esiguo da non pesare mai. Cerchiamo disperatamente ruoli singoli, da tenore e soprano, e, pur etichettati malignamente o sospirosamente dal mondo intero, che ci vede come "gli italiani", nessuno di noi ritiene di appartenere "agli italiani". Ciascuno di noi è convinto d'essere una monade isolata e naturalmente migliore, più importante della monade che porta il suo stesso nome, essendogli moglie o figlio o marito o madre.
Il "carattere dell'italiano", lungamente indagato nei secoli dai grandi viaggiatori, da inglesi e tedeschi innamoratissimi, da diplomatici e romanzieri e poeti e filosofi, ancora una volta ci sta sfuggendo. E inventa continui pertugi per rivoleggiare o di qua o di là, tra i declivi della Storia. C'è chi ci ama per questo, pur tenendo ben ferma la mano sul portafogli, con antico sospetto. E chi nei secoli scorsi ci amò, mai osò infrangere il confine di un'oscura, più che radicata diffidenza: perché l'italiano è persona e non popolo, è individuo e non collettività, è interprete e non testimone, è violino e non orchestra, è fratello ma espulso dalla famiglia. Per questo risultiamo mai noiosi, e però indecifrabili.
Cinquantasette milioni di italiani soli hanno pochissimi motivi in grado di cementarli. Il principale è la forza, è la necessità della menzogna, è il gusto ancestrale dell'incoerenza. Nel nostro Paese chi si fa forza d'essere coerente oggi è lodato ma già domani risulterà un povero fesso. La coerenza è dote fastidiosa, è di per sé una "memoria morale", quindi contrasta con i nostri principi di cinica sopravvivenza. Non esiste il politico coerente, il romanziere coerente, il filosofo coerente. La luce del nostro millantato e sbiaditissimo "stellone" illumina voltafaccia abilissimi e applauditi anche dagli avversari. Ovunque si è disposti a tavole rotonde per gli anormali, i diversi, trascurando gli interessi dei normali. I voltagabbana della "intellighentzia" operano tripli salti, ma mai mortali: non hanno bisogno di reti che li raccolgano, chi ha saltato prima di loro è già in platea, disposto ad accoglierli come vincitori.
Siamo soli, in cinquantasette milioni di italiani, perchè non coltiviamo alcuna memoria. La storia italiana, parli di Garibaldi o di De Gasperi, è un nastro registrato che ognuno cancella a suo comodo nella parti scomode. Il passato non ci interessa, il futuro è lontanissimo. Ai solitari di massa basta una briciola di inquinato, sanguinoso, tragico eppur ridicolo presente. L'italiano, ogni italiano, è uomo dell'oggi. Ciò che fu e ciò che sarà, che non potrà non essere, costituiscono argomenti o da nostalgici spregevoli o da posteri che vogliamo ignorare. Moriamo su tutti i marciapiedi, come cani rognosi, ma con l'idea incorporata di essere invincibili, profeti, degni di qualsiasi Paradiso e prossimi vincitori di un terno al lotto.
Sulla solitudine degli italiani non è costruibile alcun saggio. La si può annusare, ma non diagnosticare. La nostra imprevedibilità - esistenziale e politica - è anch'essa il frutto delle solitudini che ci aggravano. Ci ha condannati per sempre una nostra fama di furbizia, alla quale potremmo sfuggire solo dopo secoli di prove di modestia, di tranquillità, di parole non solo date ma mantenute, di obbedienza civile, di sorriso non diplomatico ma fraterno.
Dovremmo virilmente flagellarci, però ogni strumento di punizione lo abbiamo già venduto agli antiquari. Siamo un immenso "ex voto" vociante, ma che nelle sue invocazioni non sa come chiedere, neppure al Papa, che raccoglie attorno a sé platee enormi ma balbettanti. Anche di questo, tuttavia, ridiamo: nostro è il bacio sul piede marmoreo di una statua, nostro il "santino" racchiuso nel portafogli, nostra la gigantografia di Marilyn o di Guevara appesa sopra il letto, ma nostra anche l'indifferenza con cui li guardiamo, convinti, secondo il proverbio, che "la processione è lunga, la candela è corta".
Non pioverà manna sulla nostra solitudine. Essere civili significa rassomigliare gli uni agli altri, quindi diventare più grigi, più probi, meno teatranti. Noi ci siamo fabbricati un destino diverso: ciascuno è convinto di essere qualcuno, e tutti insieme siamo nessuno.

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