§ IL CENSIMENTO AGRICOLO

MENO SUPERFICIE COLTIVATA, RESTA PICCOLA L'AZIENDA MEDIA




G.D.M.



Continua, anche se leggermente più rallentata, l'emorragia "quantitativa" della nostra agricoltura. Secondo i primi risultati del Terzo Censimento Generale dell'Agricoltura, infatti, le aziende agricole, forestali e zootecniche esistenti in Italia sono risultate pari a tre milioni 279.976, con una superficie totale di ventitre milioni 515.297 ettari, (ma quella utilizzata, la cosiddetta Sau, è di quindici milioni 803.924 ettari, pari al 67,2 per cento del totale).
Il confronto con il precedente censimento, effettuato nel 1970, mette in rilievo una diminuzione di oltre 327 mila aziende (-9,1 per cento), di un milioni e mezzo di ettari di superficie totale (-6,2 per cento) e di circa un milione e 700 mila ettari di superficie utilizzata (-9,7 per cento). La flessione è ancor più evidente, se si tengono presenti i dati del censimento 1961. In questo caso, la perdita è di oltre un milione di aziende (-23,6 per cento) e di circa tre milioni di ettari di superficie.
Se l'agricoltura sta restringendo le sue dimensioni, allineandosi in questo ad una tendenza in atto in molti altri Paesi, ciò non è però accaduto a danno della sua produttività (e per questo si parla di emorragia "quantitativa"), come dimostra il fatto che tra il 1971 e il 1981 il valore della produzione lorda vendibile è aumentato sia a prezzi correnti (+ 389,9 per cento) sia in termini reali (a prezzi 1970 l'incremento è stato del 20,8 per cento).
Molti sono comunque, come sottolinea l'istituto Centrale di Statistica, i fenomeni socio-economici che hanno agito sull'utilizzazione dei terreni, sia pure in misura diversa, e a seconda delle regioni. Tra questi, non più lo spopolamento della montagna, già avvenuto nel passato, ma il consistente incremento dell'edilizia, anche se questo si è concentrato prevalentemente nel settore delle "seconde case".
Altri fattori all'origine della perdita di "spessore" della nostra agricoltura sono poi quelli direttamente connessi con le modificazioni strutturali in atto nel campo primario. Qui l'accento va posto sull'abbandono delle aziende, soprattutto se di piccole dimensioni, che occupano terreni "marginali", e di conseguenza meno fertili e meno facilmente raggiungibili. Un importante ruolo ha indubbiamente giocato anche il lento processo di ristrutturazione che investe la nostra agricoltura e che vede la formazione di aziende più grandi. Da non trascurare, infine, gli effetti che l'ulteriore disciplina dei contratti agrari, soprattutto per quanto riguarda le forme coloniche, hanno esercitato in molte zone del Paese.
Analisi più approfondite potranno essere condotte quando potremo disporre di una maggiore quantità di dati. Queste prime informazioni devono infatti ritenersi provvisorie. Le operazioni di controllo sono ancora in corso e richiederanno tempo; sono quindi suscettibili di lievi modifiche, in modo particolare per alcune province prevalentemente meridionali, nelle quali la frammentazione e la polverizzazione delle aziende da un lato, e il fatto che il conduttore vive generalmente in centri abitati, anche piuttosto distanti dall'azienda, dall'altro, non consentono un'agevole identificazione delle unità di rilevazione. L'Istat, comunque, sta effettuando un'indagine parallela per valutare la qualità dei dati rilevati con il censimento su un campione di aziende agricole situate in 83 Comuni.
Per tornare ai risultati del censimento, c'è da rilevare che il contemporaneo calo di aziende e di superficie ha fatto sì che la superficie totale media sia rimasta sostanzialmente immutata, essendo passata dai 6,9 ettari del 1970 al 7,2 del 1982, (la superficie utilizzata media è invece invariata: 4,8 ettari oggi come allora). In altre parole, le aziende agricole italiane sono ancora troppo "piccole"; e il confronto con alcuni Paesi della Comunità Economica Europea (circa diciassette ettari per azienda nella Repubblica Federale Tedesca, ventisette in Francia, addirittura sessantacinque nel Regno Unito) lo conferma.
Se si guarda poi alla distribuzione sul territorio della nostra agricoltura, si ha un'ennesima verifica: il Sud continua ad essere il serbatoio agricolo d'Italia, almeno come quantità di aziende censite, delle quali oltre la metà (un milione e 700 mila, pari al 51,1 per cento del totale) si localizza proprio nelle regioni meridionali. Nel Settentrione è ubicato poco più di un milione di aziende (pari al 31,9 per cento) e 557 mila sono state rilevate nel Centro (il 17 per cento).
La distribuzione però cambia se si fa riferimento alla superficie, per la quale aumenta la quota del Nord (37,9 per cento) e del Centro (19,7 per cento), mentre diminuisce quella del Sud (42,4 per cento). E' la riprova, in altri termini, di quanto si è detto sulla polverizzazione dell'agricoltura meridionale, dove l'ampiezza media aziendale non raggiunge i sei ettari, contro gli otto e mezzo del Nord e gli 8,3 dell'Italia Centrale.
Tenendo ben presenti queste premesse, l'analisi per regione indica nella Sicilia quella con il maggior numero di aziende agricole (434 mila), seguita dalla Puglia (358 mila) e dalla Campania (293 mila): in queste tre regioni, in definitiva, si concentra un terzo circa di tutte le aziende agricole italiane.
Ma se si passa all'esame dei dati sulla superficie, le cose cambiano: e si verifica, ad esempio, il fatto che la Lombardia, con 163 mila aziende, detiene un milione e 700 mila ettari di superficie: cioé 700 mila in più della Campania, appena 300 mila in meno della Sicilia, che resta tuttavia la regione italiana con la maggiore superficie agricola utilizzata (un milione 698.000 ettari). In quasi tutte le regioni, comunque, si è avuto un calo delle aziende rispetto al 1971: le flessioni vanno dall'1,5 per cento dell'Umbria fino al 26,5 per cento della Lombardia (ma più che di calo, in questo caso, si potrebbe forse parlare di un'accentuato fenomeno di concentrazione). Fanno eccezione il Lazio e la Sardegna, regioni in cui si sono avuti aumenti rispettivamente dell'1,7 e dello 0,9 per cento. La caduta, al contrario, non conosce eccezioni per la superficie.
Un'altra conferma che ci viene dal censimento è quella dell'importanza della vite per la nostra agricoltura (basti pensare che la nostra bilancia commerciale deve al vino un attivo di oltre mille miliardi di lire).
Pur se diminuite di oltre 354 mila unità (-18,1 per cento), sono infatti ben un milione e 600 mila, circa la metà di quelle esistenti, le aziende che praticano la coltivazione della vite, sia per il vino sia per la tavola. Dove la flessione di queste aziende è stata molto consistente, è nel Nord (sfiora il 28 per cento) e nel Centro (-21,2 per cento), mentre nelle regioni meridionali (-11,8 per cento) il calo è stato abbastanza contenuto. Situazione immutata, o quasi, nelle Isole.


La superficie a vite è pari a un milione e 100 mila ettari, ripartita per meno di un terzo (28,8 per cento) al Nord, per il 19 per cento al Centro e per il 52,2 per cento al Mezzogiorno. Solo 80 mila ettari sono destinati all'uva da tavola, per la maggior parte (il 90 Per cento) nel Mezzogiorno. La superficie a vite, comunque, costituisce appena il 7,2 per cento di quella totale, anche se l'incidenza oscilla tra l'uno per cento della Valle d'Aosta e il 12, 7 per cento della Puglia.
Se la vite costituisce una fonte di soddisfazione per la nostra agricoltura, e di valuta pregiata per la nostra bilancia commerciale, esattamente il contrario si può dire della nostra zootecnia, che ci ha visto sborsare nel solo 1982 circa cinquemila miliardi di lire per acquisti all'estero. Per questo, è di particolare interesse (ma anche poco rassicurante per quanto concerne i bovini) quanto il censimento ha rivelato circa la consistenza del bestiame bovino e suino nel nostro Paese.
Il numero dei bovini presenti nei nostri allevamenti è risultato pari a circa otto milioni e mezzo di capi, con una diminuzione rispetto al 1970 di circa 213 mila capi (-2,1 per cento). Per i suini, invece, si è accertata una consistenza superiore agli otto milioni e 800 mila capi, addirittura due milioni e 900 mila in più rispetto al 1970 (+ 48,7 per cento).
Sono valori assoluti che si articolano in andamenti diversi, a seconda delle aree e delle regioni. Per i bovini, infatti, la flessione è il risultato di un aumento al Nord (227 mila capi, + 4,7 per cento) e di cali al Centro (447 mila capi, -34,6 per cento) e al Sud (43 mila capi, -2,7 per cento). Questa situazione si spiega, in modo particolare per quel che riguarda le regioni centrali, con la diminuzione generalizzata dei piccoli allevamenti e con la riduzione della conduzione mezzadrile, mentre per l'aumento nelle regioni settentrionali si deve ricordare il particolare rilievo che l'allevamento bovino ha assunto in alcune regioni, specialmente, negli ultimi anni, in Lombardia e nel Veneto.
Per i suini, invece l'aumento è stato ancora maggiore al Nord (tre milioni di capi, + 83,4 per cento), mentre il calo è stato contenuto nelle regioni centrali (101 mila capi, -7 per cento), trasformandosi in crescita al Sud (trentamila capi, + 3,1 per cento). L'aumento dei suini, comunque, è comune a quasi tutte le regioni, anche se in due di esse, che da sole rappresentano il 56 per cento del patrimonio nazionale, ha assunto dimensioni particolarmente cospicue: si tratta della Lombardia (due milioni e 700 mila capi, + 130 per cento) e dell'Emilia-Romagna (due milioni e 300 mila capi, + 54,9 per cento).


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