§ IL MONDO DEL LAVORO

LO SPETTRO DELLA DISOCCUPAZIONE




Giorgio Ruffolo



Anche la disoccupazione, in Europa, minaccia di raggiungere, come l'inflazione, il drammatico traguardo delle due cifre. In questo caso, si tratta della quota dei disoccupati sulle forze di lavoro, che si aggira già oggi sul 9% e potrebbe toccare il 10% entro la fine dell'anno. L'allarme è grande, ormai, dovunque: e, con esso, si diffonde la convinzione della necessità di affrontare la "nuova peste" con nuove terapie e strumenti. Da noi, si riparla dell'Agenzia del Lavoro. Alcuni restano scettici; altri si convertono. Ma il rischio, non nuovo in Italia, è che ci si confronti su un nome, che ciascuno usa per denotare una cosa diversa; o, peggio, imprecisa. In tal caso, il dibattito sull'Agenzia, o meglio sulle agenzie ("la mia è diversa e migliore della tua") minaccia di essere fuorviante, e di aggiungere confusione, invero non necessaria.
Nell'intento di contribuire modestamente a un chiarimento dei termini del problema, vorrei riassumere il più sinteticamente possibile quelli che mi sembrano i suoi punti salienti.
Primo punto. La disoccupazione in Italia, come in tutta l'Europa Occidentale (e negli Stati Uniti), è connessa con una temporanea caduta del livello della domanda globale, ma con profonde modificazioni - che il rallentamento della domanda ha posto in luce - della struttura della domanda e dell'offerta di lavoro. Queste modificazioni di fondo - che non è possibile qui descrivere - determinano un eccesso globale e tendenzialmente duraturo (almeno fin verso la fine del decennio) dell'offerta sulla domanda di lavoro, e accentuati squilibri tra domanda e offerta (in senso opposto) nei singoli comparti del mercato del lavoro. Ciò riduce drasticamente l'efficacia delle politiche economiche "convenzionali". Sia quelle espansive (keynesiane) sia quelle restrittive (monetariste) incidono infatti sul livello della domanda globale, non sulla struttura dei mercati. Sale, così, in tutta Europa, sia il numero di coloro che perdono il posto a seguito di crisi industriali sia, soprattutto, il numero di coloro - giovani e donne - che chiedono invano di entrare nel mercato del lavoro.
Secondo. L'Italia si distingue per non praticare una politica definita (espansiva o restrittiva che sia), ma una non-politica, che consiste essenzialmente nell'occultare la disoccupazione da crisi industriale con gli interventi assistenziali della Cassa integrazione straordinaria; e nel trascurare la disoccupazione da emarginazione, lasciando il compito di gestirla alle famiglie, al lavoro nero, alla malavita, o a interventi parziali e tutto sommato infelici, di assistenza temporanea (come la legge 285 per i giovani disoccupati). Questa politica, come si direbbe oggi, di governo debole, o, se si vuole, di vivere con i propri guai "indicizzandoli", o, se si vuole ancora, di benevola negligenza, ha provocato la paralisi della necessaria ristrutturazione nelle grandi imprese e l'enorme aumento della spesa pubblica destinata a sussidiare la disoccupazione: quella industriale e, in parte, quella giovanile, nelle forme più diverse e fantasiose.
Terzo. Sarebbe augurabile uscire da questo vortice autodistruttivo prendendo alcune decisioni di fondo. La prima è di lasciar funzionare il mercato secondo la sua propria logica, ricostituendo le necessarie condizioni di mobilità del lavoro. La seconda è che lo Stato assuma direttamente la garanzia di un posto di lavoro a chi lo chiede, non lo trova sul mercato e vuole lavorare davvero.
Naturalmente, le risorse oggi destinate a intralciare il funzionamento del mercato dovrebbero essere destinate a consentire allo Stato di realizzare i suoi programmi di occupazione. Come un altro, e molto autorevole sostenitore di questa semplice idea, Lester Thurow, afferma, si tratta di compiere una piccola rivoluzione copernicana: lo Stato interviene non per sostenere la domanda del mercato, o peggio, per interferire, ma per costituire, indipendentemente dal mercato, la garanzia di ultima istanza dell'occupazione. Questa "piccola rivoluzione copernicana", che costituisce un aspetto fondamentale di un nuovo compromesso liberal-socialista tra democrazia e capitalismo, comporta una serie di misure straordinarie per combattere la disoccupazione qui e ora; e la costruzione di una politica attiva del lavoro di lungo periodo. Quarto punto: le misure straordinarie per combattere la disoccupazione qui e ora; e la costruzione di una politica attiva del lavoro di lungo periodo.
Quarto punto: le misure straordinarie. In Italia, un'azione straordinaria contro la disoccupazione potrebbe articolarsi così:
1) affidare alle Regioni il compito di elaborare, in breve tempo, programmi di lavoro e formazione capaci di assorbire nelle aree critiche (zone industriali, zone urbanizzate del Sud, zone di emarginazione economica e sociale) vasti contingenti di lavoratori disoccupati e inoccupati, per lo svolgimento di attività sociali di interesse pubblico, per le quali esiste una domanda sociale diffusa e una scarsa capacità di risposta amministrativa (assistenza, prevenzione dei danni, sorveglianza, riparazione, restauro del patrimonio pubblico, ecc.) e per lo svolgimento di attività economiche e artigianali in forme cooperative;
2) affidare a un ente autonomo articolato regionalmente - l'Agenzia del lavoro - il compito di stimolare e assistere le Regioni nell'elaborazione dei programmi, e quello di identificare concretamente l'offerta di lavoro disponibile sul luogo;
3) fornire all'Agenzia uno strumento - il contratto di formazione e lavoro a tempo indeterminato - sviluppando l'istituto già previsto dalla nuova legge del collocamento;
4) fornire all'Agenzia i fondi necessari per finanziare i programmi, nell'ambito di contratti di programma con le amministrazioni interessate, con le imprese, con le cooperative;
5) affidare all'Agenzia il compito d'identificare le possibilità di collocamento definitivo dei lavoratori ad essa affidati, attraverso accordi con imprese e amministrazioni, che prevedano lo svolgimento di specifiche attività formative.
Quinto punto: la politica attiva del lavoro. Nel più lungo periodo, l'Agenzia svilupperebbe le sue attività, diventando un vero e proprio Servizio Nazionale del Lavoro, capace di raggruppare le tre principali funzioni di una politica attiva del lavoro, oggi frammentate e inefficienti: programmazione (osservatori e banca dati, per organizzarli occorrono anni!); assistenza e avviamento al collocamento (l'attuale struttura è del tipo burocratico-clientelare); formazione professionale (oggi, in prevalenza, consistente in un insieme di forme frustranti di assistenza, beneficenza e sussidio alla disoccupazione).
La creazione dell'Agenzia, e il suo progressivo sviluppo in un Servizio Nazionale del lavoro, faciliterebbe il processo di riconversione industriale assicurando al tempo stesso la mobilità e l'occupazione. Infatti: le condizioni di mobilità e di piena occupazione assicurate dall'Agenzia renderebbero possibili le trasformazioni necessarie nella domanda del lavoro, al riparo dal "ricatto" della disoccupazione; e l'esercizio coordinato delle funzioni di politica attiva del lavoro assicurerebbe l'adattamento reciproco - quantitativo e qualitativo - tra domanda e offerta di lavoro.
Sesto. A questo disegno così schematizzato si muovono di solito due fondamentali obiezioni. La prima è: costa troppo. E' facile rispondere che, per la collettività, finanziare la disoccupazione costa più che finanziare l'occupazione (oggi si remunerano posti di lavoro inesistenti, più capitali distrutti) e non rende niente. Nel breve periodo, i programmi straordinari dell'Agenzia potrebbero essere finanziati con una parte del Fondo investimenti previsto dalla legge finanziaria; con i fondi della Cassa integrazione; con il Fondo sociale della Comunità; con quel Fondo investimenti previsto dalla legge finanziaria; con i fondi della Cassa integrazione; con il Fondo sociale della Comunità; con quel Fondo di solidarietà dello 0,50%, che troverebbe finalmente una sua giustificazione economica ed "etica". Per quanto riguarda la soluzione a regime, propongo al Ministro del Tesoro un esercizio: faccia l'elenco di tutte le spese che, direttamente o indirettamente, costituiscono forme di sussidio alle imprese e alle famiglie per sostenere la disoccupazione: insomma, calcoli le dimensioni dell'imposta di disoccupazione. E poi prospetti uno smantellamento graduale di questa imposta, in modo da trasferire le risorse così liberate a un Fondo Nazionale per l'Occupazione. Avrà non solo di che finanziare l'Agenzia, ma anche largo margine per quella politica dell'offerta (investimenti produttivi e innovazioni) di cui siamo da tempo in credito.
L'altra obiezione - di origine sindacale - è che l'Agenzia, concepita non come semplice organo di intermediazione, ma anche come un imprenditore, rischia di diventare un serbatoio di disoccupati. Il fatto è che il serbatoio c'è già. Sta nelle imprese (Cassa integrazione) e nelle famiglie. Solo che ci rifiutiamo di vederlo. Ma lo finanziamo. Per eliminarlo, occorre trovargli sbocchi temporanei (attraverso i programmi di formazione e di lavoro) e definitivi (attraverso la politica attiva del lavoro). Per poterlo fare, l'Agenzia deve disporre concretamente delle forze di lavoro disoccupate. Deve dunque essere in grado di assumere, e non solo di intermediare.
Questo, lo so bene, pone problemi delicati per quanto riguarda la Cassa integrazione. Problemi, però, non insolubili, dato che si può assicurare un passaggio graduale dall'uno all'altro regime; sempre, però, che non si imbocchi la via italiana della facilità: quella di evitare le scelte, per non pagarne il prezzo. Un posto di lavoro distrutto deve essere sostituito da un altro posto di lavoro vero, e non da due fasulli. Chiunque afferma il contrario si inganna, e contribuisce ad ingannare gli interessati.

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