§ BILANCI

Sud in bilico Sud sul lastrico




G. D. M.



La legge per il Mezzogiorno continua a vivere di proroghe.
Si attende la nuova, che non riesce a vedere la luce. Nel frattempo la realtà del Sud sta profondamente cambiando, mettendo in discussione molti luoghi comuni e altrettante convinzioni radicate, e linee politiche inattuali. Ancora una volta l'economia reale precede, e di molto, quella segnalata dalle statistiche; sopravanza la gestione politica. La "società dello spettacolo", come la chiama De Rita, impone la sua forza propositiva.
Il dibattito sulle leggi sul Mezzogiorno ha sempre diviso i Partiti. I comunisti hanno chiesto l'abolizione della Cassa per il Mezzogiorno, pilone portante degli interventi nelle regioni meridionali. Democristiani e socialisti avevano opinioni diverse su come ristrutturare la Cassa, poi hanno concordato nello "sdoppiamento": una Cassa per gestire gli incentivi; un'altra per le infrastrutture: quest'ultima dovrebbe prendere il nome di "Agenzia". I repubblicani si sono domandati se non era meglio correggere ciò che non andava della legge in vigore con specifici provvedimenti, piuttosto che rifondare tutta la legislazione per il Sud. Altre opinioni hanno fatto da contorno. E mentre si discuteva, l'economia meridionale non si fermava. Per fortuna.
I risultati del recente "censimento" sono li a dimostrare questa verità, così come sottolineano la nuova realtà i risultati di una recente ricerca di Enzo Pontarollo sulle "tendenze della nuova imprenditoria nel Mezzogiorno degli Anni '70", pubblicata dalla Franco Angeli. Altri segnali giungono dalla recentissima ripartizione dei nuovi sportelli bancari (la regione Puglia ne ha ottenuto il maggior numero, a dimostrazione di una precisa vitalità). E ancora: il presidente dell'Associazione Bancaria ha fatto notare che la domanda di credito è bassa al Nord, ma alta in modo sorprendente nel Mezzogiorno.
Qualche riflessione, allora, si impone. Il "problema meridionale" esiste certamente, ma è molto diverso rispetto a quello degli Anni '50. Il "censimento" ci dice che l'industria si è spostata verso Est, verso il centro e verso il Sud della costiera adriatica. Ci dice ancora che il processo di concentrazione delle attività, sviluppatosi fino al 1961, si è capovolto: l'industrializzazione si accompagna ora alla proliferazione di nuove imprese industriali di piccole e di medie dimensioni. E questa proliferazione coinvolge molte regioni del Mezzogiorno: Abruzzo, Campania e Puglia figurano ripetutamente, nelle classificazioni, insieme con la Valle d'Aosta, con la Liguria, con il Friuli-Venezia Giulia, con riferimento al rapporto addetti all'industria-popolazione, o al rapporto fra addetti all'industria e addetti al servizi o all'agricoltura.
Che cosa c'è dietro questi dati? Quali indicazioni scaturiscono dal rapporti statistici?
L'economia reale, per essere compresa, va integrata con valutazioni qualitative, va analizzata nelle sue motivazioni e nelle sue tendenze di fondo. Ed ecco, allora, il valore dell'indagine di Pontarollo, condotta con la collaborazione dell'Unioncamere attraverso indagini dirette, colloqui, interviste con operatori, imprenditori, titolari e dirigenti d'imprese in quattro province "campione" del Sud (Avellino, Catania, Cosenza e L'Aquila). Come annota Romano Prodi nella premessa: "Appaiono gli uomini nuovi, e con l'ulteriore limite di operare in un ambiente ancora fortemente arretrato, ma con la caratteristica reale degli uomini nuovi, che è quella di fare cose diverse e con metodi innovativi rispetto al passato".
Che cosa sta cambiando nel Sud, o meglio in alcune regioni del Sud?
La risposta ci pare questa: stanno emergendo nuovi soggetti imprenditoriali, con un processo simile a quello che ha caratterizzato il Nord della penisola. Questa soggettività imprenditoriale è sollecitata da un mercato di proporzioni consistenti e non da artificiose riduzioni del costo dei fattori causate dalle singole agevolazioni, (il ricorso all'agevolazione - annota Pontarollo - è nella grande maggioranza dei casi successivo all'inizio dell'attività). Questa soggettività è più marcata in alcune aree e meno in altre: riguarda alcuni settori (e non la totalità). Ma è comunque significativa di un'inversione di tendenza: il meridionale non si è fermato, arreso.
Le indagini confermano la diagnosi. L'imprenditoria meccanica avellinese nasce da ex emigrati, che hanno lavorato per periodi più o meno lunghi nell'Italia del Nord o all'estero, in aziende meccaniche, e che sono poi rientrati per impiantare queste loro attività industriali. Un fenomeno analogo è stato vissuto dal Friuli dopo il terremoto. Il "salto" nel Mezzogiorno avviene negli Anni '70, quando la crisi taglia le gambe a tante attività nel Nord. Pontarollo cita nomi, fatti, episodi. C'è la volontà di affermarsi, l'impegno personale, la flessibilità delle strutture, la competenza tecnica. Fattori che sono alla base dei "localismi" di Prato, di Carpi, i Sassuolo, di Pistoia...
Molti discorsi del passato vanno rivisti. L'effetto "traino" delle vituperate "cattedrali nel deserto" c'è stato in alcune aree: l'ambiente stagnante da anni, spesso da secoli, e stato mosso. E così, strade e autostrade hanno innescato processi di crescita, aprendo nuovi spazi agli insediamenti industriali. E' il caso dell'Irpinia, con gli insediamenti nel settore tessile, del vestiario, dell'abbigliamento. E' il caso del basso Salento, col settore delle calzature.
Altro importante serbatolo di risorse imprenditoriali e costituito dall'artigianato, anche se la trasformazione avviene non sempre e non dappertutto: a Catania, ad esempio, meno che ad Avellino o a Cosenza. Ancora un meccanismo utile e rappresentato, o meglio, individuato nelle forme di partnership tra imprenditori del Nord e del Sud.
Dunque, un nuovo Mezzogiorno sta delineandosi, insieme con una nuova classe di operatori. Ciò non significa che in tutte le regioni meridionali si siano innescate le molle di uno sviluppo autopropulsivo. Per questo, ci vorrà ancora tempo; non sapremmo dire quanto, certamente parecchio. Ma e certo che si e rotta dall'interno la stagnazione, si e spezzata la spirale del fatalismo, ed è altrettanto certo che emergono "operatori in grado di competere con quelli delle aree più progredite del Paese". Una constatazione che deve far riflettere i politici che hanno a disposizione 90 mila miliardi per il decennio 1982-91 e che ridisegnano legislativamente e operativamente la nuova mappa degli interventi straordinari nelle regioni meridionali.
Tutto questo non e nato per miracolo. E' stato frutto di un diuturno lavoro intellettuale e politico, e di maceranti esperienze "sul vivo", che non hanno escluso errori, ma che alla fine hanno contribuito a mutare il colore del cielo e della terra nel Sud, in tanta parte del Sud. E uno degli uomini che si sono battuti senza sosta per la trasformazione della vita meridionale, per il progresso non solo materiale, ma anche civile e culturale del Mezzogiorno, e stato certamente Manlio Rossi Doria, del quale ci occupiamo in questa seconda parte e nostro scritto. Sebbene abbia fatto parte (sia stato uno degli spiriti trainanti) del gruppo che ha sempre predicato la necessità di industrializzare il Sud, l'agricoltura e il mondo delle campagne mantengono un'assoluta centralità nel suo nuovo libro, "Scritti sul Mezzogiorno", edito dalla Einaudi. La sua tesi di fondo, come ha notato Giuseppe Galasso, e sempre che nessuna sostanziale modernizzazione delle regioni meridionali può aver luogo, se le campagne del Sud non trovano la via di un deciso salto di quantità e di qualità nelle loro attività produttive, il modo di realizzare un incremento deciso della loro produttività, e, con ciò, l'avvio ad un'ulteriore riduzione del loro carico demografico. Del resto, ha sempre sostenuto Rossi Doria, o questa direttrice di sviluppo è assunta e portata avanti con decisione e programmaticamente o le cose si muovono egualmente nello stesso senso, e allora con movimenti la cui spontaneità impone costi assai più alti da ogni punto di vista. Questa tesi di fondo è però sviluppata ora da lui con una serie di indicazioni che attestano il persistente e fresco vigore della sua riflessione.
La più importante di tali indicazioni è probabilmente quella relativa al mutamento della fisionomia sociale del Mezzogiorno, per cui "la società meridionale non è più un grande blocco agrario", dato che "il blocco è disfatto e i suoi residui si mescolano e si confondono in una società altrettanto disgregata, ma tutta in movimento e in trasformazione". Rossi Doria risolve, poi, questa indicazione nella petizione di politiche diverse per realtà diverse e nella esaltazione della dimensione regionale quale quadro degli interventi ancora da portare avanti. Ma qui si può osservare che l'indicazione è tanto fondamentale da non richiedere, o meglio, da non consentire una risposta soltanto tecnica. Essa comporta, come ha avuto modo di osservare altrove, la necessità anche di una risposta politica sul piano della sollecitazione di schieramenti congrui alla nuova realtà sociale con cui la politica per il Mezzogiorno si deve confrontare.
Un'altra indicazione fondamentale riguarda il nuovo livello mediterraneo dell'integrazione economica europea, che trasferisce, agli occhi di Rossi Doria, il problema meridionale su un piano internazionale diverso e ne fa, oltre che la principale questione interna, anche un oggetto della realtà nuova, che viene "a contrapporre al 300 milioni di europei evoluti 1200 milioni di "mediterranei" stretti nella morsa di problemi che gli italiani del Mezzogiorno ben conoscono". E anche qui l'indicazione va oltre il dubbio legittimo sull'analogia fra "questione mediterranea" per l'Europa e "questione meridionale" per l'Italia e sulle ragioni di concorrenza fra economie agricole meridionale e mediterranea; e richiede nuove riflessioni e nuove invenzioni nella politica per il Mezzogiorno.
Che è poi ciò che precisamente chiede Rossi Doria, sostiene Galasso, con una coraggiosa denuncia del dubbio se negli ultimi anni la politica italiana sia riuscita ad impedire anche soltanto che il dualismo fra Nord e Sud diventasse più acuto: denuncia tanto più autorevole in quanto proviene da un protagonista, da un riformista da sempre, convito che nella politica per il Mezzogiorno, "dopo una trentennale esperienza, non occorre certo ricominciare tutto da capo" e che, "all'inverso, occorre partire da quel che è avvenuto e da quel che è stato fatto".
Anche Rossi Doria pensa, quindi, che è tempo che il meridionalismo indossi quello che Galasso ha definito "il salo dell'umiltà", senza trincerarsi né in certezze trionfalistiche, né nei fortilizi del tecnicismo e della burocrazia. Che è una "morale" modesta, ma pur sempre preziosa: anzi, indispensabile.
Dal canto suo, sullo stesso tema, scrive Cesare De Seta nell'ultimo quarto di secolo dell'800 lasciò il Mezzogiorno un milione e mezzo di persone, due terzi dei quali non fecero mai più ritorno; dal 1943 al 1971 gli emigrati si calcolano in oltre cinque milioni. Questi pochi dati danno la misura quantitativa - tragica nella sua eloquenza - di cos'abbia rappresentato per il cafone l'Italia subauda e liberale, quella fascista e quella nata dalla Resistenza. Un banco di prova, questo del Mezzogiorno, che è il più fedele e spietato specchio di tutte le attese deluse, le speranze frustate, gli inganni che per oltre un secolo hanno irretito questo serbatolo senza fine di mano d'opera destinato alle economie emergenti del mondo più industrializzato. Dapprima l'America del Nord, poi l'emigrazione nei Paesi forti del vecchio continente, infine "Rocco e i suoi fratelli" approdarono nel triangolo industriale del cosiddetto "miracolo economico".
Le "due Italie", dopo oltre trent'anni di vita democratica, sono ancor più distanti e diverse: sia se si considera il numero degli addetti all'industrializzazione, propriamente intesa, sia se si considerino gli addetti alle attività di tipo artigianale e di piccola industria. Il cavallo, in definitiva, dice De Seta, è così stremato che stenta a tenersi in vita. La montagna del Mezzogiorno si è andata spopolando in modo irreversibile e dopo di essa la stessa sorte è toccata alle dorsali appenniniche più prossime alle risicate pianure: le quali, al contrario, sono state investite - nel più assoluto disordine - da ogni genere di attività. Dall'agricoltura intensiva all'industria, dalle attrezzature turistiche alla più incontrollata espansione degli abitanti. Se la montagna frana e smotta e semina nella rovina centinaia di morti - che sono anch'essi un tributo pagato al loro abbandono - la città patologicamente cresce e divora se stessa. L'urbanesimo corrivo, selvaggio del Mezzogiorno è l'altra faccia della medaglia di questo mancato sviluppo.
Sono le note dominanti d'una storia che sembra essere sempre uguale a se stessa. Non intendo dire, aggiunge De Seta, e sia ben inteso, che il Mezzogiorno d'oggi sia lo stesso di quello che conobbero Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino e neppure quello di Giustino Fortunato: ma i motivi e le ragioni della sua crisi sono gli stessi, nonostante le strutture economiche e territoriali gli equilibri sociali siano radicalmente mutati nello scorrere tumultuoso di molti eventi. L'emigrazione rimane ancora per molti l'ultima ed unica àncora di salvezza. La politica industriale dell'intervento straordinario ha privilegiato le cosiddette industrie pesanti (siderurgia, chimica, ecc ... ), così proprio come avveniva agli albori dell'indutrializzazione nelle aree più dinamiche del nostro Paese.
La crescita urbana e ancora - nonostante i disastri che sono sotto gli occhi di tutti - un fattore patologico di malessere, sulla quale si sono coagulati i più corrivi interessi speculativi. Le opere pubbliche costituiscono ancora quel gran fiume a cui attinge il parassitismo della clientela: ossatura del sistema tradizionale di potere. E per opere pubbliche assai spesso si sono intese strade ed autostrade: non certo quelle opere di contenimento delle montagne, d'imbrigliamento dei fiumi e dei torrenti che con sistematica periodicità hanno seminato lutti e rovina, non solo nell'accidentato Mezzogiorno, ma anche nella florida pianura padana. Dunque, un'idea di lavori pubblici tutta ottocentesca, hausmaniana, che si è imposta come braccio secolare dei più consolidati interessi industriali (industria meccanica, industria siderurgica e chimica).
Il Mezzogiorno perduto e dimenticato in quella notte del 23 novembre ce lo siamo trovati d'improvviso davanti: in tutto il suo abbandono, coi suoi "presepi", che sollecite mani volevano subito far abbandonare per condurre a valle le sue genti. In quella tragica occasione, Rossi Doria spese tutto il suo prestigio perché questo non avvenisse; fece intendere a chi di dovere che questa gente aveva pagato già troppo perché dovesse subire anche quest'offesa. Perché fu in quell'occasione che molti, forse i più, si accorsero che a difendere questo Mezzogiorno erano rimasti assai pochi: i suoi problemi, dinanzi a crisi più vaste, ormai erano questioni accantonate; i tempi migliori - che per molte generazioni d'emigrati non sono mai giunti e per molti cafoni nostri contemporanei sono ancora lontani - si sono ancora una volta dileguati in una sfocata e indistinta prospettiva. In quel giorni del terremoto, Rossi Doria fu tra la sua gente dell'Irpinia: in meno di un mese elaborò con la scuola di Portici un rapporto che va considerato fra i pochi contributi corretti e concreti che son venuti fuori dalla montagna di parole che al terremoto e al dopoterremoto seguirono.
Oggi, comunque, la questione è scivolata nelle cronache interne: quasi che tutto fosse risolto: e siamo invece all'inizio di una claudicante ricostruzione. Lo stesso editore del rapporto, Einaudi, presenta nella prestigiosa collana dei "Saggi" la raccolta di testi, tutti dedicati al Mezzogiorno. L'idea del libro nacque per le scoscese dirupate montagne dell'Irpinia e fu una felice idea, perché il libro di Rossi Doria fa uno spaccato non convenzionale della storia non solo del Mezzogiorno, ma dell'Italia contemporanea. Soprattutto per quel che riguarda quant'è accaduto dalla Ricostruzione fino alle soglie degli anni '80, "Studio sul Mezzogiorno" apre ferite mai rimarginate.
Per chi conosce, quantomeno da testimone, questi problemi, è una sorta di doccia fredda: perché il Mezzogiorno è per molti un'angoscia da rimuovere. Rossi Doria non cede certo a sentimentalismi, parla con dati alla mano, parla :da quello scienziato che è: ma ha anche dalla sua una grande passione politica, una profonda "humanitas" verso questa sua gente, verso queste terre che conosce palmo a palmo come forse nessuno degli accreditati meridionalisti sulla piazza. Certo, la sua difesa ad oltranza dell'intervento straordinario stride talora con le sue analisi, con quello che dal suo insegnamento abbiamo appreso; certo, pensare che strade ed autostrade abbiano "rotto l'isolamento del Mezzogiorno" è giudizio che induce a non poche perplessità, sostiene de Seta; la lucidità la passione, la competenza profondissima che emergono da questi testi, dettati nel corso di trent'anni, sono restituite nella loro interezza in queste dense pagine. Esse conservano il loro carattere militante ed e questa la forza della sua lezione: mai fredda specializzazione, mai tecnicismo sofisticati. Per questo egli è uno dei rari maestri in cui si e imbattuto la nostra generazione: se le prospettive con cui si guarda al problemi del Sud possono e devono essere diverse, è certo che la testimonianza civile, etica e politica che ci ha dato questo maestro è di tale spessore e rigore, che oggi e domani da essa non si potrà differire.

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000