§ L'INCHIESTA

La finanza italiana




Luigi Del Piano, Rosy Gulino, V. A. Stagno



Carlo Gilde scriveva che "un popolo civile si riconosce dal progresso del credito pubblico". Se questa proposizione risponde a verità, lo Stato italiano non dovrebbe avere certo problemi di "civiltà". I dati esposti nella Relazione del Governatore della Banca d'Italia dimostrano un debito pubblico in crescendo. Il debito del settore statale - aggregato costituito dall'Amministrazione dello Stato, dalla Cassa Depositi e Prestiti e dalle Aziende Autonome dello Stato - ha raggiunto a fine 1981 la consistenza di oltre 258.000 miliardi di lire. Se si passa al cosiddetto "settore pubblico allargato" -che comprende, oltre al settore statale, anche le Regioni, i Comuni e le Province, gli Enti di sicurezza sociale, nonché l'Enel e le Aziende municipalizzate - si riscontra un indebitamento pari ad oltre 291.000 miliardi di lire.
L'espansione e forte e se ne ha una tangibile prova raffrontando queste cifre con quelle relative all'indebitamento pubblico nel primi Anni Settanta.

Inflazione e debito pubblico

Alla fine del 1970, ad esempio, il debito del settore statale era di 22.676 miliardi di lire, mentre quello del settore pubblico allargato superava di poco i 30.000 miliardi di lire. E' vero che da allora la lira si e molto svalutata per l'inflazione. Ma che ci sia un fenomeno di crescita reale del debito pubblico é dimostrato da vari indici, uno dei quali e il rapporto debito pubblico-prodotto interno lordo (Pil). Non è che fra il Pil e il debito pubblico vi sia un rapporto di omogeneità, di parte rispetto al tutto o di correlazione necessaria. Gli economisti, quando manovrano grandezze macroeconomiche - come la spesa pubblica totale o il debito pubblico - il cui valore assoluto potrebbe essere poco significativo, le esprimono in termini di percentuale del Pil.
Orbene: questo metodo mette in luce che 122.676 miliardi di debito pubblico del 1970 erano pari al 38,94 per cento del Pil, ed 1 30.000 miliardi del debito del settore pubblico allargato erano pari al 52,88 per cento del Pil. Alla fine del 1981 il debito del settore statale e salito al 64,88 per cento del Pil, e quello del settore pubblico allargato al 73,18 per cento.
Un cenno anche alla composizione del debito: nel 1970 il debito del settore statale era ancora costituito per il 30,9 per cento da titoli a medio e lungo termine (buoni del tesoro poliennali ed altri debiti patrimoniali); la raccolta dell'Amministrazione Postale copriva poco più del 26 per cento dell'indebitamento; l'ammontare del Bot era pressoché irrilevante, dato che l'emissione di questi titoli era utilizzata soltanto per fronteggiare esigenze temporanee di cassa, nell'ambito della gestione dell'esercizio finanziario. Alla fine del 1981 i titoli a medio termine comprendono soltanto il 19,4 per cento del debito del settore pubblico allargato. mentre la massa più ingente e quella del Bot sul mercato, pari al 36 per cento del debito.
L'apparato pubblico, dato che e sempre più difficile collocare presso i risparmiatori titoli a lungo termine e che la raccolta dell'Amministrazione Postale e anche in calo (12,9 per cento del totale), fa ricorso al mercato monetario, con l'emissione del Bot, sottraendo sempre maggiori quote di risparmio all'intermediazione bancaria.
Quali le ragioni di questa espansione?

Il modello sudamericano

La principale e la crescita della spesa pubblica non compensata da corrispondente incremento delle entrate; poi, lo squilibrio che ne deriva nel conti della finanza pubblica. Ma a questo motivo di base se ne aggiunge, nell'ottica del debito pubblico, un altro: il debito pubblico autoalimenta il proprio incremento mediante la dinamica degli interessi passivi. Il fenomeno e stato posto in luce da recenti ricerche di economisti (Franco-Mengarelli-Montesano), che hanno dimostrato come nei tempi lunghi la copertura del disavanzo pubblico mediante indebitamento ha maggiore carica inflazionistica di quanta ne abbia la copertura mediante creazione di base monetaria: in termini più semplici, mediante emissione di moneta.
In concreto, l'incremento del debito pubblico genera maggiori spese per interessi a carico di pubblici bilanci, in special modo in questi tempi, per gli alti tassi che il Tesoro deve corrispondere per raccogliere risparmio sul mercato. La crescente spesa per interessi, a sua volta, va ad espandere il totale della spesa pubblica, sicché si rende necessaria l'emissione di altro debito pubblico. Per verificare questa dinamica, basta considerare con la dovuta attenzione i dati sulla spesa per interessi a carico dei bilanci pubblici nell'ultimo decennio: questi oneri non soltanto salgono in valori assoluti ed in percentuale della spesa pubblica, ma il ritmo della crescita tende all'aumento.
Riferiti i dati alla Pubblica Amministrazione e alle Aziende Autonome dello Stato, l'onere degli interessi - che era valutato intorno al 7-7,5 per cento del totale della spesa nel primi anni del trascorso decennio - ha avuto una prima impennata nel 1976 (6.195 miliardi, pari al 10 per cento della spesa totale) nel 1981. La percentuale di crescita rispetto all'anno precedente e stata del 19,33 per cento nel 1978; del 27,3 per cento nel 1979; del 31,3 per cento nel 1980; del 40,1 per cento nel 1981. La spesa per interessi ha di molto superato, nel 1980 e nel 198 1, quella per gli investimenti pubblici e ha raggiunto ormai, per dimensioni, il secondo posto fra le diverse categorie, superata soltanto da quella per le retribuzioni al personale. E, continuando su questa strada, non e lontano il momento in cui l'onere degli interessi supererà l'ammontare delle retribuzioni corrisposte al personale.
Risultato: la finanza pubblica italiana si avvicina sempre più a un modello sudamericano (con tutto il rispetto per i Paesi appartenenti a quell'area), caratterizzato dalla ingovernabilità di alcuni fattori (quali gli interessi sul debito pubblico) che inesorabilmente determinano le grandezze macroeconomiche. L'alta spesa per interessi, inoltre, trasferisce reddito a classi di rentiers caratterizzate da limitata "imprenditorialità" e da scarsa dinamica. Siamo quindi ben lontani da quella effettiva parità di punti di partenza e di mobilità sociale cui dovrebbe ispirarsi una società libera.
Ed e ormai un circolo vizioso dal quale non e facile uscire. Tutte le proposte fatte in questi ultimi anni per ovviare alla torrentizia crescita del debito pubblico peccano per illusorietà e per altre carenze. Come quella che ipotizza la emissione di titoli di debito pubblico senza cedole per interessi, ma indicizzati, quanto al capitale, all'inflazione. Si deve rimarcare, a questo proposito, che il risparmio corrente sugli interessi sarebbe vanificato dal forte onere al momento del rimborso. E poi tutti i meccanismi di indicizzazione accentuano il pericolo di maggiori spinte inflazionistiche.
Non appare, d'altro canto, realizzabile una riduzione dei tassi d'interesse, dato che la stessa domanda di mezzi finanziari da parte dell'apparato pubblico concorre a mantenere alto il tasso d'interesse interno. la situazione internazionale e inoltre caratterizzata ovunque dall'elevato livello del costo del denaro.
Il problema centrale, in definitiva, torna ad essere quello della riduzione del fabbisogno del settore pubblico. Fino a quando non si sarà avviato un risanamento finanziario dello Stato e dei principali Enti pubblici, non sarà possibile impostare una politica del debito pubblico che superi l'ambito di una sterile ricerca di espedienti transitori.

La via francese all'austerità

Il piano di austerità imposto al francesi da Mitterand, dopo la svalutazione del franco, ha "eccitato" la fantasia di alcuni politici italiani. Anche da noi, secondo costoro, si dovrebbero adottare le misure transalpine.
Quali sono queste misure? Per quattro mesi, fino al 31 ottobre 1982, I prezzi resteranno bloccati al livello raggiunto l'11 giugno, sia alla produzione che al consumo, fatta eccezione per i prodotti agricoli soggetti alla disciplina comunitaria. Gli aumenti delle tariffe pubbliche avrebbero dovuto decorrere dal lo luglio saranno rinviati, fatta eccezione per i carburanti, il gas e l'energia elettrica.
Fino al 31 ottobre saranno bloccati i redditi non salariali, i margini commerciali, i dividendi distribuiti dalle società, e saranno sospese le clausole in materia di aumenti salariali e di indicizzazione dei redditi non salariali. Solo il salario minimo garantito e escluso dal blocco, anzi subirà una rivalutazione con il mese di luglio.
Per il contenimento e il controllo del deficit pubblico, si punterà al riequilibrio della finanza sociale: quindi, aumenti dei contributi per datori di lavoro e per lavoratori. Vi saranno, inoltre, tagli di spesa. Come atto positivo, il governo si éimpegnato in un rilancio degli investimenti (in particolare nelle aziende nazionalizzate), in un programma di lavori pubblici e in una politica di sostegno dell'occupazione.
Questo piano, più apprezzato in Italia che in Francia, non e riuscito certo gradito ai sindacati. Il primo commento e stato: "Non tocca alle vittime della politica di ieri sopportare il rigore delle misure di oggi". Reazione anch'essa viziata da demagogia, riferendosi non già alla politica forsennata di Mitterand, bensì a quella dei suoi predecessori. in particolare dell'aristocratico Giscard d'Estaing.
La Francia fu costretta a svalutare anche con De Gaulle, quindi non si può parlare di responsabilità esclusiva della sinistra. Ma ciò che hanno fatto le sinistre, dopo l'avvento al potere di Mitterand, ha dato il colpo di grazia all'economia francese. Elargizioni sociali generose si sono accompagnate con una "patrimoniale" sulle grandi fortune, con l'abolizione del segreto bancario e con un folle programma di nazionalizzazioni che seguiva una logica di classe e di revanche, ma non certo una logica economica. Per non dire che le nazionalizzazioni appartengono ad un socialismo arcaico, fuori della realtà di un Paese occidentale.
Chi invoca per l'Italia un'austerità alla francese e poco più di un povero provinciale, vittima di superficialità. Ed e anche un impaziente. Perché dovremmo adottare l'austerità di Mitterand, senza avere ancora commesso i suoi errori.
Si replica che la CEE, gli Stati Uniti, il Fondo Monetario Internazionale, la Germania Federale e altri ancora hanno raccomandato alla Francia e all'Italia, dopo i recenti aggiustamenti delle parità monetarie, una politica di risanamento finanziario. Queste raccomandazioni, anzi vengono da più lontano, dal "vertice" di Versailles, e costituiscono un impegno di politica internazionale. In Italia si stanno elaborando misure di austerità e da più parti si grida che gli italiani debbono fare sacrifici, debbono sentirsi più poveri e persino che debbono affollare le fabbriche e disertare le pizzerie. Affermazioni che offendono l'intelligenza e che ricordano Starace, che voleva proibire agli italiani di mangiare gli spaghetti, perché la pastasciutta non era, secondo lui, abbastanza marziale.
Che cosa possiamo fare, allora? Blocchi salariali e dei prezzi suscitano perplessità, perché ci allontanano sempre di più da una politica di mercato, l'unica che possa riequilibrare un Paese sottoposto da circa due decenni a nazionalizzazioni effettive o striscianti e caduto in un assistenzialismo soporifero e costoso. Va rivisto il meccanismo della scala mobile. Ci vogliono tagli di spesa: in primo luogo, occorre separare (anziché unificare) la gestione pensionistica e dividere i beneficiari tra coloro che hanno versato regolarmente contributi e gli altri, titolari di pensioni con contributi "figurativi", o peggio, invalidi "sociali", integri nel corpo ma - come sono stati definiti - "sussidiodipendenti". Ancora: occorre "privatizzare". Tutto ciò che e possibile. Da qualche anno si parla di privatizzare Istituti di Credito pubblici, società pubbliche o a partecipazione statale, e di incoraggiare la previdenza volontaria. Non siamo riusciti ad andare oltre i buoni propositi e il ticket. E inoltre: i centri periferici di spesa - a cominciare dalle Regioni - non dovranno più ottenere rimborsi a pie di lista, ma ridurre le spese anche con ridimensionamento degli organici. Gemellaggi e altre spese parassitarie debbono condurre i responsabili-di fronte alla magistratura per risponderne personalmente. E infine: non bisogna terrorizzare i contribuenti o proporre "patrimoniali" che non hanno mai funzionato per l'erario, ma per la fuga dei capitali all'estero. Si debbono far pagare le tasse a tutti, in particolare a coloro che non hanno ritenuta alla fonte e sono quindi facilitati nell'evasione.

Il costo dei servizi sociali

Quando si parla di tagli e di risparmi nella spesa pubblica, il riferimento più immediato è alla spesa sociale, vale a dire a quella per i servizi che lo Stato organizza per i cittadini: scuola, sanità, pensioni, assistenza sociale. Si dice in proposito che ormai queste prestazioni costano troppo e che occorre perciò diminuirle drasticamente. Va ricordato che il nostro Paese spende nel campo sociale il 23,3 per cento del prodotto interno lordo. Quasi nella sua totalità, la spesa sociale italiana è rigida, perché è impiegata per la gestione corrente dei servizi pubblici. Ad esempio, nella scuola: dei circa 13 mila miliardi spesi nel 1980, ben il 94,1 per cento e andato per il pagamento di stipendi. Analogamente nella sanità circa l'83 per cento delle risorse viene consumato per la gestione delle strutture ospedaliere e per il personale medico, paramedico e amministrativo. Per il settore pensionistico i margini di risparmio reale nell'immediato sono particolarmente ristretti, a meno che (cosa assai improbabile) non si vogliano ledere i diritti già acquisiti. La spesa complessiva per i servizi socio-assistenziali, poi, e addirittura diminuita negli ultimi anni, perché il trasferimento di competenze dello Stato agli Enti Locali non e stato accompagnato da adeguati finanziamenti.
Che fare, per migliorare i nostri conti pubblici? E' scontato che non si possono inasprire oltre le già pesanti imposte dirette: è quindi scelta obbligata quella di agire attraverso prelievi indiretti. Qui il problema non e certo tecnico; diviene squisitamente politico.
Tutti, infatti, ci siamo più o meno abituati a pagare "prezzi politici" per molti servizi e prestazioni. E' il caso, per esempio, delle tariffe elettriche, dal momento che circa l'87 per cento delle famiglie italiane godrebbero delle agevolazioni sociali. Ma anche per i trasporti urbani vale la stessa regola: un servizio che costa in media 285 lire viene infatti pagato soltanto 63 lire dall'utente: il resto lo paga la collettività (cioè, noi stessi). Per i trasporti extraurbani, stesso discorso: a fronte del costo medio per una corsa pari a 966 lire, si registra un ricavo di 203 lire.
Nel breve periodo, dunque, sarebbero opportune decisioni in questi e in altri settori. Per lo Stato non si tratta tanto di chiedere sacrifici, ma di acquisire credibilità, offrendo servizi realmente efficienti e reclamando, in cambio, il costo reale, come avviene nei Paesi più civili. Nel medio periodo occorre metter mano ai criteri che fin qui hanno ispirato la politica sociale pubblica, secondo i quali si doveva dare a tutti le medesime prestazioni, indipendentemente dalle diverse condizioni sociali. Si e generata così una pericolosa confusione che determina profonde irresponsabilità, e quindi anche sprechi di risorse. Il reddito medio delle famiglie italiane si è diffusamente innalzato negli ultimi anni, arrivando a livelli tali che consentirebbero di pagare interamente il costo reale dei numerosi servizi pubblici, ma soprattutto favorendo una diffusione di comportamenti e di consumi più qualificati e personalizzati, sempre meno appagabili con interventi pubblici: tanto spesso di bassa qualità e troppo burocratici. Non sarebbe allora più giusto cominciare a pensare che il compito dello Stato, in una società evoluta e ricca come la nostra, dovrebbe essere solo quello di offrire una soglia minima dignitosa di servizi per tutti, e specialmente per chi dispone di minori possibilità? Oltre questa soglia minima, ciascuno potrebbe direttamente scegliere ciò che più desidera (nel campo previdenziale, terapeutico, scolastico, culturale, e via dicendo), pagando naturalmente di tasca propria.
L'introduzione di questo criterio può essere oggi il segno di una società che è diventata più responsabile, capace di scegliere e di rischiare in proprio, secondo i meriti e le capacità di ciascuno. E che, soprattutto, si pone anche l'obiettivo di affrontare più seriamente i non pochi bisogni reali che ancora esistono: si pensi, ad esempio, alla condizione di tanti anziani, a quella di minori e di handicappati, spesso ancora relegati in istituti superati, o a quella di tanti stranieri (profughi e no) presenti nel nostro Paese. Ma a questo punto e necessario formulare una domanda: le forze politiche, che dichiarano di essere consapevoli delle sostanziali disfunzioni e ingiustizie nel modo di impiegare le risorse pubbliche, sapranno affrontare con coerenza e con spirito di modernità i nostri problemi?

Austerità nella chiarezza

Si possono immaginare tante manovre di politica economica, almeno sulla carta, ciascuna con i suoi meriti e i suoi costi. Ma poi, in conseguenza dei vincoli di cui occorre tener conto, soprattutto del vincolo di bilancia dei pagamenti, il numero delle manovre ammissibili si riduce di molto. Forse, se semplifichiamo un pò le cose e se rinunciamo a dare una specificazione quantitativa al vari interventi, le manovre possibili si riducono a due.
Proviamo a riassumerle schematicamente. La prima e quella del "programma di rientro": il suo obiettivo principale consiste nel riportare l'inflazione in Italia al livello di quella di altri maggiori Paesi industrializzati. Uno dei perni di questa strategia e costituito da una discesa controllata del tasso di cambio della lira all'interno dello Sme (che unitamente all'andamento del dollaro rispetto al marco - un elemento, quest'ultimo, su cui non abbiamo alcun controllo -determina poi il cambio tra dollaro e lire). Fin quando il nostro tasso d'inflazione resta più elevato di quello degli altri Paesi europei, la lira e condannata a scendere all'interno delle Sme: ma se la discesa e contenuta, in modo da colmare solo parzialmente la differenza fra il tasso d'inflazione interno e quello degli altri Paesi europei, la concorrenza estera agirà da freno alle decisioni dei produttori italiani di aumentare i prezzi dei propri prodotti, e allo stesso tempo i prezzi delle materie prime importate aumenteranno più lentamente. I costi di questa manovra sono due: una progressiva perdita di competitività italiana sul mercati internazionali (ed è questo che impone una certa flessibilità nella difesa del cambio: una difesa troppo rigida avrebbe un costo troppo elevato in termini di caduta delle esportazioni, e richiederebbe una dura stretta fiscale interna per riequilibrare la bilancia dei pagamenti); e una politica monetaria piuttosto restrittiva, pesantemente condizionata da quanto avviene all'estero, e diretta ad evitare che la differenza tra i tassi d'interesse interni e quelli esteri provochi un deflusso di capitali, con conseguenze disastrose sul tasso di cambio.
La seconda manovra e quella del "rilancio trainato dalle esportazioni". In questo caso la lira va svalutata, rispetto alle altre valute dello Sme, un pò più di quanto e strettamente necessario per compensare il nostro maggior tasso d'inflazione: i prodotti italiani diventano più competitivi sui mercati internazionali, crescono le nostre esportazioni, e allo stimolo alla crescita che viene dalla domanda estera possiamo tranquillamente aggiungere un pò di stimolo interno (ad esempio, attraverso un maggior deficit pubblico), grazie al fatto che il vincolo della bilancia dei pagamenti sarebbe stato reso meno pressante. Rispetto al primo tipo di manovra, il reddito crescerebbe più rapidamente, almeno nell'immediato; ma allo stesso tempo il tasso d'inflazione sarebbe più elevato, e soprattutto sarebbe crescente nel tempo. Si metterebbe infatti in moto una perversa rincorsa tra salari, prezzi e tasso di cambio della lira. In effetti, questa seconda manovra ha un senso solo se si mette in conto fin da ora un intervento diretto a bloccare la spirale salari-prezzi: come minimo, il blocco della scala mobile almeno rispetto agli aumenti dei prezzi derivanti dalla svalutazione della lira.
Il dibattito sul deficit pubblico e sul livello dei tassi d'interesse, se trascuriamo le accentuazioni polemiche più immediate e cerchiamo di uscire dalla confusione che deriva da una lettura troppo semplicistica in termini di scontro politico bipolare o tripolare o multipolare, può essere interpretato inquadrandolo nel confronto fra le due manovre sopra sommariamente descritte. Il primo tipo di manovra, che ha come obiettivo prioritario il contenimento dell'inflazione, richiede, come si e visto, che i tassi d'interesse vengano tenuti sotto controllo, avendo conto di quanto accade nelle maggiori piazze finanziarie internazionali. Ciò significa che e necessario porre vincoli all'espansione della massa creditizia; se allo stesso tempo si vogliono favorire gli investimenti, facilitandone il finanziamento, occorre contenere il deficit pubblico (controllando la dinamica della spesa pubblica più che con "decretoni una tantum"), per evitare che esso assorba la gran massa del credito disponibile e lo utilizzi per finanziare le spese correnti. Il secondo tipo di manovra, basato sul rilancio delle esportazioni, potrebbe viceversa prendere avvio proprio con un cambiamento di rotta della politica monetaria: un brusco ribasso dei tassi d'interesse avrebbe come conseguenza immediata un indebolimento della lira.
E' chiaro che nessuna delle due vie permette di salvare capra e cavoli, di accelerare lo sviluppo e di rallentare l'inflazione. Forse la prima via comporta costi più sensibili nell'immediato, ma garantirebbe una base più solida per un rilancio produttivo non transitorio dell'economia italiana. Certo, occorre evitare qualsiasi inutile esagerazione, quasi che l'austerità fosse di per sé un fatto positivo di particolare valore sul piano morale (meno case e meno gite al mare, ma una strada più breve per il Paradiso), e non un costo da accettare solo nel limiti dello stretto necessario, in particolare, solo dopo che si disponga di dati affidabili sul deficit pubblico. Soprattutto però occorre evitare che la mancanza di chiarezza sulle scelte di politica economica favorisca la via più semplice, quella della non-scelta e del rinvio dei problemi. Perché in quel caso i problemi sono destinati a ricomparire, e nel frattempo, per pura forza d'inerzia, si saranno inesorabilmente accresciuti.

L'emorragia dei posti di lavoro

Quanto il problema dell'occupazione sia serio lo dicono poche cifre e un solo confronto. Negli Anni Settanta il nostro sistema economico e stato capace di creare oltre un milione di nuovi posti di lavoro, in media circa 100 mila l'anno. Nel 1981 si sono virtualmente persi circa 800 mila posti di lavoro, pari a otto decimi della nuova occupazione creata nel decennio precedente. E l'emorragia continua.
Negli ultimi dodici mesi, "solo" 191 mila lavoratori sono divenuti disoccupati "ufficiali" Perché iscritti nelle liste di collocamento: ma occorre aggiungere i cassa-integrazione, circa 300 mila, e i lavoratori delle imprese a partecipazione statale sussidiati dallo Stato, valutabili intorno a 200 mila (in totale circa 500 mila persone). Se si conteggiano i mancati 100 mila nuovi posti di lavoro creati ogni anno (in media) nel decennio precedente, l'occupazione effettiva e virtuale in un solo anno e diminuita, appunto, di 800 mila posti. Parte di questa perdita, forse; potrà essere riassorbita con la ripresa, ma certo essa appare ingente e grave.
Sul modi di curare il male non sembra esserci grande chiarezza tra le forze politiche. Non si e ancora compreso che i due fattori, che hanno permesso l'apprezzabile aumento dell'occupazione negli Anni Settanta, non potranno più funzionare in futuro e che, perciò, occorre costruirne di nuovi, con scelte che nel breve periodo potranno essere politicamente costose.
I due fattori che hanno prodotto l'aumento di occupazione negli Anni Settanta sono stati l'aumento della spesa pubblica, finanziato per la maggior parte in disavanzo, e la trasformazione delle piccole-medie imprese dei settori maturi (tessile-abbigliamento, cuoio e calzature, mobilio e arredamento).
L'aumento della spesa pubblica, davvero massiccio (in undici anni essa e aumentata tanto quanto nei centodieci anni precedenti), ha contribuito a sostenere la domanda e le attività produttive, creando direttamente e indirettamente nuovi posti di lavoro. Il finanziamento della maggiore spesa in disavanzo ha reso più intenso il sostegno della domanda, e, inoltre, ha consentito di aggregare e catturare consenso politico.
Le piccole e medie imprese hanno saputo adattarsi rapidamente al mutamenti qualitativi e geografici della domanda ed accrescere la quota di penetrazione sui mercati mondiali. Il successo e dipeso dalle qualità di inventiva e dalle capacità di organizzazione dei nostri imprenditori, ma e stato ampiamente facilitato dalla riduzione delle quote di mercato coperte dagli altri Paesi industriali, che hanno cavalcato una ristrutturazione dei loro sistemi industriali diversa dalla nostra, sostituendo gradualmente al settori maturi i settori nuovi.
Di conseguenza, nel nostro sistema industriale e cresciuta la già elevata quota dei settori a bassa e media tecnologia ed e rimasta pressoché immutata quella modesta dei settori nuovi ad alta tecnologia, sempre più appannaggio degli altri Paesi industriali. Il perfezionamento dei sistemi organizzativi, il patrimonio dell'esperienza, il "design" italiano, hanno conseguito importanti risultati, producendo un "surplus" che ha consentito di sostenere l'aumento di occupazione creato nel settori dei servizi.
Purtroppo, i due fattori hanno pressoché esaurita la propria forza dinamica. Nei prossimi anni non sarà più possibile continuare ad accrescere la spesa pubblica, finanziandola in disavanzo, perché i livelli raggiunti sono già molto elevati e perché l'ammontare del disavanzo e divenuto eccessivo e deve essere ridotto. D'altro canto, il "miracolo" dei nostri settori maturi ha pressoché concluso la sua parabola.
Un diverso modello di sviluppo deve, allora, essere costruito senza incertezze ne ritardi, perché altrimenti al senza lavoro si aggiungeranno nel prossimi anni i giovani e le donne in cerca di lavoro, un altro piccolo esercito, stimato in 800 mila unità in cinque anni, elevando le tensioni sociali a livelli drammatici. Un problema, questo, già aperto: basta dare un'occhiata alle liste di collocamento.
Ci sembra indispensabile accrescere la quota dei settori nuovi, dall'energia all'informatica, alle biotecniche, al settore dei beni di investimento più complessi. Vi sono certo in alcuni comparti barriere all'entrata forse insuperabili, ma molto è possibile ed e necessario tentare. Il più dipende da scelte pubbliche, sia per le dimensioni degli investimenti necessari sia per la definizione del quadro in cui le iniziative, anche private, potranno collocarsi. Non bisogna certo restare fermi nei settori in cui abbiamo conquistato una posizione competitiva. Negli Anni Ottanta il lavoro in questi settori potrà essere difeso soltanto se saremo capaci di esportare il nostro sistema delle piccole e medie imprese e, anche in questo campo, nuovi interventi a favore dell'azienda Italia appaiono auspicabili.
Un aumento di occupazione potrà venire solo dal settore dei servizi, perché continuerà l'esodo agricolo e sarà comunque difficile mantenere l'occupazione esistente nel settore industriale. Le dimensioni e la qualità dell'offerta di lavoro insoddisfatta rendono inevitabile programmare una crescita dei posti di lavoro non solo nel servizi produttivi, ma anche in quelli socialmente utili. Tale aumento potrà realizzarsi senza provocare inenarrabili tensioni inflazionistiche e squilibri nel conti con l'estero solo se si riuscirà a ridurre la spesa pubblica improduttiva e il disavanzo pubblico e se il nostro sistema produttivo saprà mantenersi competitivo e creare un consistente e crescente "surplus" per sostenere la nuova occupazione nel servizi.
Se questa diagnosi e condivisa, occorre rivedere molte posizioni assunte in passato, che non appaiono compatibili con le trasformazioni necessarie. Troppo spesso le forze politiche mostrano di voler cavalcare tutto e il contrario di tutto.


Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000