Carlo Gilde scriveva
che "un popolo civile si riconosce dal progresso del credito pubblico".
Se questa proposizione risponde a verità, lo Stato italiano non
dovrebbe avere certo problemi di "civiltà". I dati esposti
nella Relazione del Governatore della Banca d'Italia dimostrano un debito
pubblico in crescendo. Il debito del settore statale - aggregato costituito
dall'Amministrazione dello Stato, dalla Cassa Depositi e Prestiti e dalle
Aziende Autonome dello Stato - ha raggiunto a fine 1981 la consistenza
di oltre 258.000 miliardi di lire. Se si passa al cosiddetto "settore
pubblico allargato" -che comprende, oltre al settore statale, anche
le Regioni, i Comuni e le Province, gli Enti di sicurezza sociale, nonché
l'Enel e le Aziende municipalizzate - si riscontra un indebitamento pari
ad oltre 291.000 miliardi di lire.
L'espansione e forte e se ne ha una tangibile prova raffrontando queste
cifre con quelle relative all'indebitamento pubblico nel primi Anni Settanta.
Inflazione e
debito pubblico
Alla fine del 1970,
ad esempio, il debito del settore statale era di 22.676 miliardi di
lire, mentre quello del settore pubblico allargato superava di poco
i 30.000 miliardi di lire. E' vero che da allora la lira si e molto
svalutata per l'inflazione. Ma che ci sia un fenomeno di crescita reale
del debito pubblico é dimostrato da vari indici, uno dei quali
e il rapporto debito pubblico-prodotto interno lordo (Pil). Non è
che fra il Pil e il debito pubblico vi sia un rapporto di omogeneità,
di parte rispetto al tutto o di correlazione necessaria. Gli economisti,
quando manovrano grandezze macroeconomiche - come la spesa pubblica
totale o il debito pubblico - il cui valore assoluto potrebbe essere
poco significativo, le esprimono in termini di percentuale del Pil.
Orbene: questo metodo mette in luce che 122.676 miliardi di debito pubblico
del 1970 erano pari al 38,94 per cento del Pil, ed 1 30.000 miliardi
del debito del settore pubblico allargato erano pari al 52,88 per cento
del Pil. Alla fine del 1981 il debito del settore statale e salito al
64,88 per cento del Pil, e quello del settore pubblico allargato al
73,18 per cento.
Un cenno anche alla composizione del debito: nel 1970 il debito del
settore statale era ancora costituito per il 30,9 per cento da titoli
a medio e lungo termine (buoni del tesoro poliennali ed altri debiti
patrimoniali); la raccolta dell'Amministrazione Postale copriva poco
più del 26 per cento dell'indebitamento; l'ammontare del Bot
era pressoché irrilevante, dato che l'emissione di questi titoli
era utilizzata soltanto per fronteggiare esigenze temporanee di cassa,
nell'ambito della gestione dell'esercizio finanziario. Alla fine del
1981 i titoli a medio termine comprendono soltanto il 19,4 per cento
del debito del settore pubblico allargato. mentre la massa più
ingente e quella del Bot sul mercato, pari al 36 per cento del debito.
L'apparato pubblico, dato che e sempre più difficile collocare
presso i risparmiatori titoli a lungo termine e che la raccolta dell'Amministrazione
Postale e anche in calo (12,9 per cento del totale), fa ricorso al mercato
monetario, con l'emissione del Bot, sottraendo sempre maggiori quote
di risparmio all'intermediazione bancaria.
Quali le ragioni di questa espansione?
Il modello sudamericano
La principale e
la crescita della spesa pubblica non compensata da corrispondente incremento
delle entrate; poi, lo squilibrio che ne deriva nel conti della finanza
pubblica. Ma a questo motivo di base se ne aggiunge, nell'ottica del
debito pubblico, un altro: il debito pubblico autoalimenta il proprio
incremento mediante la dinamica degli interessi passivi. Il fenomeno
e stato posto in luce da recenti ricerche di economisti (Franco-Mengarelli-Montesano),
che hanno dimostrato come nei tempi lunghi la copertura del disavanzo
pubblico mediante indebitamento ha maggiore carica inflazionistica di
quanta ne abbia la copertura mediante creazione di base monetaria: in
termini più semplici, mediante emissione di moneta.
In concreto, l'incremento del debito pubblico genera maggiori spese
per interessi a carico di pubblici bilanci, in special modo in questi
tempi, per gli alti tassi che il Tesoro deve corrispondere per raccogliere
risparmio sul mercato. La crescente spesa per interessi, a sua volta,
va ad espandere il totale della spesa pubblica, sicché si rende
necessaria l'emissione di altro debito pubblico. Per verificare questa
dinamica, basta considerare con la dovuta attenzione i dati sulla spesa
per interessi a carico dei bilanci pubblici nell'ultimo decennio: questi
oneri non soltanto salgono in valori assoluti ed in percentuale della
spesa pubblica, ma il ritmo della crescita tende all'aumento.
Riferiti i dati alla Pubblica Amministrazione e alle Aziende Autonome
dello Stato, l'onere degli interessi - che era valutato intorno al 7-7,5
per cento del totale della spesa nel primi anni del trascorso decennio
- ha avuto una prima impennata nel 1976 (6.195 miliardi, pari al 10
per cento della spesa totale) nel 1981. La percentuale di crescita rispetto
all'anno precedente e stata del 19,33 per cento nel 1978; del 27,3 per
cento nel 1979; del 31,3 per cento nel 1980; del 40,1 per cento nel
1981. La spesa per interessi ha di molto superato, nel 1980 e nel 198
1, quella per gli investimenti pubblici e ha raggiunto ormai, per dimensioni,
il secondo posto fra le diverse categorie, superata soltanto da quella
per le retribuzioni al personale. E, continuando su questa strada, non
e lontano il momento in cui l'onere degli interessi supererà
l'ammontare delle retribuzioni corrisposte al personale.
Risultato: la finanza pubblica italiana si avvicina sempre più
a un modello sudamericano (con tutto il rispetto per i Paesi appartenenti
a quell'area), caratterizzato dalla ingovernabilità di alcuni
fattori (quali gli interessi sul debito pubblico) che inesorabilmente
determinano le grandezze macroeconomiche. L'alta spesa per interessi,
inoltre, trasferisce reddito a classi di rentiers caratterizzate da
limitata "imprenditorialità" e da scarsa dinamica.
Siamo quindi ben lontani da quella effettiva parità di punti
di partenza e di mobilità sociale cui dovrebbe ispirarsi una
società libera.
Ed e ormai un circolo vizioso dal quale non e facile uscire. Tutte le
proposte fatte in questi ultimi anni per ovviare alla torrentizia crescita
del debito pubblico peccano per illusorietà e per altre carenze.
Come quella che ipotizza la emissione di titoli di debito pubblico senza
cedole per interessi, ma indicizzati, quanto al capitale, all'inflazione.
Si deve rimarcare, a questo proposito, che il risparmio corrente sugli
interessi sarebbe vanificato dal forte onere al momento del rimborso.
E poi tutti i meccanismi di indicizzazione accentuano il pericolo di
maggiori spinte inflazionistiche.
Non appare, d'altro canto, realizzabile una riduzione dei tassi d'interesse,
dato che la stessa domanda di mezzi finanziari da parte dell'apparato
pubblico concorre a mantenere alto il tasso d'interesse interno. la
situazione internazionale e inoltre caratterizzata ovunque dall'elevato
livello del costo del denaro.
Il problema centrale, in definitiva, torna ad essere quello della riduzione
del fabbisogno del settore pubblico. Fino a quando non si sarà
avviato un risanamento finanziario dello Stato e dei principali Enti
pubblici, non sarà possibile impostare una politica del debito
pubblico che superi l'ambito di una sterile ricerca di espedienti transitori.
La via francese
all'austerità
Il piano di austerità
imposto al francesi da Mitterand, dopo la svalutazione del franco, ha
"eccitato" la fantasia di alcuni politici italiani. Anche
da noi, secondo costoro, si dovrebbero adottare le misure transalpine.
Quali sono queste misure? Per quattro mesi, fino al 31 ottobre 1982,
I prezzi resteranno bloccati al livello raggiunto l'11 giugno, sia alla
produzione che al consumo, fatta eccezione per i prodotti agricoli soggetti
alla disciplina comunitaria. Gli aumenti delle tariffe pubbliche avrebbero
dovuto decorrere dal lo luglio saranno rinviati, fatta eccezione per
i carburanti, il gas e l'energia elettrica.
Fino al 31 ottobre saranno bloccati i redditi non salariali, i margini
commerciali, i dividendi distribuiti dalle società, e saranno
sospese le clausole in materia di aumenti salariali e di indicizzazione
dei redditi non salariali. Solo il salario minimo garantito e escluso
dal blocco, anzi subirà una rivalutazione con il mese di luglio.
Per il contenimento e il controllo del deficit pubblico, si punterà
al riequilibrio della finanza sociale: quindi, aumenti dei contributi
per datori di lavoro e per lavoratori. Vi saranno, inoltre, tagli di
spesa. Come atto positivo, il governo si éimpegnato in un rilancio
degli investimenti (in particolare nelle aziende nazionalizzate), in
un programma di lavori pubblici e in una politica di sostegno dell'occupazione.
Questo piano, più apprezzato in Italia che in Francia, non e
riuscito certo gradito ai sindacati. Il primo commento e stato: "Non
tocca alle vittime della politica di ieri sopportare il rigore delle
misure di oggi". Reazione anch'essa viziata da demagogia, riferendosi
non già alla politica forsennata di Mitterand, bensì a
quella dei suoi predecessori. in particolare dell'aristocratico Giscard
d'Estaing.
La Francia fu costretta a svalutare anche con De Gaulle, quindi non
si può parlare di responsabilità esclusiva della sinistra.
Ma ciò che hanno fatto le sinistre, dopo l'avvento al potere
di Mitterand, ha dato il colpo di grazia all'economia francese. Elargizioni
sociali generose si sono accompagnate con una "patrimoniale"
sulle grandi fortune, con l'abolizione del segreto bancario e con un
folle programma di nazionalizzazioni che seguiva una logica di classe
e di revanche, ma non certo una logica economica. Per non dire che le
nazionalizzazioni appartengono ad un socialismo arcaico, fuori della
realtà di un Paese occidentale.
Chi invoca per l'Italia un'austerità alla francese e poco più
di un povero provinciale, vittima di superficialità. Ed e anche
un impaziente. Perché dovremmo adottare l'austerità di
Mitterand, senza avere ancora commesso i suoi errori.
Si replica che la CEE, gli Stati Uniti, il Fondo Monetario Internazionale,
la Germania Federale e altri ancora hanno raccomandato alla Francia
e all'Italia, dopo i recenti aggiustamenti delle parità monetarie,
una politica di risanamento finanziario. Queste raccomandazioni, anzi
vengono da più lontano, dal "vertice" di Versailles,
e costituiscono un impegno di politica internazionale. In Italia si
stanno elaborando misure di austerità e da più parti si
grida che gli italiani debbono fare sacrifici, debbono sentirsi più
poveri e persino che debbono affollare le fabbriche e disertare le pizzerie.
Affermazioni che offendono l'intelligenza e che ricordano Starace, che
voleva proibire agli italiani di mangiare gli spaghetti, perché
la pastasciutta non era, secondo lui, abbastanza marziale.
Che cosa possiamo fare, allora? Blocchi salariali e dei prezzi suscitano
perplessità, perché ci allontanano sempre di più
da una politica di mercato, l'unica che possa riequilibrare un Paese
sottoposto da circa due decenni a nazionalizzazioni effettive o striscianti
e caduto in un assistenzialismo soporifero e costoso. Va rivisto il
meccanismo della scala mobile. Ci vogliono tagli di spesa: in primo
luogo, occorre separare (anziché unificare) la gestione pensionistica
e dividere i beneficiari tra coloro che hanno versato regolarmente contributi
e gli altri, titolari di pensioni con contributi "figurativi",
o peggio, invalidi "sociali", integri nel corpo ma - come
sono stati definiti - "sussidiodipendenti". Ancora: occorre
"privatizzare". Tutto ciò che e possibile. Da qualche
anno si parla di privatizzare Istituti di Credito pubblici, società
pubbliche o a partecipazione statale, e di incoraggiare la previdenza
volontaria. Non siamo riusciti ad andare oltre i buoni propositi e il
ticket. E inoltre: i centri periferici di spesa - a cominciare dalle
Regioni - non dovranno più ottenere rimborsi a pie di lista,
ma ridurre le spese anche con ridimensionamento degli organici. Gemellaggi
e altre spese parassitarie debbono condurre i responsabili-di fronte
alla magistratura per risponderne personalmente. E infine: non bisogna
terrorizzare i contribuenti o proporre "patrimoniali" che
non hanno mai funzionato per l'erario, ma per la fuga dei capitali all'estero.
Si debbono far pagare le tasse a tutti, in particolare a coloro che
non hanno ritenuta alla fonte e sono quindi facilitati nell'evasione.
Il costo dei
servizi sociali
Quando si parla
di tagli e di risparmi nella spesa pubblica, il riferimento più
immediato è alla spesa sociale, vale a dire a quella per i servizi
che lo Stato organizza per i cittadini: scuola, sanità, pensioni,
assistenza sociale. Si dice in proposito che ormai queste prestazioni
costano troppo e che occorre perciò diminuirle drasticamente.
Va ricordato che il nostro Paese spende nel campo sociale il 23,3 per
cento del prodotto interno lordo. Quasi nella sua totalità, la
spesa sociale italiana è rigida, perché è impiegata
per la gestione corrente dei servizi pubblici. Ad esempio, nella scuola:
dei circa 13 mila miliardi spesi nel 1980, ben il 94,1 per cento e andato
per il pagamento di stipendi. Analogamente nella sanità circa
l'83 per cento delle risorse viene consumato per la gestione delle strutture
ospedaliere e per il personale medico, paramedico e amministrativo.
Per il settore pensionistico i margini di risparmio reale nell'immediato
sono particolarmente ristretti, a meno che (cosa assai improbabile)
non si vogliano ledere i diritti già acquisiti. La spesa complessiva
per i servizi socio-assistenziali, poi, e addirittura diminuita negli
ultimi anni, perché il trasferimento di competenze dello Stato
agli Enti Locali non e stato accompagnato da adeguati finanziamenti.
Che fare, per migliorare i nostri conti pubblici? E' scontato che non
si possono inasprire oltre le già pesanti imposte dirette: è
quindi scelta obbligata quella di agire attraverso prelievi indiretti.
Qui il problema non e certo tecnico; diviene squisitamente politico.
Tutti, infatti, ci siamo più o meno abituati a pagare "prezzi
politici" per molti servizi e prestazioni. E' il caso, per esempio,
delle tariffe elettriche, dal momento che circa l'87 per cento delle
famiglie italiane godrebbero delle agevolazioni sociali. Ma anche per
i trasporti urbani vale la stessa regola: un servizio che costa in media
285 lire viene infatti pagato soltanto 63 lire dall'utente: il resto
lo paga la collettività (cioè, noi stessi). Per i trasporti
extraurbani, stesso discorso: a fronte del costo medio per una corsa
pari a 966 lire, si registra un ricavo di 203 lire.
Nel breve periodo, dunque, sarebbero opportune decisioni in questi e
in altri settori. Per lo Stato non si tratta tanto di chiedere sacrifici,
ma di acquisire credibilità, offrendo servizi realmente efficienti
e reclamando, in cambio, il costo reale, come avviene nei Paesi più
civili. Nel medio periodo occorre metter mano ai criteri che fin qui
hanno ispirato la politica sociale pubblica, secondo i quali si doveva
dare a tutti le medesime prestazioni, indipendentemente dalle diverse
condizioni sociali. Si e generata così una pericolosa confusione
che determina profonde irresponsabilità, e quindi anche sprechi
di risorse. Il reddito medio delle famiglie italiane si è diffusamente
innalzato negli ultimi anni, arrivando a livelli tali che consentirebbero
di pagare interamente il costo reale dei numerosi servizi pubblici,
ma soprattutto favorendo una diffusione di comportamenti e di consumi
più qualificati e personalizzati, sempre meno appagabili con
interventi pubblici: tanto spesso di bassa qualità e troppo burocratici.
Non sarebbe allora più giusto cominciare a pensare che il compito
dello Stato, in una società evoluta e ricca come la nostra, dovrebbe
essere solo quello di offrire una soglia minima dignitosa di servizi
per tutti, e specialmente per chi dispone di minori possibilità?
Oltre questa soglia minima, ciascuno potrebbe direttamente scegliere
ciò che più desidera (nel campo previdenziale, terapeutico,
scolastico, culturale, e via dicendo), pagando naturalmente di tasca
propria.
L'introduzione di questo criterio può essere oggi il segno di
una società che è diventata più responsabile, capace
di scegliere e di rischiare in proprio, secondo i meriti e le capacità
di ciascuno. E che, soprattutto, si pone anche l'obiettivo di affrontare
più seriamente i non pochi bisogni reali che ancora esistono:
si pensi, ad esempio, alla condizione di tanti anziani, a quella di
minori e di handicappati, spesso ancora relegati in istituti superati,
o a quella di tanti stranieri (profughi e no) presenti nel nostro Paese.
Ma a questo punto e necessario formulare una domanda: le forze politiche,
che dichiarano di essere consapevoli delle sostanziali disfunzioni e
ingiustizie nel modo di impiegare le risorse pubbliche, sapranno affrontare
con coerenza e con spirito di modernità i nostri problemi?
Austerità
nella chiarezza
Si possono immaginare
tante manovre di politica economica, almeno sulla carta, ciascuna con
i suoi meriti e i suoi costi. Ma poi, in conseguenza dei vincoli di
cui occorre tener conto, soprattutto del vincolo di bilancia dei pagamenti,
il numero delle manovre ammissibili si riduce di molto. Forse, se semplifichiamo
un pò le cose e se rinunciamo a dare una specificazione quantitativa
al vari interventi, le manovre possibili si riducono a due.
Proviamo a riassumerle schematicamente. La prima e quella del "programma
di rientro": il suo obiettivo principale consiste nel riportare
l'inflazione in Italia al livello di quella di altri maggiori Paesi
industrializzati. Uno dei perni di questa strategia e costituito da
una discesa controllata del tasso di cambio della lira all'interno dello
Sme (che unitamente all'andamento del dollaro rispetto al marco - un
elemento, quest'ultimo, su cui non abbiamo alcun controllo -determina
poi il cambio tra dollaro e lire). Fin quando il nostro tasso d'inflazione
resta più elevato di quello degli altri Paesi europei, la lira
e condannata a scendere all'interno delle Sme: ma se la discesa e contenuta,
in modo da colmare solo parzialmente la differenza fra il tasso d'inflazione
interno e quello degli altri Paesi europei, la concorrenza estera agirà
da freno alle decisioni dei produttori italiani di aumentare i prezzi
dei propri prodotti, e allo stesso tempo i prezzi delle materie prime
importate aumenteranno più lentamente. I costi di questa manovra
sono due: una progressiva perdita di competitività italiana sul
mercati internazionali (ed è questo che impone una certa flessibilità
nella difesa del cambio: una difesa troppo rigida avrebbe un costo troppo
elevato in termini di caduta delle esportazioni, e richiederebbe una
dura stretta fiscale interna per riequilibrare la bilancia dei pagamenti);
e una politica monetaria piuttosto restrittiva, pesantemente condizionata
da quanto avviene all'estero, e diretta ad evitare che la differenza
tra i tassi d'interesse interni e quelli esteri provochi un deflusso
di capitali, con conseguenze disastrose sul tasso di cambio.
La seconda manovra e quella del "rilancio trainato dalle esportazioni".
In questo caso la lira va svalutata, rispetto alle altre valute dello
Sme, un pò più di quanto e strettamente necessario per
compensare il nostro maggior tasso d'inflazione: i prodotti italiani
diventano più competitivi sui mercati internazionali, crescono
le nostre esportazioni, e allo stimolo alla crescita che viene dalla
domanda estera possiamo tranquillamente aggiungere un pò di stimolo
interno (ad esempio, attraverso un maggior deficit pubblico), grazie
al fatto che il vincolo della bilancia dei pagamenti sarebbe stato reso
meno pressante. Rispetto al primo tipo di manovra, il reddito crescerebbe
più rapidamente, almeno nell'immediato; ma allo stesso tempo
il tasso d'inflazione sarebbe più elevato, e soprattutto sarebbe
crescente nel tempo. Si metterebbe infatti in moto una perversa rincorsa
tra salari, prezzi e tasso di cambio della lira. In effetti, questa
seconda manovra ha un senso solo se si mette in conto fin da ora un
intervento diretto a bloccare la spirale salari-prezzi: come minimo,
il blocco della scala mobile almeno rispetto agli aumenti dei prezzi
derivanti dalla svalutazione della lira.
Il dibattito sul deficit pubblico e sul livello dei tassi d'interesse,
se trascuriamo le accentuazioni polemiche più immediate e cerchiamo
di uscire dalla confusione che deriva da una lettura troppo semplicistica
in termini di scontro politico bipolare o tripolare o multipolare, può
essere interpretato inquadrandolo nel confronto fra le due manovre sopra
sommariamente descritte. Il primo tipo di manovra, che ha come obiettivo
prioritario il contenimento dell'inflazione, richiede, come si e visto,
che i tassi d'interesse vengano tenuti sotto controllo, avendo conto
di quanto accade nelle maggiori piazze finanziarie internazionali. Ciò
significa che e necessario porre vincoli all'espansione della massa
creditizia; se allo stesso tempo si vogliono favorire gli investimenti,
facilitandone il finanziamento, occorre contenere il deficit pubblico
(controllando la dinamica della spesa pubblica più che con "decretoni
una tantum"), per evitare che esso assorba la gran massa del credito
disponibile e lo utilizzi per finanziare le spese correnti. Il secondo
tipo di manovra, basato sul rilancio delle esportazioni, potrebbe viceversa
prendere avvio proprio con un cambiamento di rotta della politica monetaria:
un brusco ribasso dei tassi d'interesse avrebbe come conseguenza immediata
un indebolimento della lira.
E' chiaro che nessuna delle due vie permette di salvare capra e cavoli,
di accelerare lo sviluppo e di rallentare l'inflazione. Forse la prima
via comporta costi più sensibili nell'immediato, ma garantirebbe
una base più solida per un rilancio produttivo non transitorio
dell'economia italiana. Certo, occorre evitare qualsiasi inutile esagerazione,
quasi che l'austerità fosse di per sé un fatto positivo
di particolare valore sul piano morale (meno case e meno gite al mare,
ma una strada più breve per il Paradiso), e non un costo da accettare
solo nel limiti dello stretto necessario, in particolare, solo dopo
che si disponga di dati affidabili sul deficit pubblico. Soprattutto
però occorre evitare che la mancanza di chiarezza sulle scelte
di politica economica favorisca la via più semplice, quella della
non-scelta e del rinvio dei problemi. Perché in quel caso i problemi
sono destinati a ricomparire, e nel frattempo, per pura forza d'inerzia,
si saranno inesorabilmente accresciuti.
L'emorragia dei
posti di lavoro
Quanto il problema
dell'occupazione sia serio lo dicono poche cifre e un solo confronto.
Negli Anni Settanta il nostro sistema economico e stato capace di creare
oltre un milione di nuovi posti di lavoro, in media circa 100 mila l'anno.
Nel 1981 si sono virtualmente persi circa 800 mila posti di lavoro,
pari a otto decimi della nuova occupazione creata nel decennio precedente.
E l'emorragia continua.
Negli ultimi dodici mesi, "solo" 191 mila lavoratori sono
divenuti disoccupati "ufficiali" Perché iscritti nelle
liste di collocamento: ma occorre aggiungere i cassa-integrazione, circa
300 mila, e i lavoratori delle imprese a partecipazione statale sussidiati
dallo Stato, valutabili intorno a 200 mila (in totale circa 500 mila
persone). Se si conteggiano i mancati 100 mila nuovi posti di lavoro
creati ogni anno (in media) nel decennio precedente, l'occupazione effettiva
e virtuale in un solo anno e diminuita, appunto, di 800 mila posti.
Parte di questa perdita, forse; potrà essere riassorbita con
la ripresa, ma certo essa appare ingente e grave.
Sul modi di curare il male non sembra esserci grande chiarezza tra le
forze politiche. Non si e ancora compreso che i due fattori, che hanno
permesso l'apprezzabile aumento dell'occupazione negli Anni Settanta,
non potranno più funzionare in futuro e che, perciò, occorre
costruirne di nuovi, con scelte che nel breve periodo potranno essere
politicamente costose.
I due fattori che hanno prodotto l'aumento di occupazione negli Anni
Settanta sono stati l'aumento della spesa pubblica, finanziato per la
maggior parte in disavanzo, e la trasformazione delle piccole-medie
imprese dei settori maturi (tessile-abbigliamento, cuoio e calzature,
mobilio e arredamento).
L'aumento della spesa pubblica, davvero massiccio (in undici anni essa
e aumentata tanto quanto nei centodieci anni precedenti), ha contribuito
a sostenere la domanda e le attività produttive, creando direttamente
e indirettamente nuovi posti di lavoro. Il finanziamento della maggiore
spesa in disavanzo ha reso più intenso il sostegno della domanda,
e, inoltre, ha consentito di aggregare e catturare consenso politico.
Le piccole e medie imprese hanno saputo adattarsi rapidamente al mutamenti
qualitativi e geografici della domanda ed accrescere la quota di penetrazione
sui mercati mondiali. Il successo e dipeso dalle qualità di inventiva
e dalle capacità di organizzazione dei nostri imprenditori, ma
e stato ampiamente facilitato dalla riduzione delle quote di mercato
coperte dagli altri Paesi industriali, che hanno cavalcato una ristrutturazione
dei loro sistemi industriali diversa dalla nostra, sostituendo gradualmente
al settori maturi i settori nuovi.
Di conseguenza, nel nostro sistema industriale e cresciuta la già
elevata quota dei settori a bassa e media tecnologia ed e rimasta pressoché
immutata quella modesta dei settori nuovi ad alta tecnologia, sempre
più appannaggio degli altri Paesi industriali. Il perfezionamento
dei sistemi organizzativi, il patrimonio dell'esperienza, il "design"
italiano, hanno conseguito importanti risultati, producendo un "surplus"
che ha consentito di sostenere l'aumento di occupazione creato nel settori
dei servizi.
Purtroppo, i due fattori hanno pressoché esaurita la propria
forza dinamica. Nei prossimi anni non sarà più possibile
continuare ad accrescere la spesa pubblica, finanziandola in disavanzo,
perché i livelli raggiunti sono già molto elevati e perché
l'ammontare del disavanzo e divenuto eccessivo e deve essere ridotto.
D'altro canto, il "miracolo" dei nostri settori maturi ha
pressoché concluso la sua parabola.
Un diverso modello di sviluppo deve, allora, essere costruito senza
incertezze ne ritardi, perché altrimenti al senza lavoro si aggiungeranno
nel prossimi anni i giovani e le donne in cerca di lavoro, un altro
piccolo esercito, stimato in 800 mila unità in cinque anni, elevando
le tensioni sociali a livelli drammatici. Un problema, questo, già
aperto: basta dare un'occhiata alle liste di collocamento.
Ci sembra indispensabile accrescere la quota dei settori nuovi, dall'energia
all'informatica, alle biotecniche, al settore dei beni di investimento
più complessi. Vi sono certo in alcuni comparti barriere all'entrata
forse insuperabili, ma molto è possibile ed e necessario tentare.
Il più dipende da scelte pubbliche, sia per le dimensioni degli
investimenti necessari sia per la definizione del quadro in cui le iniziative,
anche private, potranno collocarsi. Non bisogna certo restare fermi
nei settori in cui abbiamo conquistato una posizione competitiva. Negli
Anni Ottanta il lavoro in questi settori potrà essere difeso
soltanto se saremo capaci di esportare il nostro sistema delle piccole
e medie imprese e, anche in questo campo, nuovi interventi a favore
dell'azienda Italia appaiono auspicabili.
Un aumento di occupazione potrà venire solo dal settore dei servizi,
perché continuerà l'esodo agricolo e sarà comunque
difficile mantenere l'occupazione esistente nel settore industriale.
Le dimensioni e la qualità dell'offerta di lavoro insoddisfatta
rendono inevitabile programmare una crescita dei posti di lavoro non
solo nel servizi produttivi, ma anche in quelli socialmente utili. Tale
aumento potrà realizzarsi senza provocare inenarrabili tensioni
inflazionistiche e squilibri nel conti con l'estero solo se si riuscirà
a ridurre la spesa pubblica improduttiva e il disavanzo pubblico e se
il nostro sistema produttivo saprà mantenersi competitivo e creare
un consistente e crescente "surplus" per sostenere la nuova
occupazione nel servizi.
Se questa diagnosi e condivisa, occorre rivedere molte posizioni assunte
in passato, che non appaiono compatibili con le trasformazioni necessarie.
Troppo spesso le forze politiche mostrano di voler cavalcare tutto e
il contrario di tutto.
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