§ PROSPETTIVE 1982-83 DELL'ECONOMIA MONDIALE

La ripresa in autunno




Ulrico Buttini, Dario Giustizieri



I principali Paesi industrializzati vanno verso una lenta ripresa che si manifesterà con chiarezza solo verso la fine del terzo trimestre di quest'anno e che proseguirà ma a tassi comunque piuttosto ridotti, nel 1983 e negli anni se continuerà ad essere rappresentato dall'elevato livello dei tassi d'interesse, soprattutto negli Stati Uniti, livello che tende a rallentare l'espansione degli investimenti e dunque le opportunità di creare nuovi posti di lavoro; per questo motivo, la disoccupazione resterà su livelli storicamente alti nel prossimi cinque anni, con tassi più alti nel Paesi europei che negli Stati Uniti. In compenso, sotto l'effetto delle rigide politiche monetariste che hanno prevalso negli ultimi due anni, l'inflazione, già diminuita di due-tre punti nell'ultimo anno nella media dei Paesi industrializzati, continuerà a calare anche in futuro, anche se meno velocemente.
Questi, i punti salienti del "Rapporto sull'economia mondiale", reso noto dalla Wharton Econometric Forecasting Associates (Wafe) di Filadelfia, l'istituto di ricerca, economica fondato dal premio Nobel 1980 per l'economia, Lawrence R. e basato sul modello econometrico "Link", creato da Klein per porre in relazione le grandezze economiche dell'economia internazionale sulla base dei dati dei singoli Paesi. Il World Economic Outlook della Wefa è stato riconosciuto come il più preciso e attendibile tra i modelli econometrici che seguono l'economia planetaria. L'aggiornamento che presenta sottolinea in particolare l'elemento di incertezza rappresentato dalla politica monetaria statunitense, nel determinare quegli effetti restrittivi in tutti i Paesi industrializzati che sono stati criticati da Europa e Giappone in diverse occasioni negli ultimi dodici mesi. Non vi è dubbio, rileva il rapporto Wefa, che finché i tassi d'interesse non cadranno, nessuna area del mondo - sviluppata, in via di sviluppo o ad economia centralizzata - può aspettarsi di ritornare a tassi di crescita sostenuti. Agli attuali livelli, le spese in capitale e beni durevoli vengono significativamente inibite ( ... ). Non mancano le prove che il principale colpevole sia la politica monetaria americana e molti governi approfittano di ogni opportunità di ridurre i propri tassi d'interesse non appena quelli Usa si riducono anche di poco, prevenendo, per inciso, rilevanti mutamenti nelle parità di cambio.
La Wefa, che alla fine dell'anno scorso prevedeva una crescita dell'1,5 per cento per l'area industrializzata nel 1982, si limita ora a proiettare un misero 0,8 per cento, che si basa oltre tutto su un calo del prodotto nazionale lordo degli Stati Uniti dello 0,2 per cento, quando ormai si prevede in realtà una contrazione che sfiorerà l'l per cento, anche se si concretizzerà la ripresa piuttosto sostenuta che l'Amministrazione si aspetta per il terzo e quarto trimestre (e che diversi analisti negano). Lo stesso Giappone registrerà una crescita piuttosto limitata (3,2 per cento), certamente ben più dinamica rispetto a quella prevista per i Paesi europei nel loro insieme (0,9 per cento), ma comunque inferiore alle originali aspettative del governo nipponico (tra il 4 e il 5 per cento).
Anche i Paesi in via di sviluppo continueranno a registrare una crescita limitata a causa della recessione in occidente; rispetto alla previsione originale di uno sviluppo del 4,6 per cento nel 1982, ora ci si attende un insoddisfacente 1,6 per cento, dovuto in massima parte alle difficoltà attraversate dai Paesi OPEC in relazione al calo (in termini reali) del prezzo del petrolio e alle tensioni politiche nell'area mediorientale. Contro uno sviluppo medio del 5,4 per cento negli anni tra il 1975 e il 1979, I Paesi esportatori di petrolio registreranno una crescita assai ridotta quest'anno, e torneranno a fasi più accelerate di sviluppo solo dopo il 1983.
In generale, lo sviluppo dell'economia mondiale sarà più elevato nel periodo 1982-87 rispetto agli anni tra il 1979 e il 1982 (3,3 per cento contro 1,5 per cento), ma non si prevedono più tassi di sviluppo paragonabili a quelli del passato (5,5 per cento negli anni aurei tra il 1960 e il 1973).
Per quest'anno e previsto un riequilibrio delle bilance correnti dei differenti gruppi di Paesi; per i Paesi sviluppati la Wefa prevede solo un lieve approfondimento del deficit da 48 a 55 miliardi di dollari, sostanzialmente in linea con l'inflazione. Mentre si annulla il surplus dei Paesi esportatori di petrolio (che, oltre al crollo delle esportazioni, hanno dovuto registrare lo scorso anno una diminuzione del 3,1 per cento del valore reale del barile di greggio, con la prospettiva di vederlo ulteriormente calare del 13,1 e del 5,6 per cento tra quest'anno e il 1983), diminuisce fortemente il deficit dei Pvs-non-oil, soprattutto in seguito alla riduzione delle importazioni petrolifere e malgrado la contrazione dei valori dei prodotti primari esportati, che da due anni sono in ribasso e hanno segnato addirittura un minimo trentennale nel mesi trascorsi.
Ma il problema più grave che si presenta, e sempre più si presenterà nei prossimi anni, e quello della disoccupazione. Si tratta dell'effetto di fattori diversi, che giocano 0991, nel periodo successivo alla seconda crisi petrolifera, un ruolo più violento dei fattori in atto dopo la prima crisi del 1973-74. Rispetto ad allora, infatti, sono state applicate dopo il 1979-80 politiche. economiche nel Paesi industrializzati tendenti ad agire sull'inflazione attraverso la limitazione dell'offerta di moneta, con l'effetto di determinare un elevato livello dei tassi d'interesse, e accettando lo scotto da pagare in termini di minore crescita e, dunque, di minori possibilità di occupazione. In Europa, inoltre, agirà fortemente nei prossimi anni l'effetto del baby-boom che gli Stati Uniti hanno invece sperimentato negli Anni Settanta, con un aggravio conseguente di un già pesante problema occupazionale nella fase di ristrutturazione industriale che stiamo vivendo.
Ciò porta la Wefa a prevedere per gli Stati Uniti la persistenza di un tasso di disoccupazione del 7,3 per cento fino al 1987, certamente inferiore all'8,8 per cento medio previsto per il 1982, ma comunque molto più elevata rispetto al 4,9 per cento del 1960-73. L'Europa, che dovrà, come si e detto, far fronte a una massiccia immissione di nuove leve lavorative e che non ha la capacita statunitense di assorbimento nel servizi, registrerà invece un tasso di disoccupazione sistematicamente superiore al 10 per cento, contro il 3,4 per cento medio degli anni compresi tra il 1960 e il 1973.
Le notizie migliori vengono, come si e accennato, dal fronte dell'inflazione, anche se non si prevede certamente di rientrare al livelli sperimentati negli anni che hanno preceduto la prima crisi petrolifera. Per la Wefa, il calo dell'inflazione e frutto di due distinti fattori: le politiche monetarie restrittive che, colpendo l'occupazione e la crescita, hanno anche indotto richieste salariali più miti negli ultimi contratti in quasi tutti i Paesi industrializzati, e il crollo dei prezzi delle materie prime alimentari e non-alimentari e del petrolio. La Wharton accredita agli Stati Uniti il successo rivendicato dal presidente americano sotto questo profilo, e prevede per quel Paese un tasso medio vicino al 6 per cento per il 1982 (la metà rispetto all'anno scorso) e del 6,5 per cento fino al 1987. In Europa, il calo e in media più limitato (dal 17,4 per cento del 1979-81 al 14,2 per cento di quest'anno, con un ulteriore arretramento al 12,5 per cento negli anni fino al 1987), ma con forti differenziali inflazionistici tra i diversi Paesi europei. Vale la pena di rilevare che, secondo la Wefa, se la Repubblica Federale Tedesca registrerà un tasso inflazionistico del 3,8 per cento nel 1987, l'Italia continuerà a ritrovarsi un tasso dell'11,3 per cento, mantenendo così per tutto il periodo un differenziale che pesa sull'intera economia.
Riguardo ai rapporti di cambio tra le monete, il Rapporto prevede una persistenza del dollaro su livelli elevati per tutto il 1982, con un lieve declino a partire dal 1983, a causa soprattutto di un deficit nella bilancia corrente, e una ripresa dopo il 1985, quando questo deficit tenderà a ridursi, fino a sparire. Il tasso di cambio del dollaro si troverà, però, sotto progressiva pressione a causa del differenziale d'inflazione tra gli Stati Uniti da un lato e la Germania Federale e il Giappone dall'altro. Questi stessi differenziali provocheranno un riallineamento all'interno del Sistema Monetario Europeo, atteso dalla Wefa già per i prossimi mesi; ma pressioni disgregatrici all'interno dello Sme ci saranno per l'intero periodo preso in esame.
A questo proposito, scarse speranze di un maggiore ordine monetario sembra si possano trarre dalle decisioni assunte dai capi di Stato e di governo dei sette Paesi industrializzati riunitisi a Versailles, i quali hanno deciso, su iniziativa americana, di istituire un Comitato di studio sul problemi monetari e di avviare un maggiore controllo sul cambi. Alla base delle pressioni in atto nel sistema monetario mondiale, e in quello europeo che ne e appendice, continueranno infatti a giocare un ruolo preponderante i differenziali di inflazione e la diversa competitività e produttività globale di ogni singolo sottosistema-Paese, che inducono a prevedere un disordine cronico dei rapporti valutari ancora per lunghi anni.

E l'Italia resta in fondo al baratro

L'ultimo aggiornamento del modello previsivo della Wharton Econometric Forecasting Associates sull'economia mondiale conferma e accentua l'entità degli squilibri del nostro Paese rispetto alla gran parte del mondo occidentale. In sintesi, per il triennio 1982-84 si prevede per l'economia italiana:
- un tasso medio di inflazione (prezzi al consumo) del 15 per cento annuo: 16,9 nel 1982; 14,8 nel 1983 e 13,5 nel 1984;
- un disavanzo della bilancia dei pagamenti correnti di sei miliardi di dollari nel 1982; di 4,3 miliardi di dollari nel 1983; e di tre miliardi e mezzo di dollari nell'ultimo anno considerato, il 1984.
- un deprezzamento della lira rispetto al dollaro del 20 per cento nel 1982 (dopo quello del trenta per cento nel 198 1), con un lieve recupero nel due anni successivi.
Si tratta di andamenti che pongono il nostro Paese in una posizione di primato negativo non solo nel confronti di Paesi come la Repubblica Federale Tedesca e la Francia, ma anche dell'altro "malato" europeo, il Regno Unito, decisamente meno disastrato in termini di inflazione (11 per cento come media del triennio 1982-84), di conti valutari (in equilibrio la bilancia dei pagamenti correnti), di cambi (lieve recupero verso il dollaro dopo il deprezzamento- sei per cento - del 1981).
Né tale scenario valutarlo squilibrato dell'Italia trova sollievo in componenti di sviluppo che sono, invece, assenti. Il modello Wharton prevede, dopo la flessione del prodotto interno lordo del 1981, una crescita limitata e irregolare per il triennio successivo (+0,3 per cento nel 1982; +3,5 per cento nel 1983; +2,5 per cento nel 1984) accompagnata dall'assestamento del tasso di disoccupazione sull'8,5 per cento. Riteniamo che questa prospettiva debba essere ben presente al governo e alle parti sociali in termini di inaccettabilità e quindi di esigenza di una ferma e coerente azione per contrastarla efficacemente.
Gli ultimi mesi sono stati dominati dal dibattito sulla scala mobile, con una esasperazione delle due posizioni in contrasto. Va però detto chiaramente che, se il meccanismo della scala mobile ha costituito il principale fattore squilibrante da correggere, non si può imputare ad esso la genesi del fenomeno inflazionistico, che risiede in altre aree. dal disavanzo pubblico (effetto della sciagurata "accoppiata" inefficienza-assistenzialismo) alla bassa e stagnante produttività globale del sistema produttivo, alla anormalità delle cosiddette relazioni industriali.
Il "patto" contro l'inflazione avrà un senso solo se vedrà il convergente e coordinato impegno della Stato, degli imprenditori e dei lavoratori per risolvere le cause del fenomeno, con precise assunzioni di responsabilità. Per questo occorre, a nostro avviso, una impostazione corretta del problema che può partire dall'oblettivo, indicato nel Piano Triennale, di abbattere il tasso tendenziale (senza interventi) di inflazione di due punti percentuali annui. Ciò significa portare il tasso medio di inflazione su un livello dell'11-12 per cento, che resterebbe al limite superiore (ma accettabile) dell'inflazione media dell'Europa Occidentale.
Per realizzare questo obiettivo e essenziale un risanamento del disavanzo pubblico, ottenibile agendo su entrambi i termini dell'accoppiata già citata, inefficienza e assistenzialismo; ed e fondamentale un accordo sull'andamento dei costi del lavoro per unità di prodotto, cioè della combinazione tra dinamica salariale e produttività.
Ipotizzando che l'inflazione importata (da maggiori prezzi di petrolio, altre materie prime, deprezzamenti della lira verso altre valute) possa essere dell'ordine di due o tre punti percentuali all'anno, ciò significa porre un limite alla crescita del costo del lavoro per unità di prodotto intorno al 10 per cento in media per anno.
A questo punto, come e evidente, esistono varie alternative, due estreme. Quella, inaccettabile, di scontare aumenti di produttività medi annui nell'industria del 2-3 per cento, come nel recente passato; ciò comporterebbe un aumento dei salari unitari del 13 per cento circa, un tasso inferiore all'inflazione tendenziale in corso, quindi con una riduzione - temporanea ma reale - del potere d'acquisto; oppure quella di realizzare una svolta nella produttività, portandosi attorno al 6-7 per cento l'anno, cosa non proprio impossibile, (basterebbe aumentare l'orario di lavoro effettivo), che renderebbe compatibile una dinamica salariale non molto lontana dal tasso di inflazione in corso (mantenendo quindi il potere reale d'acquisto).
Fra queste due alternative, esistono ovviamente tante possibilità, ma va detto chiaramente che la via d'uscita in positivo dalla stagnazione inflazionistica sta solo in soluzioni che si avvicinano alla seconda alternativa. E questa, in fondo, l'unica scelta se si allarga il discorso, come e necessario, in chiave internazionale. Deve essere ormai pacifico che il nostro Paese non può sfuggire alla "sfida" della concorrenza internazionale, planetaria, con tutte le sue minacce, ma anche con tutte le sue opportunità.
Da anni, tra difficoltà e con equilibrismi, la quota italiana sull'esportazione mondiale di manufatti e intorno al 6,5 per cento. Vi sono molti motivi per ritenere che, se non sapremo realizzare una strategia per l'esportazione, rilevante sarà il rischio di un'erosione di questa quota (accompagnato da una maggiore presenza di prodotti esteri sul mercato nazionale). Occorre dire chiaramente che qualsiasi strategia per l'esportazione non avrà reali probabilità di successo se non sarà basata su una svolta di efficienza del nostro sistema produttivo ed economico.
Il futuro ce lo giochiamo su questi dati di fatto.


Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000