Un'ipotesi futuribile




Aldo Bello



Bagnoli va in blocco in cassa integrazione. Sarà "ristrutturata". Anche una fetta dell'Italsider di Taranto sarà "cassintegrata". E' la crisi dell'acciaio che si tira dietro tagli netti nella produzione e nell'occupazione. Un poco alla volta, declinano queste Cocketowns del Sud sulle quali si erano fondate le speranze, o le illusioni, di decine di migliaia di tute blu meridionali.
Anche altrove, nel Mezzogiorno, il paesaggio è desolante. I ruderi del Quinto Centro Siderurgico, poi declassato a laminatoio, infine cancellato dalla mappa delle cattedrali dello Stato assistenziale, (o Stato-ospizio, come qualcuno lo ha definito); quelli del porto di Sibari che il mare (com'era stato ampiamente previsto) continua a insabbiare; quelli della Liquichimica di Saline joniche (centinaia di miliardi spesi, mai entrata in funzione) popolati di vipere, sono la sintesi di uno sperpero gigantesco e di un'incapacità politica preoccupante di prevedere e di determinare il decollo del Mezzogiorno.
Chi si chiede perché mai la "questione meridionale", dopo decenni di vivacità critica, dopo oltre un secolo di lotte parlamentari, dopo confronti e scontri anche di altissimo livello, abbia perso slancio; e come mai l'arretratezza meridionale non proponga più problemi di ripensamento dell'azione politica e di politica economica; e per quale motivo tanto spazio abbiano ora l'inerzia e l'abbandono dell'impegno intellettuale, culturale, politico, difficilmente potrà trovare un alibi nel "suo assorbimento nella politica di sviluppo nazionale". Perché questa politica, o non c'è, ed è il Mezzogiorno che paga lo scotto maggiore del vuoto; o c'è, ma è contraddittoria, ed è sempre il Mezzogiorno che ci rimette. Alcuni Sud - è vero - hanno abbandonato l'antica sfera del sottosviluppo. Ma altri, i più, restano ancora prigionieri del vecchio fuso orario e vittime dell'antico inganno. Una spirale di nebbia sembra avere offuscato la scommessa meridionalista. E i Sud in bilico e quelli nel baratro possono essere, forse, perduti per sempre. All'ombra di quell'emblematica ciminiera di Saline, la più moderna e la più alta del mondo.
Da sempre spenta.
Con lo sguardo rivolto al passato, non ci accorgiamo dei germogli di una fase storica nuova che sta iniziando. Il philum ininterrotto della nostra antropologia politica e culturale è dato dalla nostra capacità di ritardare la fine del passato. Non è un caso che un fenomeno del genere continui a verificarsi soprattutto in Italia: da noi, più che altrove, l'analisi dei fatti riesce ad essere accurata, fino a quando si fa la ricognizione dei problemi. Ma appena si passa alle soluzioni, e quindi alla ricognizione del futuro, l'analisi cede il passo alle vecchie, intramontabili utopie e ai progetti fossilizzati nei cassetti. E chi li rifiuta, è inesorabilmente bollato con anatemi ideologici.
Siamo tutti d'accordo sul fatto di vivere una crisi. Siamo anche d'accordo sui fatti in cui la crisi si esprime. finanza pubblica oberata dall'eccesso di assistenzialismo, disoccupazione crescente, inflazione, prezzi vertiginosi di beni essenziali come la casa, megalopoli invivibili. Sono i problemi sui quali inutilmente ci esercitiamo da tempo. Le soluzioni unilateralmente liberiste - quelle che cercano di riportare la macchina al funzionamento anteriore alla fase del Welfare - sono insufficienti. Ma questo non rende più praticabili le soluzioni dei progettualisti di sinistra: è davvero pensabile che, pure limando il Welfare di tutti i suoi sprechi, si riesca a garantire, nei servizi pubblici o altrove, l'occupazione dipendente che l'industria ha smesso di dare?
Mentre sapientemente discettiamo di tutto questo, contrapponendo modello a modello, nella società qualcosa succede, perché i problemi non restano sospesi: la crisi delle megalopoli ha creato flussi verso le città medie; l'inflazione ha moltiplicato il jenomeno del doppio lavoro; la ridotta domanda di lavoro dipendente ha portato alla crescita delle occupazioni indipendenti e alla formazione di cooperative che inventano e vendono servizi; e così via. Sono, tutte queste, soluzioni; ma curiosamente negate come tali dai fautori dei diversi e contrastanti modelli, uniti nel ritenerle precarie, abnormi, e comunque destinate a scomparire, quando la macchina a cui essi pensano sarà riuscita a mettersi (o a rimettersi) in moto. Ma sarà proprio così? Non è possibile, invece, che siano proprio questi germogli e questi indizi a indicarci un futuro che non sappiamo vedere?
In realtà, liberisti totali e progettualisti progressisti sono uniti in un comune errore di prospettiva: quello di ritenersi di fronte alla crisi dello Stato degli ultimi trent'anni, quando è invece molto probabile che ci si trovi alla fine di un ciclo molto più lungo: il ciclo avviato dalla rivoluzione industriale, che nel corso degli ultimi due secoli ha plasmato non solo la produzione, ma anche i soggetti sociali, le loro rappresentanze politiche, le istituzioni di governo, le forze critiche.
Il processo è noto: l'industria nacque convogliando nel suoi ateliers lavoratori prima o agricoli o indipendenti; e il suo sviluppo fu lo sviluppo e il consolidamento dei grandi aggregati del lavoro dipendente. L'intera società venne modificata: nacquero i sindacati e i partiti di massa, gli uni e gli altri fondati sul nuovo substrato del lavoro dipendente. E anche il Welfare State è stato un prodotto di questo ciclo: fondato sul sistema retributivo dei lavoratori' dipendenti, si è avvalso delle loro contribuzioni, di quelle dei datori di lavoro e di quelle pubbliche aggiuntive per costruire i servizi assistenziali, fino ad estenderli anche ai cittadini con occupazione autonoma.
Il sistema ha funzionato fino a quando sviluppo industriale è stato sinonimo di sviluppo del lavoro dipendente. Ma ad un certo punto il binomio è saltato, ed è qui che si è aperta la crisi: non dell'industria, che tuttora è nel suo insieme fiorente, e anzi aperta a sviluppi tecnologici che ci promettono beni e servizi di straordinaria utilità. La crisi è dell'occupazione dipendente, che aveva nell'industria la sua fonte principale e che ora è destinata a contrarsi. Di qui anche la crisi di finanziamento del Welfare State; quella dei sindacati e dei partiti di massa, sempre più sprovvisti del loro tradizionale substrato; quella di un governo dell'economia, dal quale si aspettano risultati che esso non è più in grado di garantire.
Ebbene: questa non è la fine del mondo, ma è la fine di un certo modo di organizzazione del mondo. I lavoratori che oggi sono costretti a uscire dagli ateliers, o che neppure riescono a entrarvi, non trovano un mondo uguale a quello che lasciarono i lavoratori che vi erano entrati due secoli fa. Proprio perché la prima grande fase dell'Industrializzazione c'è stata, la società é divenuta più ricca, più vitale, più capace di fornire produzioni, servizi, opportunità di lavoro, che allora erano soltanto impensabili.
E' in questo contesto che acquistano il valore di indizi e di germogli le occupazioni "precarie" cresciute in questi anni: precarie perché non adeguatamente sorrette e spesso occasionali; ma tuttavia espressive di potenzialità nuove di lavoro, che non sono più sul tradizionale mercato delle occupazioni dipendenti, ma su un mercato più affidato alle capacità professionali e imprenditoriali di chi vi porta la sua offerta. E non ha forse lo stesso segno la tendenza a spostarsi nelle città medie e nelle aree meno ricche di servizi", espressioni anche queste di un mercato che si sta articolando?
Siamo consapevoli che un'ipotesi come questa non vale ovunque, perchè ci sono sacche di arretratezza, (i Sud in bilico e quelli nel baratro), che ne sono ancora lontane, e sappiamo anche che ci sono cause esterne della crisi che richiedono autonome analisi e autonomi rimedi. L'ipotesi ha tuttavia una Portata e una caratura sufficienti a suggerire mutamenti profondi: nelle aspettative della gente, alla quale lo sviluppo deve dare forza propulsiva nuova e autosufficiente, anziché fornire un'occupazione dipendente e garantita; nel sindacati e nel partiti, messi alla frusta nell'aggregazione di referenti sociali sempre meno preconfezionati; nell'azione politica, che deve organizzare i supporti tecnologici dello sviluppo e servizi coerenti con il mutamento delle aspettative sociali.
Tre esempi bastano a illustrare il tema: il ruolo centrale della formazione e della qualificazione tecnica per preparare i giovani e convertire i meno giovani a un mercato del lavoro come quello descritto; l'essenzialità dell'offerta, da parte del settore pubblico, non di posti di lavoro inutili, ma di servizi e di infrastrutture che promuovano e sostengano le occupazioni utili; la necessità di ripensare l'organizzazione dei servizi assistenziali in un assetto che non manca affatto delle risorse necessarie, ma non le trae più, in prevalenza, dal serbatoio dell'occupazione dipendente.
Tutto questo è certamente futuribile, ma è suggerito dal fatti, non da risvolti ideologici. E questo futuribile riguarda molto da vicino i Sud venuti fuori dall'arretratezza e coinvolge il loro ruolo di aree-locomotiva per gli altri Sud, quelli con i ruderi di cattedrali e quelli col deserto senza neanche cattedrali, che dovrebbero rendere inquiete le coscienze.

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