§ Da "IL MONDO" del 27 maggio 1961

Il giro delle mura




Vittorio Bodini



La nonna fu una grande nemica del latifondo. E tuttavia essa non era una rivoluzionaria. Tutt'altro. Era napoletana e discendeva da una famiglia che aveva capeggiato la congiura dei Baroni contro re Federico d'Aragona. Aveva gli occhi grandi, un po' spiritati, e il corpo piccolo e leggero, cosicchè nonostante i pizzi e le trine di cui lo ricopriva, pareva sempre sul punto di sollevarsi dal suolo. E' forse perciò che disprezzava la terra e il suo possesso. "A che serve la terra? Alle cornacchie", ripeteva sia al primo che al secondo marito, entrambi ricchi agrari, alla cui morte essa aveva già provveduto a trasformarne in abiti e gioielli le proprietà.
Una volta, già vedova del secondo marito, tornava da un viaggio in una di quelle città fra cui sciamava il bel mondo d'allora. Portava sempre, ovunque andasse, tutti i gioielli con sé in una valigetta. E a cercar questa, a distinguerla a colpo fra quella ventina di valige che formavano il suo bagaglio, s'erano allenati a ogni suo ritorno gli occhi dei parenti. Ma questa volta non c'era. "Mammà, e la valigetta?" gridarono tutti a una voce. Non s'era neanche accorta che era sparita. E ora davanti a quei figli sbiancali in viso come se fossero rimasti orfani (e in un certo senso di quella valigetta erano un po' figli e eredi) e alle nuore mezze svenute o sul punto di farlo, lei commossa, credendo che fossero rammaricati per lei, andava da uno all'altro, e battendogli la mano sulla spalla diveva:
- Non vi preoccupate, eh? Non vi preoccupate. Ne compreremo degli altri. Al che le nuore svennero del tutto.
Ma poi non ci pensò più. Da quando le era morto il secondo marito, l'amore di mia nonna dalle tolette e i gioielli si era repentinamente volto a donare altari e statue di santi alle chiese e a mangiar babà: due manie che, non avendo in apparenza nulla in comune, erano complementari e trovavano nello stesso terriccio nutrimento e ragioni. Ma i parenti che avevano salutato con un certo sollievo questa conversione bifronte, si resero conto, a lungo andare, che parroci e pasticcieri non erano meno perniciosi per gli avanzi del loro patrimonio, di quanto lo erano stati i gioiellieri e le sarte francesi.
Fu questa metamorfosi a mandare in aria tutti i piani di suo figlio Antonino allorchè questi, terminati gli studi di legge, tornò a L.. Zio Antonino era il primogenito; veniva dopo di lui mio padre, intento a quell'epoca a incidere impeccabilmente il nostro cognome sui banchi dell'unico liceo classico della nostra città - ciò che più tardi, capitato a mia volta fra quei medesimi banchi, mi risparmiò il fastidio di doverlo fare io, e questo fu uno dei pochi aiuti che ebbi da mio padre, morto giovane. (Non avevo che l'imbarazzo della scelta: ve n'erano in carattere bastone e in corsivo, ma dove più rilevava la sua perizia era in certi caratteri a palline, che sembravano un ricamo con perline di vetro).
Zio Antonino era di fattezze minute, piccolo, con un baffetto rossiccio, e vestito, anzi travestito da avvocato all'uso del tempo: con una palandrana dai risvolti di pelliccia fulva, bombetta bera e bastone di malacca con il pomo di avorio. Con questa tenuta, giovane ed eloquente, non dubitava del proprio successo allorchè, con l'aiuto della madre, sarebbe stato ricevuto nei salotti di maggior tono della città. Ma ben presto dovè constatare che le uscite della madre, a cui s'era offerta di far da cavaliere, non avevano altra meta fuorchè chiese e pasticcerie. Ma era un giovane troppo ben educato per lasciar trapelare la sua delusione e farsi indietro di colpo.
Il primato del babà era tenuto a quel tempo a L. da un caffè stile veneziano, con le pareti laccate in avorio, il Caffè Margherita. Un giorno che si trovava lì con sua madre, a mezzogiorno in punto vide scorrere sulla parete un pannello e aprirsi un passaggio segreto (almeno per lui). Ne uscì una ragazzona, con un vassoio nero che posò sul banco, e spari per la medesima via. Mentre gli altri clienti si precipitavano sui babà teneri e sgocciolanti di rum, zio Antonino rimase assorto a fantasticare su quella visione. I giorni seguenti, a mezzogiorno in punto, come un orologio a cucù, scorreva il pannello e la ragazza faceva la sua apparizione col babà, senza mai mutare la meccanicità del rito, salvo che un po' alla volta, un attimo prima di sparire, cominciò a lanciargli occhiate dapprima attente, poi sempre più complici, fino a diventare un sorriso negli occhi. Quel sorriso zio Antonino lo interpretò liberamente come una promessa, un po' ironica, di ben altre dolcezze che non fossero quelle del babà. Essa mostrava in garanzia la sua persona alta e membruta, con un paio d'occhi celesti che formavano un grazioso contrasto coi capelli neri e crespi e con a carnagione un po' accesa dalla giovinezza o dal fuoco dei fornelli. (Non so come abbiano fatto a comunicare fra loro. Forse con qualche messaggio nascosto nei babà?). Un giorno zio Antonino andò da sua madre e le disse che voleva sposare Celeste; non gli fu facile spiegarle che Celeste era la sguattera del Margherita.
La madre non disse nulla: spiccò un salto che la portò davanti a un armadio alto e nero, l'aperse e comparve un giovane di una disgustosa bellezza, vestito da guerriero antico, con una mano sull'anca e l'altra sulla daga. Una leggera corazza argentea scopriva un dito o due d'una tunichetta rossa lasciando vedere due cosce d'una bianchezza femminea, nude fino agli schinieri. Sotto, un cartiglio diceva: S. Expeditus miles romanus. Era una statua di cartapesta, ignobilmente colorata, che nonna Irene aveva fatto fare per una cappella in costruzione. Davanti al miles romanus, inginocchiata e con la testa fra le mani, ora essa andava gemendo:
- Santo Spedito mio! Santo Spedito mio, consigliami tu!
Quando s'alzò, ritrovando il dialetto della città dov'era nata, disse al figlio: Stava scrittu accussì!
Può darsi che zio Antonino non s'aspettasse una resa così pronta, e può darsi anche che una maggiore resistenza avrebbe fatto più al caso suo, facendolo desistere dal suo proposito o rafforzandolo in esso. E' probabile - ma è soltanto una ipotesi - che non sarebbe avvenuto ciò che poi avvenne. Infatti zio Antonino sposò Celeste, ma lo stesso giorno delle nozze scrisse una lettera di dimissioni dal Circolo Cittadino, si chiuse in casa con la moglie e con una serva sordomuta che l'aveva visto nascere, e non mise mai più piede fuori dell'uscio. Soltanto la morte, quarant'anni dopo, interruppe quella favolosa segregazione.
Mentre la moglie ingrassava accanto ai fornelli, diventando uno smisurato serbatoio di disfatta dolcezza, seduto dietro la scrivania egli si andava restringendo come un vestito lavato, da cui uscivano due polsi fragili e perlacei. La palandrana, che un tempo aveva avuto tanta parte nei suoi progetti di pompe mondane, ora non era più che una frusta veste da camera, con i collo di pelliccia spelacchiato, che non si toglieva mai di dosso. Leggeva sempre, ma soltanto un libro: il Vocabolario della lingua italiana del Tommaseo. Nei pochi giorni di pioggia che abbiamo in inverno, o in quegli improvvisi temporali secchi, elettrici che rompono certi mattini d'estate, brontolando sulle mura o scoppiando come petardi sul campo dei santi di pietra che occupano i fastigi della città, zio Antonino correva a nascondersi sotto i materassi, mentre la moglie si affrettava a chiuder le imposte. Gli unici risicati contatti col mondo erano dunque affidati alla vecchia serva che usciva a far la spesa e che, come s'è detto, era sordomuta. Più tardi ebbero un figlio, Giacomino. La madre lo cullava amorosamente e gli diceva in dialetto: "Dormi fesso! Dormi, cornutello mio! Figlio di gran puttana!" (Questo figlio istintivamente imparò fin da bambino a non parlare in casa di ciò che vedeva fuori. Era d'altronde timido e un po' vecchio).
Così, in una città pettegola e fantastica come è L., zio Antonino riuscì a far perdere le proprie tracce, a sparire, pur seguitando a vivere a due passi dalla via principale. Quelli che lo avevano conosciuto si convinsero che era morto, mentre i parenti più stretti preferivano tacere per non dover dare imbarazzate spiegazioni. E la frontiera del silenzio era ormai così perfetta che quando uscì il romanzo "Perchè?" col suo nome e cognome stampato sulla copertina, non si potè pensare ad altro se non a un caso di omonimia. Rivedo quell'enorme punto interrogativo nero, grosso quanto un dito, tutto a angoli retti come una greca e lo stupore dei parenti di fronte a quell'inatteso messaggio del sepolto vivo. Quel segno, che occupava metà della copertina, pareva uscito dalla loro coscienza.
Il romanzo aveva per protagonista un giovane avvocato magro ed elegante; e sapete che cosa faceva il giovane avvocato? Passeggiava. Passeggiava, girava, percorreva instancabilmente la città in lungo e in largo. Attraversava il Corso, le Spezierie, la piazza principale, ma soprattutto i Villini. I Villini sono dei lunghi viali che costeggiano su due fianchi le mura della città; la ricca borghesia aveva costruito da poco, a ridosso delle mura, delle villette, ornandole di pini e palmizi, e di aiuole fiorite, e così, col richiamo del verde e dell'ampiezza dei marciapiedi e della strada rotabile, aveva detronizzato l'antico corso dove si svolgeva, nella parte vecchia della città, la passeggiata in carrozza dei nobili, lungo un percorso angusto e tortuoso, che non permetteva in più punti che due carrozze s'incrociassero. Questi si arresero perciò di buon grado all'iniziativa dei borghesi e non mancavano di partecipare con le loro persone e i loro equipaggi a quella specie di ampio salotto degli occhi che era la passeggiata ai Villini. E lì andava pure il protagonista di zio Antonino, strascinando il bastone di malacca sul selciato o sulla terra battuta, o tenendolo fra le mani riunite dietro la schiena, quasi a far di contrappeso alla persona lievemente incurvata in avanti. Le signore che abitavano nelle villette, o quelle che da esse andavano in visita per godersi l'ora del passeggio, vedendolo passare chiedevano chi fosse quel giovane solitario, ed egli indovinava sulle labbra delle altre la risposta: - E' il figlio della contessa S..
Ma un giorno egli incontra una sconosciuta, di una maliarda bellezza, che incede alta e flessuosa fra i viali. La segue; e così fa nei giorni successivi, negli interminabili giri che essa compie oziosamente per la città, che sembra nel frattempo ammutolita e deserta, come se i suoi abitanti si fossero tirati indietro a far da spettatori. Conscia della sua conquista, essa lo guarda trionfante e si volta indietro a ogni angolo che imbocca, per assicurarsi che egli la segua come una docile preda.
Un giorno essa fa la mano a cartoccio lungo il fianco, perchè egli possa farvi scivolare una lettera, e un altro giorno con un abile stratagemma lo fa venire in casa. E' la moglie d'un medico e madre di due bambine, ma ahimé dietro questo paravento di moralità si nasconde un cuore che è un profondo abisso di corruzione. Cerebrale, insondabile, con la sua astuta schermaglia amorosa, a cui egli risponde come può con tutte le risorse della sua dialettica, essa lo innamora, lo irretisce, finge d'esserne innamorata, e poi quando fra i baci appassionati pare che stia per cedergli gli sguscia dalle braccia, lo respinge, ed egli non abbraccia che il vuoto mentre essa geme:
- Non ora! Non ora! - e accompagna queste parole a volle con calde lagrime, altre volte con agghiaccianti risale che lo gettano nella più cupa infelicità, come il bimbo che, nell'età che la madre ha deciso di svezzarlo, strilla disperato ritrovando ogni volta sul capezzolo un gusto di chinino. Sicchè ben può capirsi quel nero "Perchè?" che trabocca dalla copertina.
E' probabile che zio Antonino, piccolo, meticoloso ed ignaro del mondo, nel creare una situazione diametralmente opposta alla sua, si sia servito sottobanco d'uno di quei luoghi comuni che attraversata la penisola giungono già consunti fino a noi, e qui non potendo andar oltre attecchiscono disperatamente, costituendo altrettanti corollari d'una stolida e trita scienza, tutta per sentito dire, che i giovani, privi d'altra esperienza, scambiano per verità. A uno di questi luoghi comuni, non disponendo di modelli veri, penso si sia, forse involontariamente, ispirato zio Antonino, e cioè a quello che soleva ripetersi sulla indecifrabilità e sulla perversa lussuria della (femminile) anima slava. E uno dei capitoli del romanzo si apre con un paragone che potrebbe essere rivelatore: "Sembrava donna russa imbacuccata in pelliccia ... ".
Ma se questa analogia segreta poteva servire al suo scopo di risvegliare un cuore intorpidito mediante immaginarie torture amorose, non serviva la verità, poichè non s'è mai visto dalle parti nostre delle donne con codeste anime slave. No, per me la cosa più patetica del romanzo restano quei passi, il rumore dei passi e del bastone; quei camminare, quei passeggiare, quei percorrere la città in lungo e in largo, che l'autore faceva fare al suo deambulante collega, prestandogli il suo bastone e forse anche la palandrana, che era poi quella che lisa indossava a tavolino mentre scriveva, e che comunque, ma lui non lo sapeva, i giovani avvocati non indossavano più.
Ma dove con più evidenza si mostra la follia di zio Antonino (e il sogno puro della sua deformata esperienza) è nell'aspetto formale del libro, in quello che dovremo chiamare il suo stile. Infatti quei suo ritiro con la serva sordomuta e la moglie che non parlava se non in dialetto, e se non per dire parolacce, nonchè la costante lettura del Tommaseo, gli fecero smarrire il senso della lingua come vivo strumento di scambio; il linguaggio, per la mancata frequenza con gli uomini, divenne per lui un oggetto astratto, suscettibile delle più arbitrarie riforme. Ricordando le spiegazioni di qualche professore al liceo, che la incisiva, nobiltà del discorso latino è dovuta alla povertà di parti deboli del periodo, per dar dignità alla sua prosa zio Antonino decise di bandirne risolutamente più parti deboli che poteva e principalmente gli articoli. Così, mentre per un verso la sua prosa fluiva in ampollose dissipazioni, per altro verso mostrava il rotto della cuffia di quel risparmio telegrafico che suscitava l'ilarità dei suoi concittadini e lettori.
Non intendo riportare qui dei brani di romanzo, per non sfruttare effetti di facile quanto inutile riso. Ma poichè qualche esempio è pur necessario se si vuoi far rilevare la misura del suo errore, mi limiterò a darne uno solo e brevissimo. Verso la fine del romanzo, dopo un ennesimo rifiuto da parte della corrotta eroina, a un certo punto si legge: "Egli prese cappello", e allora il lettore dice: "Beh, perdio, era tempo!". Invece no. E' solo una vendetta d'un piccolo malizioso articolo. Ciò che l'autore vuoi dire è che il suo personaggio stava prendendo il cappello per uscire.
Non posso parlare di zio Antonino senza parlare anche di zio Nanuccio, e ciò per due motivi: prima di tutto per un senso di equità verso il ramo materno della mia famiglia, a cui zio Nanuccio apparteneva (sul quale anzi se ne stava appollaiato con le lunghe gambe penzoloni), e poi perchè, sebbene non avessero nulla in comune - non si conoscevano nemmeno e certamente erano i due tipi d'uomo più opposti -, entrambi, ciascuno a suo modo, riuscirono a coltivare nell'orto della loro follia dei fiori di una purissima assurdità. La cui stravaganza non ha precedenti.
Zio Nanuccio era alto e rumoroso. Caricava, mi pare volutamente, certi aspetti di un'origine non propriamente plebea ma di una condizione in cui l'esperienza della miseria era temperata da una certa orgogliosa istrioneria. Portava il bastone; ma non era il bastone dei signori, era il bastone dei vecchi contadini, un bastone di ciliegio appena appena lucidato, nodoso come lui, e col manico ricurvo. Quel bastone egli l'impugnava energicamente, lo scuoteva per dar forza al discorso, lo puntava in alto per seguir meglio dagli spostamenti delle nuvole la direzione del vento, o un nido di colombi sotto un cornicione, o una crepa minacciante il fianco d'un campanile. Se tuonava, puntava il bastone in direzione del temporale, ed esclamava:
- Taci, vecchio brontolone!
Sebbene amasse il chiasso e la compagnia, ogni pomeriggio faceva sempre da solo il giro delle mura; usciva da Porta San Biagio, percorreva i Villini, quindi proseguiva per la parte a quel tempo deserta dell'antico perimetro, fermandosi di botto ogni tanto per intonare la cavatina di un'opera o pizzicar tabacco e starnutire poi fragorosamente come un trombettiere che suonasse la carica, in un fazzoletto rosso di quelli dell'altra guerra, con lo stivale e gli stemmi di Trento e Trieste.
Se vedeva delle tortore in una gabbia, diceva minacciandole col bastone: - Tortorelle puttanelle, non pensate che a far l'amore!
E così pure non c'era un gatto a cui non parlasse, un giorno rimproverandone e un giorno lodandone la furbizia e i furti.
Il paese da cui proveniva mio zio, distante una quarantina di chilometri dal capoluogo, non dà che argilla e cornacchie. Il giorno che vi andai per un privato pellegrinaggio, per una strada coperta da un alto strato di polvere soffice e bianca, lo vidi all'improvviso in un varco di ulivi incanutiti: sotto un cielo d'un sensibile azzurro si stendeva come una bianca dentiera sulla pianura. Sul mio capo strepitavano le cornacchie. A un altro varco lo rividi da più vicino, e le case mi apparvero questa volta a una a una, e col più vivo stupore notai che da ciascuna di esse si alzavano delle graziose merlature, correndo torno torno alle piccole terrazze. Fu solo alle prime case del paese che mi si rivelò la vera natura di quei merli: erano tutti vasi da notte, di creta, messi lassù ad asciugare. Disposti ordinatamente in fila, a ugual distanza l'uno dall'altro.
Nel paese c'erano tre o quattro fornaci davanti alle quali si alzavano montagnole di cocci o di argilla. Chiesi se non avessero per caso qualche altro tipo di produzione oltre quella che faceva dappertutto non bella mostra di sè. Mi risposero di no.
- Ma come? E quelle cose curiose che si facevano qui un tempo, e per le quali era conosciuto il paese?
Mi riferivo a certe terraglie rustiche sotto le cui forme grottesche o le rozze scolature di vernici si celavano antiche palpitazioni di linee greche.
- Oh, quelle! Erano i nostri padri che si divertivano a farle dicevano con un'aria di compatimento.
Deluso, tornai dove avevo lasciato la macchina e stavo per partire quando arrivò un ragazzotto correndo.
- Volete vedere cose curiose? - disse affacciandosi al finestrino. - No. Ne ho abbastanza.
- Se volete vederne, quello lì ce n'ha una.
L'uomo che m'indicò era un giovane che era rimasto alcuni passi più indietro, con un'espressione di vergogna sul volto che mi fece cambiare idea.
- Andiamo - dissi. Scesi e mi guidarono a un altro forno, che non avevo mai visto, e la cui produzione non differiva da quella degli altri; ma per una scaletta salimmo in casa dell'artigiano. Giunti davanti a una porta s'arrestarono per farmi entrare. Di là da essa c'era una piccola sala da pranzo tenuta in penombra con le imposte accostate. La stanza era pulita e ordinata: vi si vedeva una credenza, un tavolo, e c'era un uomo grasso, vestito di nero, con le spalle appoggiate contro la parete di fronte.
Permesso? - chiesi.
L'uomo non rispose. Il giovane mi' passò avanti e disse: - Venga, venga, mio suocero -, mentre apriva le imposte della finestra. Il suocero di terracotta era a grandezza naturale, a tutto rilievo, fuorchè per le spalle che lo tenevano incollato al muro. Il viso era congestionato, o dalla cottura o dalla biliosità del carattere, gli occhi sporgenti, di una fissità collerica e diffidente. Aveva le mani in tasca, e i grossi pollici che ne sporgevano puntavano con forza sui fianchi. Dalla giacca aperta, sotto la cravatta rossa, si vedeva il panciotto nero attraversato da una grossa catena dorata e quindi una pancia vasta e cadente, con un peso lubrico sulle gambe, anzi su due tubi neri dei calzoni.
Quella vista era di un'insopportabile indecenza, e invece di faticare a trattenere il riso ne provavo tristezza e disgusto. L'artista deluso dal mio silenzio corse nella stanza accanto, doveva essere in camera da letto, e ne tornò con una fotografia spiegazzata: mio suocero morto da tre mesi. E' tale e quale, guardi.
Sì, era vero; mi complimentai per la somiglianza; poi corsi fuori cacciato via dalla stanza da quella pancia che oscenamente mi spingeva. Uscii con un sospiro di sollievo fra i vasi da notte e le cornacchie che gracchiavano invisibili come se il cielo cigolasse.
Uno dei più grossi tormenti per zio Nanuccio era doversi cambiare la maglia d'inverno. In quei giorni tutte le donne di casa erano mobilitate. Dovevano cominciare col preparargli il latte di mandorla. Appena le vedeva entrare cominciava a dar gridi altissimi: - Mamma mia, il freddo! La figlia maggiore, più energica, lo teneva fermo per le braccia, mentre la moglie passava lo scaldino sulla maglia; ma spettava alla figlia più piccola, a Nanuccia, come a una vergine sacra, di scuoiarlo della vecchia maglia e infilargli la pelle nuova. Durante questa cerimonia, ormai consacrata, egli mugolava e implorava pietà, finchè poi, compiuto il sacrificio, rabbrividendo gridava:
- Nanuccia, portami il latte di mandorla!
Nanuccia era la sua prediletta. A volte, mentre stava coi parenti, o anche con estranei, bastava che la vedesse, o anche bastava soltanto che la pensasse, perchè all'improvviso lanciasse un altissimo "Oh!" di meraviglia e poi gridasse: "Com'è bella Nanuccia!". Accompagnandosi con la chitarra, con voce stentorea cantava barcarole e romanze nelle cui parole sostitutiva o imponeva il nome di Nanuccia, così da farla diventare di volta in volta "spirito gentil", "sovrana del suo cuor" nonchè "suprema beltà".
Allora sullo sfondo scorrendo senza muovere i piedi, come su un filo, piccola e raggrinzita passava zia Mimmi, sua moglie, e mormorava a fior di labbra: "Pane e cipolle. Pane e cipolle. Pane e cipolle". In questo tenebroso monito si esprimeva il credo cattolico e contadino di zia Mimmi in un dio bilioso, stizzito della gioia degli uomini come di un'insolenza, che contava a una a una ogni risata, ogni attimo di allegria di un uomo per fargliela scontare a tempo debito in questa o nell'altra vita; e poichè questi ruzzi dettati dall'amor paterno neanche a lei sembravano cosa da meritare le pene dell'inferno, si limitava a presagire (e in un certo senso a augurare) al marito che si sarebbe ridotto a non aver altro da mangiare che pane e cipolle. Castigo ben più lieve, evidentemente, che non le tenebre o le fiamme eterne.
Ma zio Nanuccio non la vedeva nemmeno. Può darsi che lo crucciasse ben altro. Ma questo non s'è mai potuto capire. La verità è che Nanuccia era la più brutta ragazza che ci sia mai stata al mondo. Forse, se fosse stata deforme, avrebbe avuto qualche attenuante nella compassione. Ma non aveva alcuna deformità, era la bruttezza pura, e guardandola, e osservando in lei una giovinezza così sprecata, gli occhi si ritraevano come in un gemito. Sembrava un peperone giallo arrostito, interamente coperto di croste nere.
Un giorno capitò fra le mani di zio Nanuccio una cartolina a colori raffigurante il Castello di Miramare. Anzi, più che il castello, di cui si vedeva solo sulla destra ergersi una bianca torre, ne rappresentava il parco: nitido, lustro, con un lungo viale fiancheggiato da ordinatissime siepi di bosso, in mezzo a una vegetazione folla e d'un rigoglioso e svariato verde. E allora zio Nanuccio pensò che avrebbe voluto avere quel castello per farne dono a Nanuccia: che soltanto quel luogo era degno di lei.
E così prese una tela, e poichè s'intendeva un poco di disegno e colori, vi dipinse rozzamente, copiandoli, il parco e la torre, e poi quand'ebbe finito, dipinse due figurine in abiti chiari e leggeri, di spalle (per evitare la difficoltà dei visi), che impalate, con la pamela in testa, a metà del viale, andavano verso il mere che gli fa da stondo.
La figurina più piccola, con due treccioline nere che di sotto il cappello le sfuggivano sulle spalle, altri non era che Nanuccia. Le stava accanto, con una grossa treccia di oro sulla nuca, una governante inglese.
Ma quando venne l'autunno, e con l'autunno il tempo grigio, il rumore dei temporali, le foglie secche del nespolo che il vento accumulava da vanti alla sua porta, zio Nanuccio cominciò a pensare con angoscia a quelle due delicate creature che egli aveva lasciato nel quadro in abiti troppo leggeri per poter affrontare il sopraggiunto mutamento del clima, e così, ripresa la tela, le copri di soprabiti di lana turchina e sostituì le pamele con morbidi feltri grigi. Ma fatto ciò, si accorse che non poteva lasciare le due figure, così vestite, in un paesaggio estivo, e così ricoprì l'anilina del cielo di nuvole grigie, spogliò i castagni e arrugginì le chiome delle querce.
Poi vennero le nevi dell'inverno che coprirono tutto di bianco. Nanuccia e la sua governante immaginaria avevano bisogno d'abiti pesanti, e poichè zio Nanuccio aveva deciso di trattare la governante alla stregua della figlia, senza farle pesare la disparità dello stato, provvide entrambe di comode e calde pellicce e di berretti pesanti.
Poi venne la primavera, le gemme, i fiori. Le stagioni' si' susseguirono nei loro esatti turni e zio Nanuccio continuò a registrarle aggiornando ogni volta la scena del suo sogno, e aggiungendo strati su strati, per cui alla fine il quadro era tutto una strana protuberanza, e se fosse stato possibile sfogliarlo come un calendario avrebbe offerto almeno cento quadri diversi dello stesso paesaggio, su cui le due figurine avanzavano impalate e assorte, e Nanuccia restava sempre una ragazzina con le treccioline nere, mentre ormai a quarant'anni - quanti ne aveva quando suo padre morì, non lasciandole altro che quella tela - era un po' migliorata, nel senso che non essendo più giovane, la sua bruttezza era almeno divenuta una cosa più normale. Inoltre era diventata attivista dell'Azione Cattolica.

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