CAPITOLO I
Nella città della nostra giovinezza una rete di muti appuntamenti
convocava alle finestre e ai balconi donne che la distanza faceva apparire
di sogno, con una sincronia che sembrava procedere da una centrale segreta;
o piuttosto quell'acuto potere era negli occhi stessi delle donne. Come
piante che selezionino e rafforzino soprattutto quegli organi atti alla
loro perpetuazione, acquistando, se la natura lo esige, stupende tinte
e colori, le donne di L., recluse in casa, sfornite d'altro campo o mezzo
di richiamo, a poco a poco, trascurando ogni altra parte di sè,
crescevano tutte negli occhi, fiori ilari o tristi, timidi o sfrontati,
ma sempre tali da non esser possibile sottrarsi alla loro chiamata; talchè
si sarebbe anche potuto supporre che in questo sforzo esse divorassero
ogni altra parte del proprio corpo e che nulla o quasi nulla vi fosse
dietro quei volti che rompevano il buio degli interni per affacciarsi
e inquietare le bianche vie. Ma non era vero.
In questo palpitante scenario faceva ogni giorno la sua apparizione il
contino Danilo, col suo passo un po' dondolante, nonostante avesse solo
vent'anni, nel quale pareva riflettersi l'altalenare dei suoi sentimenti
fra gioie e contrattempi che, in mancanza di vere infelicità, egli
promoveva a tali. Coi cache-col di seta bianca, che gli nascondeva infatti
un pomo di Adamo un po' pronunziato per la sua età e la sua magrezza,
il capo terminante (quando non portava un cappello dalle falde rialzate)
in una lunga coda frangiata di capelli neri che carezzavano il bianco
dorato dell'aria e delle case, dove spesso l'intonaco si stacca dai muri,
lasciando scoperto l'oro del tufo, pronto a sfaldarsi, a fingere architetture
più bizzarre di quelle dell'uomo, mentre procedeva fra quei muri
di cui conosceva ogni crepa, ogni erosione, solo per metà occupato
a guardare e a guardarsi nella sua città, cioè a esser guardato,
l'altra metà era intenta a tracciar bilanci sul suo stato presente
e previsioni, o piuttosto sogni e almanaccamenti, su quello futuro. Gli
uni e le altre, però, perigliosamente posati su due pilastri labili
e di assai poco affidamento, quali sono il gioco e l'amore. Non si vuole
escludere che in una zona meno scoperta della sua coscienza potessero
coesistere altre aspirazioni, ma erano tuttavia così confuse, e
affioranti con così lunghe intermittenze, che non mette conto parlarne.
li capitolo dell'amore, in una città in cui le donne non uscivano
mai sole e le occasioni di incontri risultavano pertanto improbabili,
era quanto mai meschino e disadorno, e in una parola, tolto il breve periodo
di villeggiatura, del tutto negativo; ma i giovinotti, tale è la
forza dell'età, riuscivano ugualmente a spremere da quello stato
di negazione totale un che di positivo, quasi un cavar sangue dalle pietre;
e da finestre e balconi, negli aerei messaggi degli occhi, trovavano dei
ganci a cui sospendere i loro sogni. Piantonavano gli angoli delle vie
o cercavano di mimetizzare i loro andirivieni sotto la finestra dell'amata,
spiandola con la coda dell'occhio; osservavano minuziosamente il contenuto
delle vetrine delle vie o si rifugiavano nei portoni di fronte, o sedevano
a un caffè, se avevano la fortuna di averne uno a portata d'occhio.
Alcuni infelici più vivacemente pungolati dall'amore al punto da
non curarsi più delle apparenze o del ridicolo, si arrestavano
di fronte alla finestra del loro bene e inventavano un fitto colloqui
di gesti, della cui destinataria non di rado ignoravano la figura e la
voce, che avrebbero dunque potuto, per assurdo, non esistere. Rilanciavano
in aria e poi riprendevano pallottoline incolori. Il contino Danilo disapprovava
quelle gesticolazioni; preferiva affidarsi al fuoco dei suoi sguardi seri
e appassionati e sentirli corrisposti. Ma sotto sotto egli si faceva beffe
del proprio cuore e dei suoi facili appagamenti.
Veniva tutti gli anni d'inverno a L. una compagnia di operette, quella
di Cettina Neri, attesa in segreto dal pubblico dei suoi devoti come un
raggio di sole che riesca infine a squarciare tetre nubi di noia e di
malinconia, della cui oppressiva tristezza ci si rende conto nell'istante
in cui ci appare quell'ormai insperato sollievo. Per non perdere una sola
nota, una sola battuta, il contino Danilo andava nel palco di proscenio,
riservato ai soci del Circolo. Sebbene all'apparire del corpo di ballo,
ad apertura dello spettacolo, egli non si sottraesse al costume del resto
del pubblico, di soppesare ben bene i corpi alti, rossi ed agili delle
ballerine, e di trascegliere quell'una o due con cui, o per la sodezza
delle forme o per l'espressione del viso o per la lunghezza delle cosce
e un loro modo saporoso di ancheggiare (tutti criteri di scelta evidentemente
dissonanti), avrebbe voluto avere una conoscenza più intima (e
magari non era detto che la cosa non fosse possibile ... ), era tuttavia
l'insieme dello spettacolo, e del mondo trasparente che vi stava dietro,
ciò che lo affascinava. Oh, celeste capriccio! Divina, stupenda
stupidità! Una dimensione frivola e gaia del vivere, che avrebbe
dovuto esser quella della sua giovinezza, sconsacrava gli altari di un
amore degradato a mutria e a sofferanza con la gioconda libertà
e volubilità dei suoi flirts, con le sue battute scanzonate dove
l'ironia l'aveva vinta sulla virtù, la disinvoltura sul peccato;
lo divertiva persino il modo un po' assurdo con cui inaspettatamente da
un recitativo realistico prendeva il volo una di quelle arie tenere, come
dolci ferite brillanti che presto, o nella loro stessa musica o nel seguito
della vicenda, avrebbero trovato una gloriosa rimarginatura. Lodava infine
l'esotismo dei luoghi in cui era collocata l'azione, che erano grandi
capitali celebrate per la loro gioia di vivere, come Parigi, Vienna, Budapest
o capitali di minuscoli regni immaginari capaci di gareggiare con le prime
in spregiudicatezza e in fantasia. In queste effimere patrie colorate
Danilo cercava, per tutta la durata dello spettacolo e anche oltre, di
contraddire il sordo e opaco spessore che aveva la realtà soprattutto
in quegli anni, per l'ideale pedantemente imposto dall'alto di imitare
le virtù (e non i vizi) dei romani antichi, e persino le arti e
i convenevoli uggiosamente prescritti, pena l'infrollimento e la decadenza
dell'animo dei giovani, come stava appunto accadendo in quelle nazioni
più libere, che a occhi chiusi andavano incontro alla propria rovina,
e a diventar preda di quegli stati dalla moralità più severa,
i nuovi romani antichi, per l'appunto, i quali - si leggeva chiaramente
tra le righe dei giornali e nei discorsi ufficiali -, forti della propria
austerità, non avrebbero sopportato a lungo quello scandalo e le
avrebbero punite manu militari di quell'imperdonabile leggerezza.
Il successo che la compagnia riscoteva nella nostra provincia lo pagava,
sia pure in minima parte, col rischio di subitanei vuoti, che si formavano
nel corpo di ballo, allorchè ricchi signori locali s'invaghivano
d'una ballerina -possibilmente austriaca o tedesca - e se la sposavano
in quattro e quattr'otto, costringendo l'amministrazione della compagnia
a fare arrivare a precipizio delle ballerine di riserva, che già,
poichè da molti anni venivano da noi, dovevano aver predisposto
prima di partire per la tournèe. Danilo non li invidiava; se anche
avesse potuto, egli non l'avrebbe fatto, perchè il problema era
andare in cerca di quei mondo per viverlo integralmente, e non già
di acquistarne un pezzetto, una minuscola scheggia, senza muoversi di
casa, per portarselo a letto ogni notte. Poteva forse capire meglio De
Nitti. De Nitti, che era stato nella nostra città il primo bevitore
di whisky e il primo a possedere una lunga motocicletta da corsa, aveva
perso la testa per una soubrette venuta qualche anno avanti con Cettina
Neri, e era andato appresso alla compagnia per tutta la tournee; aveva
poi venduto tutta la proprietà per metter su una compagnia della
quale sarebbe stata titolare la sua amica. Ma di questo non si avevano
notizie certe, e ne lui ne la soubrette erano più ricomparsi a
L.. Alto, magrissimo, con due strani occhi grigi, De Nitti aveva certo
in corpo assai più spirito d'avventura di quei pigri e formalistici
accaparratori di bellezze viennesi. Il contino Danilo se lo ricordava
una sera che era apparso con due amici a una festa in grande etichetta,
in un albergo, e avvicinatosi al bar aveva bevuto un whisky. Immediatamente
le madri s'erano precipitate a strappar via le figlie dai balli, e in
pochi minuti la sala s'era vuotata, come se avessero visto, un appestato.
Ma non era un errore, in definitiva, aver confuso il mondo dell'operetta
con quella d'una compagnia d'operette?
Benchè vista dal palco di proscenio, senza l'alone del palcoscenico
e della distanza, Cettina Neri mostrasse il doppio degli anni di Danilo,
non ne soffriva l'ammirazione del contino, che amava in lei il simbolo
e la regina di quei lieve microcosmo incantato. Una notte che lo spettacolo
veniva presentato come serata in suo onore, e che essa stava per terminare
una delle arie più indimenticabili del Paese dei Campanelli, a
cui sarebbero seguiti i rituali scrosci d'applausi degli spettatori, la
porta del suo palco si aprì di scatto e una mano gli porse un fascio
di rose, facendogli cenno di lanciarlo. Ciò che egli fece. Mentre
il pubblico raddoppiava gli applausi, che stavolta pareva non dovessero
aver fine, Cettina Neri con le dita alle labbra gli mandò un bacio.
Per parecchi giorni, e anche dopo che la compagnia aveva lasciato la città,
dove non sarebbe ritornata che tra un anno, Danilo si chiedeva se quei
bacio fosse stato l'anello culminante di un previsto rituale e se fosse
toccato a lui per delle ragioni puramente meccaniche, in quanto si trovava
nel palco di proscenio ed era il più giovane, e perciò il
più indicato a esprimere disinteressatamente l'omaggio del pubblico,
o se non vi fosse nel bacio di Cettina (e nella mano senza corpo che gli
aveva porto il mazzo di fiori) un messaggio per lui personalmente, come
una promozione sul campo, o un patto offerto da quei mondo amabile e spumeggiante
alla sua giovinezza. Vi andava ancora pensando una sera, passeggiando
lungo le mura, e cercando imparzialmente un qualche nuovo elemento che
potesse far prevalere in maniera definitiva o l'una o l'altra delle due
tesi, quando fu superato da tre donne vestite a lutto, evidentemente una
madre e due figlie, la minore delle quali, giovanissima, dall'alta statura
insolita fra le donne di L., e un'aria fanciullesca negli occhi celesti,
gli lanciò una lunga occhiata. Successivamente, andate più
avanti, nei punti in cui la via si restringeva per far posto ai bassi
alberelli di oleandri, essa fingeva di cedere il passo alle altre due
e, restata indietro, si voltava a guardarlo. Il contino Danilo decise
di seguirla. Le tre donne entrarono nel portone di una casa dagli alti
balconi, in una via del centro. Dovrà pur affacciarsi, pensava
il contino, mentre, fermatosi sull'angolo, guardava gli angelotti barocchi
di una chiesa cercare di spiccar goffi voli nel cielo che appariva dietro
i balconi. Non notò quindi una bambina che gli si avvicinava e
che, messagli frettolosamente in mano una lettera, che egli prese, fuggì.
Apparve in quella, su uno di quei balconi, svettando fra gli angeli dei
fastigi, l'alta figura in nero, che salutatolo col capo sparì.
La lettera diceva: "Signore. So che è molto tempo che mi segue.
lo son pronta a corrispondere il suo amore. Ma non mi faccia soffrire,
perchè sono orfana di padre. Se vuole, può darmi una risposta
domani sera dopo la predica nella chiesa di San Luigi. Sua Pina".
Il contino lodò l'astuzia con cui la ingenua orfanella fingeva
che egli l'avesse seguita da tanto tempo quando era la prima volta che
la vedeva (doveva esser spuntata dopo l'invernata come un'altissima spiga),
ma non il verbo "soffrire". "Bah! Soffrire, poi!"
Non gli sembrava davvero di buon auspicio, e benchè l'avventurosa
recluta ne contemplasse il rischio solo per sè, egli considerava
la sofferenza un morbo contagioso che avrebbe potuto infettare anche lui.
Alla larga! E anche il modo in cui avrebbe dovuto rispondere (e probabilmente
seguitare a vederla) lo aduggiava. Si trattava di ascoltare lo sproloquio
interminabile di un predicatore, e poi, nella confusione dell'uscita,
fingere di trovarsi come per caso accanto alla ragazza (o la ragazza accanto
al giovane) e lì, lasciar cadere il biglietto nella mano ripiegata
a mestolo, pronta a uncinarlo.
Il contino Danilo non amava davvero quei mondo di finestre e biglietti,
di corteggiamenti a distanza (magari in chiesa), di sospiri, che dell'amore
gli pareva non fosse che una pallida ombra; se vi si era adattato, era
stato per non lasciare il poco per il nulla. Ma la sua fantasia e la sua
morale leggera, da operetta, vi avevano introdotto una variante numerica:
invece di innamorarsi di una sola alla volta, ne amava tre o quattro contemporaneamente.
Ma gli davano tutte lo stesso tuffo al cuore se le vedeva affacciate alle
loro finestre o se per caso le incontrava in pubblico, ahimè accompagnate.
Pensando a loro, separatamente, giacchè mai l'una sconfinava nel
pensiero di un'altra, la tenerezza gli avvampava la nuca sottile. Sognava
di incontrarla e di poterla avvicinare ma sempre in modi favolosi: trasformarsi
in rampicante, edera o gelsomino o bugainvillea e montare fino alle loro
finestre, entrar nella stanza e accarezzarle coi suoi mille rametti o,
una volta lì, tornare a esser quello che era e abbracciarle, restandovi
tutta la notte; o mutarsi in uno di quei folletti domestici che di notte
intricano le code delle cavalle e le chiome femminili, e, nascosto dietro
una porta, udire le loro voci, i loro discorsi; e aver la fortuna di sentir
pronunziare il proprio nome, magari nel sonno. Immaginava pubbliche calamità
o pericoli dai quali egli soltanto avrebbe potuto salvarle, e le salvava
infatti; o deserti o paurose foreste, su cui gravava l'incubo di un evento
o un mostro sconosciuto, che egli affrontava per loro.
Benchè tali manifestazioni abbiano mollo in comune con l'amore,
quando passava, nei suoi giri mattutini, davanti alle finestre delle donne
che occupavano in quei momento il suo cuore, egli era più simile
a un proprietario terriero che diariamente, in calesse, visitasse alcune
sue terre, lontane fra loro, per sorvegliarle e al tempo stesso gioire
di quel vincolo d'appartenenza; o a un sovrano, o a un generale che passasse
in rassegna giornaliera un esercito, in verità piccolissimo, per
assicurarsi della sua fedeltà. Gli sarebbe piaciuto avere un cavallo,
un bel cavallo bruno, con cui caracollare nelle vie in cui era dislocato
il suo tenero manipolo. Ma questo sogno equestre, che avrebbe rappresentato
una sfida per quella città folle e pettegola, nonchè pei
suoi lastrici avvallati e sconnessi, rivelava nei sentimenti amorosi di
Danilo una dose, se non preponderante, certamente eccessiva di vanità.
Questo manipoletto, che in altre epoche aveva oscillato fra i quattro
o i cinque membri, all'epoca dei fatti che si narrano si restringeva a
tre ragazze, ma queste tre erano talmente dissimili che non è possibile
dire se tale diversità fosse dovuta al caso o a un disegno segreto
del cuore di Danilo.
La sua prima visita era per Adele Z., che egli chiamava impropriamente
dentro di sè la sua stella del mattino, benchè fossero le
undici in punto l'ora in cui passava, sicuro di vederla davanti alla sua
casa. Inoltre non proveniva, dall'astro lontano, e appannato dai vetri
della finestra e il buio dell'interno, nessun particolare splendore, ma
piuttosto dai suoi occhi d'un marrone dorato ombre e malinconie, che Danilo
non sapeva se attribuire all'indole di lei o al fatto che essa soffrisse
per la distanza che li separava. Preferiva naturalmente quest'ultima spiegazione
che faceva di lui la causa di quella delicata e un po' torbida tristezza,
non priva in tal caso di gioiose promesse. Essa rispondeva con un lento
cenno del capo al suo saluto, e intanto i suoi occhi le si facevano più
grandi come per stringerlo, per attirarlo fino a lei. Pareva tuttavia
a Danilo di sentir battere in quegli sguardi un'ala d'infinito, cosicchè,
commosso, dopo un poco, temendo che l'intensità di quei non ben
chiari discorsi oculari, non potendo andar oltre, si sciupasse nella stanchezza
delle repliche, se ne andava. Ne custodiva a lungo il turbamento, e mentre
si dirigeva verso la casa di Fernanda gli occhi di Adele gli danzavano
dentro dappertutto. I capelli rossi e le lentiggini di Fernanda incendiavano
la piccola via sbilenca dov'era la sua casa settecentesca, via che di
lì a poco un pilastrino ostruiva ai veicoli. Vi pioveva, e angosciava
Danilo, un coro a gola spiegata da un ospizio di orfane invisibili che
lavoravano o imparavano a lavorare da sarte, e se anche la canzone in
sè non era mesta, la rendeva tale la sincronia di quel coro di
recluse, avvezza a cantare insieme e a considerare quello l'unico sfogo
alla loro vita. Fernanda lo salutava per prima, con un rapido cenno del
capo, con la festosità di una cagnetta di razza che scorge da lontano
il suo padrone, e pareva a Danilo di avvertire mille esclamazioni senza
suono in quegli occhi su cui le palpebre si alzavano e si abbassavano
di colpo; ma a osservar bene quello sguardo e soprattutto il suo sorriso,
non sfuggiva a Danilo un segno di stanchezza e di ironia verso tutto l'ambiente
di cui erano entrambi e immeritatamente prigionieri; e del quale egli
era l'unica eccezione, il solo che essa salvasse; facesse dunque qualcosa.
Ma che cosa? Danilo non sapeva da dove cominciare, pur sapendo che Fernanda
aveva molti corteggiatori, non soltanto giovani, che passavano di lì
o cercavano in mille modi di conoscerla o di fidanzarsi con lei, e si
aspettava che il caso, che gli aveva offerto quel successo, s'incaricasse
di fare il resto, abbattendo la barriera che li divideva, e questo, pur
scoprendo negli occhi di lei un riprovero tenero e burlone, per la sua
inazione.
La sua terza visita era per l'Anonima. Non molto tempo prima, passando
per una piazzetta stranamente popolata, nel bel mezzo di tranquille vie
signorili, di bottegucce di sarti, di falegnami, di doratori, di cartapestai,
coi garzoni che accendevano fuori un fuoco di trucioli o provavano con
uno scatto il filo delle forbici, s'era sentito attrarre fortemente lo
sguardo verso una finestruccia quadrata, seminascosta, da cui lo guardava
con aria burlona una ragazza. Aveva gli occhi dalle pupille immense e
nerissime e non meno neri i capelli raccolti dietro la nuca, in un viso
di latte, E quelle pupille lo fissavano con aria sfrontata e spavalda,
come se gli gettassero una sfida. Il contino Danilo avrebbe voluto comprendere
che significato aveva quella sfida senz'amore lanciatagli da quella finestruccia
che non aveva mai notato prima. Ma la scomodità della piazza non
si prestava a lunghe soste, e, dopo avervi oziato per un ragionevole spazio
di tempo, se ne andò. Il giorno dopo, passando alla stessa ora,
la rivide affacciata, e nulla era mutato nella sua espressione, nè
mutò nei giorni seguenti, in cui però essa non mancò
mai di farsi trovare all'appuntamento. Mentre il contino avanzava col
naso in aria a scrutare, a cercar di vincere, di ammansire con gli occhi
quegli umori nemici, quella contraddizione che era in lei, si sentiva
fastidiosamente chiamato a cenni da persone che erano nella piazza, santi
e madonne o ancora in scheletri rivestiti di carta o in candida cartapesta
già passata a gesso, con le occhiaie vuote, che facevano a gara
a benedirlo o ammonirlo con la destra levata o a invitarlo enfaticamente
a esultanze e resurrezioni. li contino Danilo lasciava la piazza reso
inquieto e scontento dall'ostilità di quegli occhi nonchè
dal formicolare di garzoni e di quei santi frenetici. Certo il suo itinerario
sarebbe stato assai più confacente e armonioso se fosse stato completamente
invertito, e incominciando dall'Anonima, fosse finito a Adele, facendogli
serbare più a lungo l'immagine più grata, ma non c'era modo
di alterar l'ordine dei suoi giri senza il timore di perderle entrambe.
- Avrei io dunque tre anime? - chiedeva Danilo al suo anziano amico Trenta,
ligure alto e asciutto, funzionario della Prefettura di L., ma in passato
ufficiale di marina. Passeggiavano spesso conversando nella pace notturna
dei vicoli, se a volte non la rompeva in lontananza il gorgheggio o l'acuto
di una romanza d'opera d'un aspirante alla gloria canora, che da quel
palcoscenico notturno cercava di farsi scoprire da qualche intenditore
o impresario, di cui L. è piena, a imitazione della biografia del
Grande Usignolo, figlio e vanto della città, che, giovane e povero,
s'era messo a cantare un pezzo dei Pagliacci per la via, nascosto dietro
un portone chiuso a metà, o altri dicono che lo udirono cantare
nella bottega d'un falegname, di cui era garzone: e questi furono i primi
passi dei suoi trionfi.
- Avrei io dunque tre anime? - chiedeva il contino non tanto al dottor
Trenta quanto a se stesso -, se son capace di amare contemporaneamente
tre donne non dirò solo diverse, ma distinte al punto da incarnare
tre concetti ideali opposti e inconciliabili della femminilità?
O, per uscir dal vago, queste tre donne che ben potrebbero rappresentare
tre aspetti così diversi come il sentimento, l'intelligenza e la
carne, son tali che la scelta di una di esse dovrebbe automaticamente
escludere le altre due. Dunque sono io che non so quel che voglio!
Prodigo di consigli in altri campi, Trenta non lo era affatto in questo;
taceva: osservava Danilo aggirarsi tumultuosamente come un leoncino affamato
di ideali e di corpi in un bianco labirinto d'occhi e di trappole mortali,
con la tenera ansia di sapere che cosa egli fosse, e che cos'era il mondo
per lui, e lui per il mondo; e la propria esperienza gli diceva con tristezza
l'inutilità, anzi l'impossibilità di raggiungerlo con la
propria voce; era come un voler parlare a un marinaio di una nave che
passa all'orizzonte. Forse la sua stessa amicizia per Danilo non era altro
che un modo di rivivere pallidamente la propria giovinezza, e di questa,
quel bene che ora gli sembrava tale e che ora gli sembrava il più
prezioso di essa: la felice inesperienza, il no saber, la cieca e folle
urgenza di rivoltolare la propria anima per cercar di discernere il destino.
E come dunque avrebbe potuto dir nulla a Danilo?
- E, d'altra parte, perchè non dovrei poter amare tutte le donne?
Le belle, naturalmente. La città non è così grande
che in una giornata non si possa fare il giro delle sue belle. Perchè
questa limitazione a tre, o al massimo a quattro, questa sazietà
che provo, superato tale numero?
- Legga il Don Giovanni di Molière, i libretti di Da Ponte per
Mozart - gli aveva detto Trenta una volta; ma egli in cuor suo aveva respinto
il consiglio, geloso di tutto ciò che avrebbe potuto farlo apparire
non unico, e non unicamente suo ciò che gli si agitava dentro.
CAPITOLO II
Non erano meno complessi i problemi in cui si dibatteva il contino riguardo
al gioco.
- Tutte le notti - diceva a Trenta - parto con un fioretto alla conquista
del mondo, e invece è una sciabola di latta.
Il contino Danilo era squattrinato ma, natura vincente e esperto in
ogni gioco, come tutti i giovani bennati della città, tutte le
notti, giocando ore e ore a tavoli di poker o di bridge o di ramino
o di écarté e persino di mah-jong (dovunque la posta fosse
alta) finiva col metter su una sommetta, un fiorellino con cui, a notte
alta, si accostava ai tavoli del Grande Gioco, baccarat o zecchinetta;
qui la fortuna gli voltava inesorabilmente le spalle, beffandosi delle
sue intuizioni e delle sue speculazioni sull'andamento del gioco e lasciandolo
ben presto al verde non solo del danaro, che era poco e in fin dei conti
non suo, ma delle sue speranze.
- Se pare nottata di paroli, non appena punto io, escono un colpo dentro
e uno fuori; il gioco pare orientato verso i colpi alterni, se punto
io, si rompe il calepino e escono i paroli. Ho da concludere che io
spreco miseramente la mia parte di fortuna in quei giochini, in quel
piccolo cabotaggio che son costretto a fare nella prima parte della
nottata e delle cui vincite ho d'altronde bisogno? Oh, se potessi, ma
non vedo come, attaccare direttamente ai tavoli dell'avventura!
- Se lei conservasse tutto il danaro che vince ogni notte nei giochi
minori, in capo a un anno sarebbe come se avesse decuplicato un banco
di baccarat. - Sarebbe come se mi rassegnassi; senza prima aver tentato
tutto, alla mediocrità della sorte.
- Ma lei non vuoi fare lo scrittore?
- Sì, ma non qui. Qui non è possibile far nulla. No, devo
vincere, vincer molto e partire.
Per parlare dei suoi problemi col gioco egli aveva trovato in Ics un
ascoltatore meno disattento. Nella spietatezza che regolava le sale
dei giochi d'azzardo, Danilo aveva scoperto due eccezioni ormai diventate
rigoroso costume. La prima era costituita dagli argentieri: erano due
anziani signori distintissimi che seguivano, ciascuno per proprio conto,
il gioco per ore e ore senza mai puntare finchè, se c'era un
banco in forte vincita e sul punto di alzarsi, appena giungeva una battuta
a favore della mano, con uno scatto fulmineo dell'unghia dell'indice
spingevano avanti una piccola moneta d'argento, facendola posare tra
il danaro puntato e quindi da pagare. Nessuno mai mostrava di accorgersene,
nemmeno il giocatore che era al banco e ai cui danni si esercitava quel
balzo. Danilo poi seppe che erano due nobili decaduti che avevano perso
la loro fortuna al gioco; ad essi i banchi in vincita concedevano quella
piccola argentea pensione. La seconda eccezione era il signor Ics, benchè
il caso fosse alquanto diverso dal primo. A volte, mentre si raccoglievano
le quote per formare un banco, arrivava un cameriere e diceva: - Ics,
cinquanta. La somma troppo piccola e soprattutto fastidiosissima per
il conteggio delle percentuali in caso di vincita, o in caso che vi
fosse comunque del danaro da dividere alla fine del banco, sarebbe stata
certamente respinta se fosse venuta da chiunque altro; mostravano invece
per Ics simpatia e riguardo, e vi era subito una gara fra gli azionisti
più grossi per prendere la sua quota nella propria. Danilo scoprì
chi era Ics per caso. C'era talvolta in un salottino attiguo alle sale
da gioco, dove alle signore non era permesso di entrare (probabilmente
per tener lontane le mogli dei giocatori), una vecchia settantenne straordinaria;
ancora diritta e agile, solo il viso, senza trucco le si era rimpicciolito
e la pelle tirata sulle ossa, ma vi aleggiava uno strano lucore grigiastro,
che sembrava venirle da dentro, così come la luce negli occhi
celesti e penetranti. Si diceva che essa fosse stata per molti anni
l'amica di T.L., uno degli scrittori più eleganti, e fra i prediletti
di Danilo, e che si fosse giocato ai tavoli di poker e di roulette di
Sanremo due famose ville in Toscana. Ora veniva ogni tanto a L. a trovare
un nipote.
- Lei, Danilo - diceva -, è il giocatore più giovane.
Che bello! Bisogna che vi siano sempre delle facce giovani ai tavoli
da gioco. Il gioco è una religione che ha sempre bisogno di nuovi
sacerdoti. Scommetto che lei conosce molti vecchi giocatori ipocriti
che le fanno la predica ogni notte (specie se hanno perduto), esortandola
a abbandonare le carte.
Era così. Mentre conversavamo veniva ogni tanto un cameriere
a dar ragguagli sui banchi che si formavano.
- Forse io non sono un giocatore. O forse è che ho poco da puntare.
Vi son di quelli che gettano via per caso un fiammifero semispento e
subito piglia fuoco, ne nasce un incendio; io tutte le notti accendo
il mio fuocherello, con mille accorgimenti per farlo durare, e invece
mi va tutto in fumo. Vorrei proprio capire se le carte son le figure
della nostra vita, se il fatto che esca una vista anzichè un
nove, sia già scritto, già prestabilito in noi; giacchè
non posso pensare che vi sia un dio, o un diavolo, che si prenda la
briga di coordinare la successione dei colpi alle nostre colpe o ai
nostri meriti.
- Tommasino diceva - e lo citava come un'autorità non della narrativa
ma del gioco - che il Vero giocatore è colui che sa perdere.
Chi vince non è nulla, diceva.
In quel momento entrò il cameriere di prima e disse: - Va a banco
B., donna Maria.
- E' una natura fortunata. Tenete - e gli affidò un biglietto
da cinquanta lire. Dunque Ics era lei.
- Sì, Tommasino diceva: chi vince non ha nulla. - Poc'anzi ha
detto: non è nulla. - Non è nulla, non ha nulla. Non ricordo
più. Forse è lo stesso.
Danilo restava un po' deluso. Questo non l'aiutava nella sua assurda
pretesa di leggere cartomanticamente il proprio destino e magari di
prevederlo dalle carte da gioco.
- Peccato che non l'abbia conosciuto prima. Si giocava molto a casa
mia, quando avevo una casa. E le avrei presentato molta gente. Ma un
giorno faremo assieme un banco di baccarat: io metterò cinquanta
lire e lei il resto -e rideva solo con gli occhi, come una ragazzina.
Benchè di notte le vicende del gioco cancellassero le stagioni,
di giorno era esplosa una primavera corta e violenta, di quelle che
fanno fiorire in una notte garofani, gerani e gelsomini, e delirare
le corrose cariatidi dei balconi, e i santi di cartapesta sospesi a
asciugare contro un muro al sole con la folle enfasi dei gesti. Il contino
Danilo passava sotto la casa dell'Anonima, non la trovò alla
finestra, ma la scorse poi affacciata a un terrazzino fra i vasi dei
garofani fioriti. Quando le fu più vicino, essa gli fece un gesto
d'invito, indicandogli il portone. Quando salì, ed essa gli aperse
la porta, si trovò di fronte l'abnorme e fantastica Sparami-in-petto,
favola e rabbia di tutti i giovani della città, che nella non
mai veduta abbondanza e sodezza delle sue mammelle riconoscevano una
manna celeste per la loro fame ancestrale; nient'affatto turbati 'ma
anzi esaltati nella loro immaginazione di quella proporzione mostruosa,
che prometteva la prolungata e quasi interminabile delizia dei giganteschi
dolcissimi dolci di pasta di mandorla o di ricotta e zucchero, vanto
della città. Così con un lento assaporamento di quella
dolcezza spropositata, di quegli abbracci coi quali pareva che fosse
la terra stessa a avvinghiarlo, ed egli vi affondava il capo, muovendolo
per sentirne il contatto da ogni lato del viso, il contino Danilo avrebbe
voluto seguitare senza fine, ma Spararmi-in-petto lo avvertì
che doveva andarsene, che suo padre stava per tornare da un momento
all'altro. Mentre si rivestivano, e il contino pregava la sua memoria
di non scordar nulla di quel bianco lampeggiamento del suo grande corpo,
le chiese quando avrebbero potuto stare di nuovo insieme.
- Mai più. Sono fidanzata. - Con chi? - Con un ufficiale forestiero.
Allora Danilo si ricordò di un ufficialetto che qualche volta
aveva visto aggirarsi per la piazzetta, piccolino, con le braccia lunghe
e cascanti che ne rendevano l'andatura un po' scimmiesca.
- Con quel cercopiteco?
- Sì - rispose Sparami-in-petto con una grande risata -, con
quel cercopiteco.
- Perchè mi hai chiamato? - ed era già per le scale. -
Per punirti. O per premiarti.
E poi conclusivamente: - O forse per divertirmi.
Quando uscì inciampò in un paio di statue, una Giovanna
d'Arco con tunica e corazza e un San Rocco col cane, non ancora dipinte,
ma questa volta avrebbe voluto abbracciarle. Lasciata la piazza, si
addentrò in un dedalo di viuzze candide di calce e folli, come
se le case vi fossero sorte da sole seguendo un capriccioso disordine,
con porte a mezz'aria, balconcini senza ringhiera e scalini che non
portavano a nessuna parte; il bianco della calce e il silenzio non rotto
ma solo carezzato ogni tanto dal ronzio di una macchina da cucire, gli
pareva che gli preservassero meglio sulla pelle il ricordo del corpo
della Sparami-in-petto. Pensava anche che l'equilibrata economia dei
suoi amori poteva esser messa in pericolo da ciò che era avvenuto.
Ma non sapeva in qual modo. Oh, se anche Adele, se anche Fernanda l'avessero
un giorno chiamato con un cenno, invitandolo a salire! Per parlare,
non foss'altro che per parlare. Quella notte passeggiava con Trenta
lungo le mura. All'altezza di Porta S. Biagio, dove dal monumento ai
Caduti boccheggiava in una sfera sudicia e polverosa una luce giallognola,
tre uomini in divisa si avvicinarono.
- Il conte Danilo? - Sono io.
L'ufficiale che era in mezzo, un tenente, gli si accostò e lo
afferrò per i risvolti, scuotendolo.
- lo sono il cercopiteco.
Il contino si sbarazzò della presa e scaraventò in terra
l'ufficiale, cadendogli sopra. Quando si rialzò, l'ufficiale
gli diede il suo biglietto da visita.
- Sta bene - rispose meccanicamente il contino, come recitando -. Domani
riceverete i miei padrini.
Andarono via. Trenta chiese:
- Possiamo andare in casa sua senza esser disturbali? - sì.
Una volta in casa, il dottor Trenta disse:
- Mani non ne aveva? Se gli avesse dato tre o quattro pugni quando lo
teneva sotto, il duello non ci sarebbe, perchè un ufficiale non
può farsi picchiare. E se si fa picchiare, non può chiedere
soddisfazione.
Il contino Danilo sentì con stupore che chi gli parlava non era
più il funzionario prefettizio ma l'ufficiale di marina. Ammise
il proprio errore, dovuto a inesperienza, ma ormai era stato sfidato
e doveva andare avanti.
- Lei vuoi fare veramente questo duello? - Sì.
- Sarà difficile che possa farsi, dato il motivo. Come possono
un gentiluomo e un ufficiale chiedere a dei padrini di rappresentarli
in una vertenza che ha per origine e per causa la Sparami-in-petto?
Bisogna inventare un altro motivo.
E qui propose un ingarbugliato equivoco da cui sarebbe stato provocato
l'incidente.
- Vado subito a parlare all'ufficiale e a suggerirgli questa versione.
- Ma lui sarà d'accordo?
- Lui non corre solo il rischio di vedersi deriso da tutta la città,
come lei, ma i suoi superiori, non appena sentiranno che ha provocato
questo incidente per una sgualdrina, lo metteranno agli arresti. Lei
sa tirare di scherma, no?
- Sì, un poco.
- Bene. Anche lui come ufficiale dovrà saperne, cosicchè,
se è nel primo sangue, ve la caverete con uno sgraffio.
Poi già sulla porta aggiunse: - Non scelga fra i padrini il colonnello
Z., o vi farò sbudellare.
Il colonnello Z. era il padre di Delia. Il ricordo di lei irruppe in
quelle immagini da macelleria, addolcendole e contraddicendole. Andò
a letto e si addormentò pensando a lei, pensando e sperando di
essere stato ferito e nel candore d'un letto d'ospedale, dove giaceva,
essa gli si accostava dapprima come in sogno che poi si riconosce che
è vero. E infine gli parlasse con una voce che non conosceva
ancora, ma simile ai suoi occhi, e poi dicesse...
L'indomani si alzò di buon'ora e andò a trovare due amici,
un avvocato e un ingegnere, e li pregò di fargli da secondi.
Trenta come funzionario pubblico non poteva. Essi tuttavia si recarono
da lui per udirlo come testimone dei fatti, ed egli ripetè la
versione che egli stesso aveva inventato (e su cui l'ufficiale si era
dichiarato d'accordo). I due secondi, dopo aver accettalo formalmente
l'incarico, lo ammonirono di non far parola dell'accaduto con anima
viva e di evitare ogni contatto anche carnale con l'avversario. Doveva
addirittura uscire da un locale pubblico se l'altro vi si trovava. Vennero
poi ad avvertire che si sarebbero incontrati coi secondi dell'avversario,
due colonnelli, quella notte stessa alle nove al Circolo, in una sala
della foresteria; egli si tenesse lì pronto da quell'ora al vicino
caffè delle Due Pile, dove poi gli sarebbero state comunicate
le decisioni.
Mentre aspettava che venissero ad annunziargli, magari: domattina, alle
sei ecc., provò a considerare che poteva anche venire ucciso;
ma nonostante il tenero capitale degli occhi di Adele e, in minor grado,
di quelli di Fernanda, sentiva che la perdita vera sarebbe stata quella
del grande banco della sua vita, che comprendeva viaggi e paesi sconosciuti,
incontri straordinari, libri da leggere o libri che avrebbero forse
scritto, ma la cui posta finale era conoscere la vita, tutta la vita,
capirla, e così, grazie alla sua conquistata verità, essere
qualcuno diverso dal giovane contino, leggero figlio dell'aria e superficiale
in tutto fuorchè nel fatto di rendersene conto; ma intanto, per
non smentirsi, diceva cinicamente a se stesso: Che levataccia mi toccherà
fare domani!
Poichè il caffè chiudeva alle undici, dovette passeggiare
fuori, sotto i portici, per più di un'ora prima che i padrini
comparissero:
- Non s'è deciso nulla - gli dissero frettolosamente -. Ci riuniamo
di nuovo domani alla stessa ora.
- Perchè?
- Non siamo riusciti a metterci d'accordo sull'offeso e l'offensore.
- Che importanza ha?
- L'offeso sceglie l'arena. E corsero a rincasare.
L'indomani tutta la città era elettrizzata dalla notizia del
duello; per le vie la gente interrompeva i discorsi e si voltava a guardarlo
sovreccitata; in realtà anche la notte precedente nel caffè
delle Due Pile egli aveva avuto la sensazione che camerieri e clienti
lo guardassero in modo particolare, ma aveva respinto da sè l'idea
che potessero sapere. Ma ora non era più possibile alcun dubbio.
Che sia stato l'altro, chiedeva con sdegno. O i miei o i suoi padrini?
Ma gli sembrava impossibile.
Molti amici gli si avvicinavano per spiarlo o facevano allusioni un
po' alla larga; finchè da uno di essi, che affrontò direttamente
l'argomento, riuscì a scoprire la fonte della notizia.
- Allora questo duello si fa o non si fa? - Che duello?
- Ma via, non far lo gnorri! Lo sa tutta la città. Sei l'uomo
del giorno. Non si parla d'altro che di le. L'unico punto oscuro è
il nome della donna per cui vi battete.
Il particolare della donna, noto solo a lui, all'altro e a Trenta, pareva
far ricercare fra loro il violatore del segreto.
- lo vorrei sapere - chiese Danilo - chi è quel pazzo che può
aver messo in giro queste voci.
- E' semplicissimo. La commessa di una libreria nota che, poco dopo
l'apertura del negozio, il contino Danilo e il tenente De Bonis vanno
a chiedere e acquistano il Codice cavalleresco del Gelli; lo fa osservare
al libraio, il quale ne parla coi suoi clienti e i negozianti vicini.
Che altro possono dedurre se non che il contino e il tenente, giovani
vagheggini e teste calde, si battono per una donna? Basta saper sommare
due più due. E per giunta altri signori nella stessa giornata
vanno a chiedere in quella o in altre librerie lo stesso libro, che
a Lecce non si vendeva più dal tempo dell'ultimo duello.
- La commessa può aver fatto confusione di persona. lo non so
nulla.
CAPITOLO III
La sera addolciva gli angoli della bocca delle donne; la sera arrotondava
la pena dei tufi, accendeva un sogno negli alti gladioli rossi. Danilo
si preparava ad andare al suo lungo appuntamento al caffé, che
si concluse come la notte precedente.
La mattina dopo Danilo notò dì fronte alla sua porta un
carabiniere dall'aria distratta. Andò per le sue visite amorose
e trovò solo Delia che lo guardò con tristezza come per
un addio. E tale fu infatti, perchè non si affacciò più
gli altri giorni nè Danilo riuscì più a vederla
passando in ore diverse davanti alla sua casa. Sparita anche la Capucci;
dall'ex anonima, dalla Sparami-in-petto non passava più per punirla
della sua slealtà. Come poteva Delia averlo lascialo? Perchè?
Egli lo attribuì dapprima alla gelosia poi gli venne in mente
che essa poteva aver paura dello scandalo, potendo venir additata ingiustamente
come l'origine della sfida da una città smaniosa di dare a questa
un nome e un volto di donna, possibilmente conosciuti.
Mentre era assorto in questi pensieri bussò alla sua porta un
carabiniere pregandolo con inconsueta e imbarazzata cortesia di voler
andare a trovare il maggiore A.. Vi andò. li maggiore lo accolse
in un salottino, lo fece sedere su una poltrona ottocentesca.
- Mi scusi se mi son permesso di pregarla di venirmi a trovare. Corre
voce in città che stia per avere luogo un duello.
- Non ne so nulla.
- Lei è un gentiluomo, e pertanto io devo credere alla sua parola.
Ma, essendo un gentiluomo, se fosse coinvolto in un duello le leggi
d'onore le proibirebbero di venirmelo a dire.
- Infatti.
- lo devo avvertirla (ma solo per il caso che tali voci fossero vere)
che la legge di cui io sono esecutore non riconosce le leggi d'onore
e che per essa chi fa un duello commette un reato, sia egli offeso o
offensore.
Divertito dalla diplomazia del maggiore, Danilo lo salutò ringraziandolo
di quelle informazioni anche se comunque non lo riguardavano direttamente.
La notte andò al caffè ad aspettare. Trenta lo raggiunse
e gli comunicò delle notizie che aveva potuto cogliere. Nella
falsa ricostruzione delle cause che egli aveva suggerito per togliere
di scena la Sparami-in-petto aveva avuto cura di dosare perfettamente
la responsabilità dell'equivoco. Lo stesso pareggio di responsabilità
i padrini riscontravano nell'incidente vero e proprio.
- Ma c'è la sfida.
- Infatti gli uni sostengono che lo sfidante è l'offensore, gli
altri invece che lo sfidante aveva subito delle vie di fatto e quindi
deve considerarsi l'offeso. Sono in posizione di stallo, e non vedono
come venirne fuori. Qualcuno ha proposto di nominare un giurì
d'onore.
- Ed è questo che stanno a discutere tre ore ogni notte?
- Oh, no. Dopo un poco passano nelle sale da gioco e si mettono a giocare
a poker. - E io che non posso più andare a giocare.
La notte al caffè avevo rinnovato l'amicizia con uno scultore
di ferro battuto, Andrea, un uomo dallo sguardo dolce tormentato su
dei lineamenti e una bianca carnagione da nobile beduino. Allievo d'un
maestro assai noto, al suo rientro a Lecce aveva capito che i suoi crocefissi,
i suoi piatti sbalzati non interessavano nessuno; così aveva
aperto una bottega con molti operai e fabbricava porte, cancelli, grate,
balconi, alari e parafuoco per tutti i ricchi che non pensavano si potesse
costruire o restaurare o comunque modificare una casa senza quei suoi
ferri cromati di verde, che rappresentavano con uno stile sciolto e
arioso fughe di foglie e fiori sormontati da uccellini che col becco
aperto e levato in alto davan l'illusione di cantare.
Andrea lo aveva preso in simpatia e lo invitò una sera a cenare
con lui in casa della sua amica, ma il contino Danilo non potè,
vincolato com'era dall'appuntamento notturno coi secondi; fu nominato
un giurì d'onore, composto da due generali, uno per parte. Questi
si riunirono, anch'essi al Circolo dei Nobili, e per prima cosa misero
a verbale un preambolo in cui si recriminava, che mentre la patria era
in armi, dimostrando scarsa sensibilità patriottica, un ufficiale
e un borghese nelle retrovie ecc.: benchè non si potesse parlare
propriamente di retrovie, perchè la guerra era nientemeno che
in Abissinia, e i soldati sfilavano cantando:
Faccetta nera
dell'Abissinia,
aspetta e spera
che già l'ora si avvicina.
Quando saremo
vicino a te,
noi ti daremo
un altro Duce e un altro Re.
Dopo di che caddero
a loro volta nella pania di quei garbuglio di ragioni e torti; e inciampati
soprattutto nell'intoppo di quell'equilibrio fra vie di fatto e biglietto
di sfida, aggiornarono la seduta e scesero a giocare nella sala dei
biliardi a carambola.
Disoccupato nell'amore e nel gioco - coi padrini e il giurì d'onore
ormai insediati nel suo Circolo -, stanco delle scaltre occhiate dei
suoi concittadini, che cercavano di leggere in lui (e forse vi riuscivano)
i grotteschi sviluppi della sua vertenza, il contino Danilo abbandonò
il viale lungo le mura che costituiva il confine delle loro passeggiate,
e cominciò a perdersi per la campagna circostante, che cominciava
dopo poche case e lì, fra strade e viottoli polverosi, incontrò
l'antico incubo della sua adolescenza, (e che credeva perduto con essa),
il vuoto regno di polvere, di scogli e di pietre, da cui attratto e
inorridito molte mattine non andava a scuola per percorrerlo per molti
chilometri in ogni senso, nella speranza sempre delusa di trovare in
qualche angolo un po' di verde che non fosse qualche ulivo selvatico
intristito o un fico dalle braccia nude e morte; ogni parte da cui s'affacciava
si lasciava scoprire la pianura fino a un remoto orizzonte, fittamente
segnata, come un reticolo, da muretti di pietre delimitanti le proprietà.
Ma che proprietà erano mai! Se non era qualche basso vigneto,
il colore dei suoi grappoli non si poteva distinguere per la polvere,
erano scogli, pietre di cui pareva ne spuntassero sempre di nuove cosicchè
il contadino talora tentava di riunirle in un angolo, ma poi scoraggiato
di quella loro moltiplicazione lasciava lì il mucchio appena
iniziato. Danilo notò una proprietà appena più
grande di una coperta, ma ben recinta da ogni parte da muretti, e centro
non v'era altro che uno scoglio. In certi punti la pianura con tutti
quei muretti che la percorrevano dividendola, era assai più morta
d'una mappa catastale, e Danilo chiedeva inutilmente qualche conforto
a un fiore incolore di uno sterpo o a un rosolaccio. E se guardava all'orizzonte,
ciò che poteva ben fare perchè non vi era mai nulla che
si frapponesse allo sguardo, ciò che vedeva erano altre pietre,
le case bianche dei paesi, che avrebbe forse potuto amare se l'ossessione
di tutto quei desolante pietrume non glielo avesse impedito. Si alzava
da alcune di quelle martoriate prospettive, senza voce nel silenzio
e nella solitudine, un doloroso appello come di un dio, un dio umano
che mostra il suo corpo strazialo dalle ferite, dalle piaghe, le labbra
secche e sitibonde, o era il senso del vuoto, del nulla personificati
che imploravano da lui, proprio dall'adolescente Danilo, un soccorso
qualsivoglia. Più volte, saltando le noiose lezioni del liceo,
camminava per ore e ore in cerca di qualche segno di vita -un orto di
piselli o di cicorie, l'abbaiare d'un cane, una campanula bianca, o
il canto di due o tre cicale - per alleviare in sè quell'angoscia
e corrispondere in qualche modo almeno una cosina, una briciola di ciò
che gli veniva richiesto.
Ora il contino Danilo, ritornando per gli antichi itinerari, si ritrovò
davanti lo spettro della sua adolescenza. Spinto dal suo desiderio di
azione, progettò di acquistare - che cosa poteva mai costare
un campo di sassi? - uno di quei suoli pei quali gli sembrava che uno
spirito pietoso potesse operare un (relativo) miracolo; toglier le pietre,
far dissodare la terra intorno agli scogli e comprarne altra (o rubarla
e portarla a sacchetti, ma da dove?) e piantarvi alberi d'alto fusto:
abeti, cedri, pini, eucalipti (ma non dimenticarsi dei teneri salici)
e ricoprire gli scogli con limoni cresciuti in cassette di legno o in
grandi vasi di terracotta e piante di fiori ovunque fosse possibile;
e una parete di alti girasoli; pensò anche di rialzare i muretti
ad evitare che venisse a rubargli la terra il vento, a cui forse l'incuria
beata della sua gente, strappando o lasciando morire gli alberi, doveva
aver consentito di scoperchiarla, fino a non lasciare che sassi e scogli.
Pensò anche ai ferri battuti di Andrea, e questa volta ne considerò
il successo in un'altra luce, come riprova dell'assurdità dei
leccesi, che preferivano finti intrichi di foglie e finti uccellini
verdi mentre essi e i loro avi avevan lasciato morire la natura. Ma
poteva chiedere a Andrea di fargli costruire un corridoio ad arco e
una bercense, nudi senza decorazioni floreali, da ricoprire di edera
e di vite americana (qual'è che cresce più in fretta?).
Il progetto di Andrea urlava contro due difficoltà. La prima
era la sua assoluta ignoranza di agricoltura. Contava di ovviarvi leggendo
molle opere di agronomia. Anche perchè Danilo contava di non
arrestarsi a quei primo esperimento e poi promuovere una unione, un
consorzio fra i proprietari di quei sassi per riscattarli, oppure che
stimolati dal suo esempio lo facessero per conto loro.
Il dottor Trenta, a cui esponeva queste idee gli disse:
- L'azione di uno scrittore è la parola. Colmi con la parola
quei vuoto che lo fa soffrire: gli dia una voce.
Ma Danilo non avrebbe saputo da dove incominciare.
L'altro ostacolo per Danilo era che per ora non disponeva di danaro.
Ma non dubitava che, ora che aveva rettificato il tiro, e posto il proprio
obiettivo assai più in là di un vantaggio meramente privato,
la fortuna non l'avrebbe più abbandonato a metà, come
aveva fatto fin qui, ammettendolo nel giro del grande gioco. E in fin
dei conti, che ci voleva per acquistare un suolo così inutile
e delle piante? Bastava un banco fortunato o una buona nottata alla
punta.
Camminando per la pianura sotto un cielo concavo e incombente, che affermava
su di essa il suo incontrastato dominio, osservava il paesaggio con
occhi nuovi immaginando le trasformazioni che avrebbe subito nel volgere
degli anni; prevedeva anche che i leccesi, gente dalla battuta acre,
avrebbero detto di lui e della sua impresa "il fabbricante di sassi",
"l'industria dei sassi". E con ciò? Non l'avrebbero
certo fermato con questo! (e qui zio Giovannino)
No, non si sarebbe fatto mettere sotto i piedi dai suoi concittadini
come lo zio Nilo che per loro aveva preferito morire essendo ancora
vivo.
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