§ L'INEDITO

Il duello del contino Danilo
(Romanzo incompiuto)




Vittorio Bodini



CAPITOLO I
Nella città della nostra giovinezza una rete di muti appuntamenti convocava alle finestre e ai balconi donne che la distanza faceva apparire di sogno, con una sincronia che sembrava procedere da una centrale segreta; o piuttosto quell'acuto potere era negli occhi stessi delle donne. Come piante che selezionino e rafforzino soprattutto quegli organi atti alla loro perpetuazione, acquistando, se la natura lo esige, stupende tinte e colori, le donne di L., recluse in casa, sfornite d'altro campo o mezzo di richiamo, a poco a poco, trascurando ogni altra parte di sè, crescevano tutte negli occhi, fiori ilari o tristi, timidi o sfrontati, ma sempre tali da non esser possibile sottrarsi alla loro chiamata; talchè si sarebbe anche potuto supporre che in questo sforzo esse divorassero ogni altra parte del proprio corpo e che nulla o quasi nulla vi fosse dietro quei volti che rompevano il buio degli interni per affacciarsi e inquietare le bianche vie. Ma non era vero.
In questo palpitante scenario faceva ogni giorno la sua apparizione il contino Danilo, col suo passo un po' dondolante, nonostante avesse solo vent'anni, nel quale pareva riflettersi l'altalenare dei suoi sentimenti fra gioie e contrattempi che, in mancanza di vere infelicità, egli promoveva a tali. Coi cache-col di seta bianca, che gli nascondeva infatti un pomo di Adamo un po' pronunziato per la sua età e la sua magrezza, il capo terminante (quando non portava un cappello dalle falde rialzate) in una lunga coda frangiata di capelli neri che carezzavano il bianco dorato dell'aria e delle case, dove spesso l'intonaco si stacca dai muri, lasciando scoperto l'oro del tufo, pronto a sfaldarsi, a fingere architetture più bizzarre di quelle dell'uomo, mentre procedeva fra quei muri di cui conosceva ogni crepa, ogni erosione, solo per metà occupato a guardare e a guardarsi nella sua città, cioè a esser guardato, l'altra metà era intenta a tracciar bilanci sul suo stato presente e previsioni, o piuttosto sogni e almanaccamenti, su quello futuro. Gli uni e le altre, però, perigliosamente posati su due pilastri labili e di assai poco affidamento, quali sono il gioco e l'amore. Non si vuole escludere che in una zona meno scoperta della sua coscienza potessero coesistere altre aspirazioni, ma erano tuttavia così confuse, e affioranti con così lunghe intermittenze, che non mette conto parlarne.
li capitolo dell'amore, in una città in cui le donne non uscivano mai sole e le occasioni di incontri risultavano pertanto improbabili, era quanto mai meschino e disadorno, e in una parola, tolto il breve periodo di villeggiatura, del tutto negativo; ma i giovinotti, tale è la forza dell'età, riuscivano ugualmente a spremere da quello stato di negazione totale un che di positivo, quasi un cavar sangue dalle pietre; e da finestre e balconi, negli aerei messaggi degli occhi, trovavano dei ganci a cui sospendere i loro sogni. Piantonavano gli angoli delle vie o cercavano di mimetizzare i loro andirivieni sotto la finestra dell'amata, spiandola con la coda dell'occhio; osservavano minuziosamente il contenuto delle vetrine delle vie o si rifugiavano nei portoni di fronte, o sedevano a un caffè, se avevano la fortuna di averne uno a portata d'occhio. Alcuni infelici più vivacemente pungolati dall'amore al punto da non curarsi più delle apparenze o del ridicolo, si arrestavano di fronte alla finestra del loro bene e inventavano un fitto colloqui di gesti, della cui destinataria non di rado ignoravano la figura e la voce, che avrebbero dunque potuto, per assurdo, non esistere. Rilanciavano in aria e poi riprendevano pallottoline incolori. Il contino Danilo disapprovava quelle gesticolazioni; preferiva affidarsi al fuoco dei suoi sguardi seri e appassionati e sentirli corrisposti. Ma sotto sotto egli si faceva beffe del proprio cuore e dei suoi facili appagamenti.
Veniva tutti gli anni d'inverno a L. una compagnia di operette, quella di Cettina Neri, attesa in segreto dal pubblico dei suoi devoti come un raggio di sole che riesca infine a squarciare tetre nubi di noia e di malinconia, della cui oppressiva tristezza ci si rende conto nell'istante in cui ci appare quell'ormai insperato sollievo. Per non perdere una sola nota, una sola battuta, il contino Danilo andava nel palco di proscenio, riservato ai soci del Circolo. Sebbene all'apparire del corpo di ballo, ad apertura dello spettacolo, egli non si sottraesse al costume del resto del pubblico, di soppesare ben bene i corpi alti, rossi ed agili delle ballerine, e di trascegliere quell'una o due con cui, o per la sodezza delle forme o per l'espressione del viso o per la lunghezza delle cosce e un loro modo saporoso di ancheggiare (tutti criteri di scelta evidentemente dissonanti), avrebbe voluto avere una conoscenza più intima (e magari non era detto che la cosa non fosse possibile ... ), era tuttavia l'insieme dello spettacolo, e del mondo trasparente che vi stava dietro, ciò che lo affascinava. Oh, celeste capriccio! Divina, stupenda stupidità! Una dimensione frivola e gaia del vivere, che avrebbe dovuto esser quella della sua giovinezza, sconsacrava gli altari di un amore degradato a mutria e a sofferanza con la gioconda libertà e volubilità dei suoi flirts, con le sue battute scanzonate dove l'ironia l'aveva vinta sulla virtù, la disinvoltura sul peccato; lo divertiva persino il modo un po' assurdo con cui inaspettatamente da un recitativo realistico prendeva il volo una di quelle arie tenere, come dolci ferite brillanti che presto, o nella loro stessa musica o nel seguito della vicenda, avrebbero trovato una gloriosa rimarginatura. Lodava infine l'esotismo dei luoghi in cui era collocata l'azione, che erano grandi capitali celebrate per la loro gioia di vivere, come Parigi, Vienna, Budapest o capitali di minuscoli regni immaginari capaci di gareggiare con le prime in spregiudicatezza e in fantasia. In queste effimere patrie colorate Danilo cercava, per tutta la durata dello spettacolo e anche oltre, di contraddire il sordo e opaco spessore che aveva la realtà soprattutto in quegli anni, per l'ideale pedantemente imposto dall'alto di imitare le virtù (e non i vizi) dei romani antichi, e persino le arti e i convenevoli uggiosamente prescritti, pena l'infrollimento e la decadenza dell'animo dei giovani, come stava appunto accadendo in quelle nazioni più libere, che a occhi chiusi andavano incontro alla propria rovina, e a diventar preda di quegli stati dalla moralità più severa, i nuovi romani antichi, per l'appunto, i quali - si leggeva chiaramente tra le righe dei giornali e nei discorsi ufficiali -, forti della propria austerità, non avrebbero sopportato a lungo quello scandalo e le avrebbero punite manu militari di quell'imperdonabile leggerezza.
Il successo che la compagnia riscoteva nella nostra provincia lo pagava, sia pure in minima parte, col rischio di subitanei vuoti, che si formavano nel corpo di ballo, allorchè ricchi signori locali s'invaghivano d'una ballerina -possibilmente austriaca o tedesca - e se la sposavano in quattro e quattr'otto, costringendo l'amministrazione della compagnia a fare arrivare a precipizio delle ballerine di riserva, che già, poichè da molti anni venivano da noi, dovevano aver predisposto prima di partire per la tournèe. Danilo non li invidiava; se anche avesse potuto, egli non l'avrebbe fatto, perchè il problema era andare in cerca di quei mondo per viverlo integralmente, e non già di acquistarne un pezzetto, una minuscola scheggia, senza muoversi di casa, per portarselo a letto ogni notte. Poteva forse capire meglio De Nitti. De Nitti, che era stato nella nostra città il primo bevitore di whisky e il primo a possedere una lunga motocicletta da corsa, aveva perso la testa per una soubrette venuta qualche anno avanti con Cettina Neri, e era andato appresso alla compagnia per tutta la tournee; aveva poi venduto tutta la proprietà per metter su una compagnia della quale sarebbe stata titolare la sua amica. Ma di questo non si avevano notizie certe, e ne lui ne la soubrette erano più ricomparsi a L.. Alto, magrissimo, con due strani occhi grigi, De Nitti aveva certo in corpo assai più spirito d'avventura di quei pigri e formalistici accaparratori di bellezze viennesi. Il contino Danilo se lo ricordava una sera che era apparso con due amici a una festa in grande etichetta, in un albergo, e avvicinatosi al bar aveva bevuto un whisky. Immediatamente le madri s'erano precipitate a strappar via le figlie dai balli, e in pochi minuti la sala s'era vuotata, come se avessero visto, un appestato. Ma non era un errore, in definitiva, aver confuso il mondo dell'operetta con quella d'una compagnia d'operette?
Benchè vista dal palco di proscenio, senza l'alone del palcoscenico e della distanza, Cettina Neri mostrasse il doppio degli anni di Danilo, non ne soffriva l'ammirazione del contino, che amava in lei il simbolo e la regina di quei lieve microcosmo incantato. Una notte che lo spettacolo veniva presentato come serata in suo onore, e che essa stava per terminare una delle arie più indimenticabili del Paese dei Campanelli, a cui sarebbero seguiti i rituali scrosci d'applausi degli spettatori, la porta del suo palco si aprì di scatto e una mano gli porse un fascio di rose, facendogli cenno di lanciarlo. Ciò che egli fece. Mentre il pubblico raddoppiava gli applausi, che stavolta pareva non dovessero aver fine, Cettina Neri con le dita alle labbra gli mandò un bacio.
Per parecchi giorni, e anche dopo che la compagnia aveva lasciato la città, dove non sarebbe ritornata che tra un anno, Danilo si chiedeva se quei bacio fosse stato l'anello culminante di un previsto rituale e se fosse toccato a lui per delle ragioni puramente meccaniche, in quanto si trovava nel palco di proscenio ed era il più giovane, e perciò il più indicato a esprimere disinteressatamente l'omaggio del pubblico, o se non vi fosse nel bacio di Cettina (e nella mano senza corpo che gli aveva porto il mazzo di fiori) un messaggio per lui personalmente, come una promozione sul campo, o un patto offerto da quei mondo amabile e spumeggiante alla sua giovinezza. Vi andava ancora pensando una sera, passeggiando lungo le mura, e cercando imparzialmente un qualche nuovo elemento che potesse far prevalere in maniera definitiva o l'una o l'altra delle due tesi, quando fu superato da tre donne vestite a lutto, evidentemente una madre e due figlie, la minore delle quali, giovanissima, dall'alta statura insolita fra le donne di L., e un'aria fanciullesca negli occhi celesti, gli lanciò una lunga occhiata. Successivamente, andate più avanti, nei punti in cui la via si restringeva per far posto ai bassi alberelli di oleandri, essa fingeva di cedere il passo alle altre due e, restata indietro, si voltava a guardarlo. Il contino Danilo decise di seguirla. Le tre donne entrarono nel portone di una casa dagli alti balconi, in una via del centro. Dovrà pur affacciarsi, pensava il contino, mentre, fermatosi sull'angolo, guardava gli angelotti barocchi di una chiesa cercare di spiccar goffi voli nel cielo che appariva dietro i balconi. Non notò quindi una bambina che gli si avvicinava e che, messagli frettolosamente in mano una lettera, che egli prese, fuggì. Apparve in quella, su uno di quei balconi, svettando fra gli angeli dei fastigi, l'alta figura in nero, che salutatolo col capo sparì. La lettera diceva: "Signore. So che è molto tempo che mi segue. lo son pronta a corrispondere il suo amore. Ma non mi faccia soffrire, perchè sono orfana di padre. Se vuole, può darmi una risposta domani sera dopo la predica nella chiesa di San Luigi. Sua Pina". Il contino lodò l'astuzia con cui la ingenua orfanella fingeva che egli l'avesse seguita da tanto tempo quando era la prima volta che la vedeva (doveva esser spuntata dopo l'invernata come un'altissima spiga), ma non il verbo "soffrire". "Bah! Soffrire, poi!" Non gli sembrava davvero di buon auspicio, e benchè l'avventurosa recluta ne contemplasse il rischio solo per sè, egli considerava la sofferenza un morbo contagioso che avrebbe potuto infettare anche lui. Alla larga! E anche il modo in cui avrebbe dovuto rispondere (e probabilmente seguitare a vederla) lo aduggiava. Si trattava di ascoltare lo sproloquio interminabile di un predicatore, e poi, nella confusione dell'uscita, fingere di trovarsi come per caso accanto alla ragazza (o la ragazza accanto al giovane) e lì, lasciar cadere il biglietto nella mano ripiegata a mestolo, pronta a uncinarlo.
Il contino Danilo non amava davvero quei mondo di finestre e biglietti, di corteggiamenti a distanza (magari in chiesa), di sospiri, che dell'amore gli pareva non fosse che una pallida ombra; se vi si era adattato, era stato per non lasciare il poco per il nulla. Ma la sua fantasia e la sua morale leggera, da operetta, vi avevano introdotto una variante numerica: invece di innamorarsi di una sola alla volta, ne amava tre o quattro contemporaneamente. Ma gli davano tutte lo stesso tuffo al cuore se le vedeva affacciate alle loro finestre o se per caso le incontrava in pubblico, ahimè accompagnate. Pensando a loro, separatamente, giacchè mai l'una sconfinava nel pensiero di un'altra, la tenerezza gli avvampava la nuca sottile. Sognava di incontrarla e di poterla avvicinare ma sempre in modi favolosi: trasformarsi in rampicante, edera o gelsomino o bugainvillea e montare fino alle loro finestre, entrar nella stanza e accarezzarle coi suoi mille rametti o, una volta lì, tornare a esser quello che era e abbracciarle, restandovi tutta la notte; o mutarsi in uno di quei folletti domestici che di notte intricano le code delle cavalle e le chiome femminili, e, nascosto dietro una porta, udire le loro voci, i loro discorsi; e aver la fortuna di sentir pronunziare il proprio nome, magari nel sonno. Immaginava pubbliche calamità o pericoli dai quali egli soltanto avrebbe potuto salvarle, e le salvava infatti; o deserti o paurose foreste, su cui gravava l'incubo di un evento o un mostro sconosciuto, che egli affrontava per loro.
Benchè tali manifestazioni abbiano mollo in comune con l'amore, quando passava, nei suoi giri mattutini, davanti alle finestre delle donne che occupavano in quei momento il suo cuore, egli era più simile a un proprietario terriero che diariamente, in calesse, visitasse alcune sue terre, lontane fra loro, per sorvegliarle e al tempo stesso gioire di quel vincolo d'appartenenza; o a un sovrano, o a un generale che passasse in rassegna giornaliera un esercito, in verità piccolissimo, per assicurarsi della sua fedeltà. Gli sarebbe piaciuto avere un cavallo, un bel cavallo bruno, con cui caracollare nelle vie in cui era dislocato il suo tenero manipolo. Ma questo sogno equestre, che avrebbe rappresentato una sfida per quella città folle e pettegola, nonchè pei suoi lastrici avvallati e sconnessi, rivelava nei sentimenti amorosi di Danilo una dose, se non preponderante, certamente eccessiva di vanità. Questo manipoletto, che in altre epoche aveva oscillato fra i quattro o i cinque membri, all'epoca dei fatti che si narrano si restringeva a tre ragazze, ma queste tre erano talmente dissimili che non è possibile dire se tale diversità fosse dovuta al caso o a un disegno segreto del cuore di Danilo.
La sua prima visita era per Adele Z., che egli chiamava impropriamente dentro di sè la sua stella del mattino, benchè fossero le undici in punto l'ora in cui passava, sicuro di vederla davanti alla sua casa. Inoltre non proveniva, dall'astro lontano, e appannato dai vetri della finestra e il buio dell'interno, nessun particolare splendore, ma piuttosto dai suoi occhi d'un marrone dorato ombre e malinconie, che Danilo non sapeva se attribuire all'indole di lei o al fatto che essa soffrisse per la distanza che li separava. Preferiva naturalmente quest'ultima spiegazione che faceva di lui la causa di quella delicata e un po' torbida tristezza, non priva in tal caso di gioiose promesse. Essa rispondeva con un lento cenno del capo al suo saluto, e intanto i suoi occhi le si facevano più grandi come per stringerlo, per attirarlo fino a lei. Pareva tuttavia a Danilo di sentir battere in quegli sguardi un'ala d'infinito, cosicchè, commosso, dopo un poco, temendo che l'intensità di quei non ben chiari discorsi oculari, non potendo andar oltre, si sciupasse nella stanchezza delle repliche, se ne andava. Ne custodiva a lungo il turbamento, e mentre si dirigeva verso la casa di Fernanda gli occhi di Adele gli danzavano dentro dappertutto. I capelli rossi e le lentiggini di Fernanda incendiavano la piccola via sbilenca dov'era la sua casa settecentesca, via che di lì a poco un pilastrino ostruiva ai veicoli. Vi pioveva, e angosciava Danilo, un coro a gola spiegata da un ospizio di orfane invisibili che lavoravano o imparavano a lavorare da sarte, e se anche la canzone in sè non era mesta, la rendeva tale la sincronia di quel coro di recluse, avvezza a cantare insieme e a considerare quello l'unico sfogo alla loro vita. Fernanda lo salutava per prima, con un rapido cenno del capo, con la festosità di una cagnetta di razza che scorge da lontano il suo padrone, e pareva a Danilo di avvertire mille esclamazioni senza suono in quegli occhi su cui le palpebre si alzavano e si abbassavano di colpo; ma a osservar bene quello sguardo e soprattutto il suo sorriso, non sfuggiva a Danilo un segno di stanchezza e di ironia verso tutto l'ambiente di cui erano entrambi e immeritatamente prigionieri; e del quale egli era l'unica eccezione, il solo che essa salvasse; facesse dunque qualcosa. Ma che cosa? Danilo non sapeva da dove cominciare, pur sapendo che Fernanda aveva molti corteggiatori, non soltanto giovani, che passavano di lì o cercavano in mille modi di conoscerla o di fidanzarsi con lei, e si aspettava che il caso, che gli aveva offerto quel successo, s'incaricasse di fare il resto, abbattendo la barriera che li divideva, e questo, pur scoprendo negli occhi di lei un riprovero tenero e burlone, per la sua inazione.
La sua terza visita era per l'Anonima. Non molto tempo prima, passando per una piazzetta stranamente popolata, nel bel mezzo di tranquille vie signorili, di bottegucce di sarti, di falegnami, di doratori, di cartapestai, coi garzoni che accendevano fuori un fuoco di trucioli o provavano con uno scatto il filo delle forbici, s'era sentito attrarre fortemente lo sguardo verso una finestruccia quadrata, seminascosta, da cui lo guardava con aria burlona una ragazza. Aveva gli occhi dalle pupille immense e nerissime e non meno neri i capelli raccolti dietro la nuca, in un viso di latte, E quelle pupille lo fissavano con aria sfrontata e spavalda, come se gli gettassero una sfida. Il contino Danilo avrebbe voluto comprendere che significato aveva quella sfida senz'amore lanciatagli da quella finestruccia che non aveva mai notato prima. Ma la scomodità della piazza non si prestava a lunghe soste, e, dopo avervi oziato per un ragionevole spazio di tempo, se ne andò. Il giorno dopo, passando alla stessa ora, la rivide affacciata, e nulla era mutato nella sua espressione, nè mutò nei giorni seguenti, in cui però essa non mancò mai di farsi trovare all'appuntamento. Mentre il contino avanzava col naso in aria a scrutare, a cercar di vincere, di ammansire con gli occhi quegli umori nemici, quella contraddizione che era in lei, si sentiva fastidiosamente chiamato a cenni da persone che erano nella piazza, santi e madonne o ancora in scheletri rivestiti di carta o in candida cartapesta già passata a gesso, con le occhiaie vuote, che facevano a gara a benedirlo o ammonirlo con la destra levata o a invitarlo enfaticamente a esultanze e resurrezioni. li contino Danilo lasciava la piazza reso inquieto e scontento dall'ostilità di quegli occhi nonchè dal formicolare di garzoni e di quei santi frenetici. Certo il suo itinerario sarebbe stato assai più confacente e armonioso se fosse stato completamente invertito, e incominciando dall'Anonima, fosse finito a Adele, facendogli serbare più a lungo l'immagine più grata, ma non c'era modo di alterar l'ordine dei suoi giri senza il timore di perderle entrambe.
- Avrei io dunque tre anime? - chiedeva Danilo al suo anziano amico Trenta, ligure alto e asciutto, funzionario della Prefettura di L., ma in passato ufficiale di marina. Passeggiavano spesso conversando nella pace notturna dei vicoli, se a volte non la rompeva in lontananza il gorgheggio o l'acuto di una romanza d'opera d'un aspirante alla gloria canora, che da quel palcoscenico notturno cercava di farsi scoprire da qualche intenditore o impresario, di cui L. è piena, a imitazione della biografia del Grande Usignolo, figlio e vanto della città, che, giovane e povero, s'era messo a cantare un pezzo dei Pagliacci per la via, nascosto dietro un portone chiuso a metà, o altri dicono che lo udirono cantare nella bottega d'un falegname, di cui era garzone: e questi furono i primi passi dei suoi trionfi.
- Avrei io dunque tre anime? - chiedeva il contino non tanto al dottor Trenta quanto a se stesso -, se son capace di amare contemporaneamente tre donne non dirò solo diverse, ma distinte al punto da incarnare tre concetti ideali opposti e inconciliabili della femminilità? O, per uscir dal vago, queste tre donne che ben potrebbero rappresentare tre aspetti così diversi come il sentimento, l'intelligenza e la carne, son tali che la scelta di una di esse dovrebbe automaticamente escludere le altre due. Dunque sono io che non so quel che voglio!
Prodigo di consigli in altri campi, Trenta non lo era affatto in questo; taceva: osservava Danilo aggirarsi tumultuosamente come un leoncino affamato di ideali e di corpi in un bianco labirinto d'occhi e di trappole mortali, con la tenera ansia di sapere che cosa egli fosse, e che cos'era il mondo per lui, e lui per il mondo; e la propria esperienza gli diceva con tristezza l'inutilità, anzi l'impossibilità di raggiungerlo con la propria voce; era come un voler parlare a un marinaio di una nave che passa all'orizzonte. Forse la sua stessa amicizia per Danilo non era altro che un modo di rivivere pallidamente la propria giovinezza, e di questa, quel bene che ora gli sembrava tale e che ora gli sembrava il più prezioso di essa: la felice inesperienza, il no saber, la cieca e folle urgenza di rivoltolare la propria anima per cercar di discernere il destino. E come dunque avrebbe potuto dir nulla a Danilo?
- E, d'altra parte, perchè non dovrei poter amare tutte le donne? Le belle, naturalmente. La città non è così grande che in una giornata non si possa fare il giro delle sue belle. Perchè questa limitazione a tre, o al massimo a quattro, questa sazietà che provo, superato tale numero?
- Legga il Don Giovanni di Molière, i libretti di Da Ponte per Mozart - gli aveva detto Trenta una volta; ma egli in cuor suo aveva respinto il consiglio, geloso di tutto ciò che avrebbe potuto farlo apparire non unico, e non unicamente suo ciò che gli si agitava dentro.

CAPITOLO II
Non erano meno complessi i problemi in cui si dibatteva il contino riguardo al gioco.
- Tutte le notti - diceva a Trenta - parto con un fioretto alla conquista del mondo, e invece è una sciabola di latta.
Il contino Danilo era squattrinato ma, natura vincente e esperto in ogni gioco, come tutti i giovani bennati della città, tutte le notti, giocando ore e ore a tavoli di poker o di bridge o di ramino o di écarté e persino di mah-jong (dovunque la posta fosse alta) finiva col metter su una sommetta, un fiorellino con cui, a notte alta, si accostava ai tavoli del Grande Gioco, baccarat o zecchinetta; qui la fortuna gli voltava inesorabilmente le spalle, beffandosi delle sue intuizioni e delle sue speculazioni sull'andamento del gioco e lasciandolo ben presto al verde non solo del danaro, che era poco e in fin dei conti non suo, ma delle sue speranze.
- Se pare nottata di paroli, non appena punto io, escono un colpo dentro e uno fuori; il gioco pare orientato verso i colpi alterni, se punto io, si rompe il calepino e escono i paroli. Ho da concludere che io spreco miseramente la mia parte di fortuna in quei giochini, in quel piccolo cabotaggio che son costretto a fare nella prima parte della nottata e delle cui vincite ho d'altronde bisogno? Oh, se potessi, ma non vedo come, attaccare direttamente ai tavoli dell'avventura!
- Se lei conservasse tutto il danaro che vince ogni notte nei giochi minori, in capo a un anno sarebbe come se avesse decuplicato un banco di baccarat. - Sarebbe come se mi rassegnassi; senza prima aver tentato tutto, alla mediocrità della sorte.
- Ma lei non vuoi fare lo scrittore?
- Sì, ma non qui. Qui non è possibile far nulla. No, devo vincere, vincer molto e partire.
Per parlare dei suoi problemi col gioco egli aveva trovato in Ics un ascoltatore meno disattento. Nella spietatezza che regolava le sale dei giochi d'azzardo, Danilo aveva scoperto due eccezioni ormai diventate rigoroso costume. La prima era costituita dagli argentieri: erano due anziani signori distintissimi che seguivano, ciascuno per proprio conto, il gioco per ore e ore senza mai puntare finchè, se c'era un banco in forte vincita e sul punto di alzarsi, appena giungeva una battuta a favore della mano, con uno scatto fulmineo dell'unghia dell'indice spingevano avanti una piccola moneta d'argento, facendola posare tra il danaro puntato e quindi da pagare. Nessuno mai mostrava di accorgersene, nemmeno il giocatore che era al banco e ai cui danni si esercitava quel balzo. Danilo poi seppe che erano due nobili decaduti che avevano perso la loro fortuna al gioco; ad essi i banchi in vincita concedevano quella piccola argentea pensione. La seconda eccezione era il signor Ics, benchè il caso fosse alquanto diverso dal primo. A volte, mentre si raccoglievano le quote per formare un banco, arrivava un cameriere e diceva: - Ics, cinquanta. La somma troppo piccola e soprattutto fastidiosissima per il conteggio delle percentuali in caso di vincita, o in caso che vi fosse comunque del danaro da dividere alla fine del banco, sarebbe stata certamente respinta se fosse venuta da chiunque altro; mostravano invece per Ics simpatia e riguardo, e vi era subito una gara fra gli azionisti più grossi per prendere la sua quota nella propria. Danilo scoprì chi era Ics per caso. C'era talvolta in un salottino attiguo alle sale da gioco, dove alle signore non era permesso di entrare (probabilmente per tener lontane le mogli dei giocatori), una vecchia settantenne straordinaria; ancora diritta e agile, solo il viso, senza trucco le si era rimpicciolito e la pelle tirata sulle ossa, ma vi aleggiava uno strano lucore grigiastro, che sembrava venirle da dentro, così come la luce negli occhi celesti e penetranti. Si diceva che essa fosse stata per molti anni l'amica di T.L., uno degli scrittori più eleganti, e fra i prediletti di Danilo, e che si fosse giocato ai tavoli di poker e di roulette di Sanremo due famose ville in Toscana. Ora veniva ogni tanto a L. a trovare un nipote.
- Lei, Danilo - diceva -, è il giocatore più giovane. Che bello! Bisogna che vi siano sempre delle facce giovani ai tavoli da gioco. Il gioco è una religione che ha sempre bisogno di nuovi sacerdoti. Scommetto che lei conosce molti vecchi giocatori ipocriti che le fanno la predica ogni notte (specie se hanno perduto), esortandola a abbandonare le carte.
Era così. Mentre conversavamo veniva ogni tanto un cameriere a dar ragguagli sui banchi che si formavano.
- Forse io non sono un giocatore. O forse è che ho poco da puntare. Vi son di quelli che gettano via per caso un fiammifero semispento e subito piglia fuoco, ne nasce un incendio; io tutte le notti accendo il mio fuocherello, con mille accorgimenti per farlo durare, e invece mi va tutto in fumo. Vorrei proprio capire se le carte son le figure della nostra vita, se il fatto che esca una vista anzichè un nove, sia già scritto, già prestabilito in noi; giacchè non posso pensare che vi sia un dio, o un diavolo, che si prenda la briga di coordinare la successione dei colpi alle nostre colpe o ai nostri meriti.
- Tommasino diceva - e lo citava come un'autorità non della narrativa ma del gioco - che il Vero giocatore è colui che sa perdere. Chi vince non è nulla, diceva.
In quel momento entrò il cameriere di prima e disse: - Va a banco B., donna Maria.
- E' una natura fortunata. Tenete - e gli affidò un biglietto da cinquanta lire. Dunque Ics era lei.
- Sì, Tommasino diceva: chi vince non ha nulla. - Poc'anzi ha detto: non è nulla. - Non è nulla, non ha nulla. Non ricordo più. Forse è lo stesso.
Danilo restava un po' deluso. Questo non l'aiutava nella sua assurda pretesa di leggere cartomanticamente il proprio destino e magari di prevederlo dalle carte da gioco.
- Peccato che non l'abbia conosciuto prima. Si giocava molto a casa mia, quando avevo una casa. E le avrei presentato molta gente. Ma un giorno faremo assieme un banco di baccarat: io metterò cinquanta lire e lei il resto -e rideva solo con gli occhi, come una ragazzina.
Benchè di notte le vicende del gioco cancellassero le stagioni, di giorno era esplosa una primavera corta e violenta, di quelle che fanno fiorire in una notte garofani, gerani e gelsomini, e delirare le corrose cariatidi dei balconi, e i santi di cartapesta sospesi a asciugare contro un muro al sole con la folle enfasi dei gesti. Il contino Danilo passava sotto la casa dell'Anonima, non la trovò alla finestra, ma la scorse poi affacciata a un terrazzino fra i vasi dei garofani fioriti. Quando le fu più vicino, essa gli fece un gesto d'invito, indicandogli il portone. Quando salì, ed essa gli aperse la porta, si trovò di fronte l'abnorme e fantastica Sparami-in-petto, favola e rabbia di tutti i giovani della città, che nella non mai veduta abbondanza e sodezza delle sue mammelle riconoscevano una manna celeste per la loro fame ancestrale; nient'affatto turbati 'ma anzi esaltati nella loro immaginazione di quella proporzione mostruosa, che prometteva la prolungata e quasi interminabile delizia dei giganteschi dolcissimi dolci di pasta di mandorla o di ricotta e zucchero, vanto della città. Così con un lento assaporamento di quella dolcezza spropositata, di quegli abbracci coi quali pareva che fosse la terra stessa a avvinghiarlo, ed egli vi affondava il capo, muovendolo per sentirne il contatto da ogni lato del viso, il contino Danilo avrebbe voluto seguitare senza fine, ma Spararmi-in-petto lo avvertì che doveva andarsene, che suo padre stava per tornare da un momento all'altro. Mentre si rivestivano, e il contino pregava la sua memoria di non scordar nulla di quel bianco lampeggiamento del suo grande corpo, le chiese quando avrebbero potuto stare di nuovo insieme.
- Mai più. Sono fidanzata. - Con chi? - Con un ufficiale forestiero.
Allora Danilo si ricordò di un ufficialetto che qualche volta aveva visto aggirarsi per la piazzetta, piccolino, con le braccia lunghe e cascanti che ne rendevano l'andatura un po' scimmiesca.
- Con quel cercopiteco?
- Sì - rispose Sparami-in-petto con una grande risata -, con quel cercopiteco.
- Perchè mi hai chiamato? - ed era già per le scale. - Per punirti. O per premiarti.
E poi conclusivamente: - O forse per divertirmi.
Quando uscì inciampò in un paio di statue, una Giovanna d'Arco con tunica e corazza e un San Rocco col cane, non ancora dipinte, ma questa volta avrebbe voluto abbracciarle. Lasciata la piazza, si addentrò in un dedalo di viuzze candide di calce e folli, come se le case vi fossero sorte da sole seguendo un capriccioso disordine, con porte a mezz'aria, balconcini senza ringhiera e scalini che non portavano a nessuna parte; il bianco della calce e il silenzio non rotto ma solo carezzato ogni tanto dal ronzio di una macchina da cucire, gli pareva che gli preservassero meglio sulla pelle il ricordo del corpo della Sparami-in-petto. Pensava anche che l'equilibrata economia dei suoi amori poteva esser messa in pericolo da ciò che era avvenuto. Ma non sapeva in qual modo. Oh, se anche Adele, se anche Fernanda l'avessero un giorno chiamato con un cenno, invitandolo a salire! Per parlare, non foss'altro che per parlare. Quella notte passeggiava con Trenta lungo le mura. All'altezza di Porta S. Biagio, dove dal monumento ai Caduti boccheggiava in una sfera sudicia e polverosa una luce giallognola, tre uomini in divisa si avvicinarono.
- Il conte Danilo? - Sono io.
L'ufficiale che era in mezzo, un tenente, gli si accostò e lo afferrò per i risvolti, scuotendolo.
- lo sono il cercopiteco.
Il contino si sbarazzò della presa e scaraventò in terra l'ufficiale, cadendogli sopra. Quando si rialzò, l'ufficiale gli diede il suo biglietto da visita.
- Sta bene - rispose meccanicamente il contino, come recitando -. Domani riceverete i miei padrini.
Andarono via. Trenta chiese:
- Possiamo andare in casa sua senza esser disturbali? - sì.
Una volta in casa, il dottor Trenta disse:
- Mani non ne aveva? Se gli avesse dato tre o quattro pugni quando lo teneva sotto, il duello non ci sarebbe, perchè un ufficiale non può farsi picchiare. E se si fa picchiare, non può chiedere soddisfazione.
Il contino Danilo sentì con stupore che chi gli parlava non era più il funzionario prefettizio ma l'ufficiale di marina. Ammise il proprio errore, dovuto a inesperienza, ma ormai era stato sfidato e doveva andare avanti.
- Lei vuoi fare veramente questo duello? - Sì.
- Sarà difficile che possa farsi, dato il motivo. Come possono un gentiluomo e un ufficiale chiedere a dei padrini di rappresentarli in una vertenza che ha per origine e per causa la Sparami-in-petto? Bisogna inventare un altro motivo.
E qui propose un ingarbugliato equivoco da cui sarebbe stato provocato l'incidente.
- Vado subito a parlare all'ufficiale e a suggerirgli questa versione. - Ma lui sarà d'accordo?
- Lui non corre solo il rischio di vedersi deriso da tutta la città, come lei, ma i suoi superiori, non appena sentiranno che ha provocato questo incidente per una sgualdrina, lo metteranno agli arresti. Lei sa tirare di scherma, no?
- Sì, un poco.
- Bene. Anche lui come ufficiale dovrà saperne, cosicchè, se è nel primo sangue, ve la caverete con uno sgraffio.
Poi già sulla porta aggiunse: - Non scelga fra i padrini il colonnello Z., o vi farò sbudellare.
Il colonnello Z. era il padre di Delia. Il ricordo di lei irruppe in quelle immagini da macelleria, addolcendole e contraddicendole. Andò a letto e si addormentò pensando a lei, pensando e sperando di essere stato ferito e nel candore d'un letto d'ospedale, dove giaceva, essa gli si accostava dapprima come in sogno che poi si riconosce che è vero. E infine gli parlasse con una voce che non conosceva ancora, ma simile ai suoi occhi, e poi dicesse...
L'indomani si alzò di buon'ora e andò a trovare due amici, un avvocato e un ingegnere, e li pregò di fargli da secondi. Trenta come funzionario pubblico non poteva. Essi tuttavia si recarono da lui per udirlo come testimone dei fatti, ed egli ripetè la versione che egli stesso aveva inventato (e su cui l'ufficiale si era dichiarato d'accordo). I due secondi, dopo aver accettalo formalmente l'incarico, lo ammonirono di non far parola dell'accaduto con anima viva e di evitare ogni contatto anche carnale con l'avversario. Doveva addirittura uscire da un locale pubblico se l'altro vi si trovava. Vennero poi ad avvertire che si sarebbero incontrati coi secondi dell'avversario, due colonnelli, quella notte stessa alle nove al Circolo, in una sala della foresteria; egli si tenesse lì pronto da quell'ora al vicino caffè delle Due Pile, dove poi gli sarebbero state comunicate le decisioni.
Mentre aspettava che venissero ad annunziargli, magari: domattina, alle sei ecc., provò a considerare che poteva anche venire ucciso; ma nonostante il tenero capitale degli occhi di Adele e, in minor grado, di quelli di Fernanda, sentiva che la perdita vera sarebbe stata quella del grande banco della sua vita, che comprendeva viaggi e paesi sconosciuti, incontri straordinari, libri da leggere o libri che avrebbero forse scritto, ma la cui posta finale era conoscere la vita, tutta la vita, capirla, e così, grazie alla sua conquistata verità, essere qualcuno diverso dal giovane contino, leggero figlio dell'aria e superficiale in tutto fuorchè nel fatto di rendersene conto; ma intanto, per non smentirsi, diceva cinicamente a se stesso: Che levataccia mi toccherà fare domani!
Poichè il caffè chiudeva alle undici, dovette passeggiare fuori, sotto i portici, per più di un'ora prima che i padrini comparissero:
- Non s'è deciso nulla - gli dissero frettolosamente -. Ci riuniamo di nuovo domani alla stessa ora.
- Perchè?
- Non siamo riusciti a metterci d'accordo sull'offeso e l'offensore. - Che importanza ha?
- L'offeso sceglie l'arena. E corsero a rincasare.
L'indomani tutta la città era elettrizzata dalla notizia del duello; per le vie la gente interrompeva i discorsi e si voltava a guardarlo sovreccitata; in realtà anche la notte precedente nel caffè delle Due Pile egli aveva avuto la sensazione che camerieri e clienti lo guardassero in modo particolare, ma aveva respinto da sè l'idea che potessero sapere. Ma ora non era più possibile alcun dubbio. Che sia stato l'altro, chiedeva con sdegno. O i miei o i suoi padrini? Ma gli sembrava impossibile.
Molti amici gli si avvicinavano per spiarlo o facevano allusioni un po' alla larga; finchè da uno di essi, che affrontò direttamente l'argomento, riuscì a scoprire la fonte della notizia.
- Allora questo duello si fa o non si fa? - Che duello?
- Ma via, non far lo gnorri! Lo sa tutta la città. Sei l'uomo del giorno. Non si parla d'altro che di le. L'unico punto oscuro è il nome della donna per cui vi battete.
Il particolare della donna, noto solo a lui, all'altro e a Trenta, pareva far ricercare fra loro il violatore del segreto.
- lo vorrei sapere - chiese Danilo - chi è quel pazzo che può aver messo in giro queste voci.
- E' semplicissimo. La commessa di una libreria nota che, poco dopo l'apertura del negozio, il contino Danilo e il tenente De Bonis vanno a chiedere e acquistano il Codice cavalleresco del Gelli; lo fa osservare al libraio, il quale ne parla coi suoi clienti e i negozianti vicini. Che altro possono dedurre se non che il contino e il tenente, giovani vagheggini e teste calde, si battono per una donna? Basta saper sommare due più due. E per giunta altri signori nella stessa giornata vanno a chiedere in quella o in altre librerie lo stesso libro, che a Lecce non si vendeva più dal tempo dell'ultimo duello.
- La commessa può aver fatto confusione di persona. lo non so nulla.

CAPITOLO III
La sera addolciva gli angoli della bocca delle donne; la sera arrotondava la pena dei tufi, accendeva un sogno negli alti gladioli rossi. Danilo si preparava ad andare al suo lungo appuntamento al caffé, che si concluse come la notte precedente.
La mattina dopo Danilo notò dì fronte alla sua porta un carabiniere dall'aria distratta. Andò per le sue visite amorose e trovò solo Delia che lo guardò con tristezza come per un addio. E tale fu infatti, perchè non si affacciò più gli altri giorni nè Danilo riuscì più a vederla passando in ore diverse davanti alla sua casa. Sparita anche la Capucci; dall'ex anonima, dalla Sparami-in-petto non passava più per punirla della sua slealtà. Come poteva Delia averlo lascialo? Perchè? Egli lo attribuì dapprima alla gelosia poi gli venne in mente che essa poteva aver paura dello scandalo, potendo venir additata ingiustamente come l'origine della sfida da una città smaniosa di dare a questa un nome e un volto di donna, possibilmente conosciuti.
Mentre era assorto in questi pensieri bussò alla sua porta un carabiniere pregandolo con inconsueta e imbarazzata cortesia di voler andare a trovare il maggiore A.. Vi andò. li maggiore lo accolse in un salottino, lo fece sedere su una poltrona ottocentesca.
- Mi scusi se mi son permesso di pregarla di venirmi a trovare. Corre voce in città che stia per avere luogo un duello.
- Non ne so nulla.
- Lei è un gentiluomo, e pertanto io devo credere alla sua parola. Ma, essendo un gentiluomo, se fosse coinvolto in un duello le leggi d'onore le proibirebbero di venirmelo a dire.
- Infatti.
- lo devo avvertirla (ma solo per il caso che tali voci fossero vere) che la legge di cui io sono esecutore non riconosce le leggi d'onore e che per essa chi fa un duello commette un reato, sia egli offeso o offensore.
Divertito dalla diplomazia del maggiore, Danilo lo salutò ringraziandolo di quelle informazioni anche se comunque non lo riguardavano direttamente.
La notte andò al caffè ad aspettare. Trenta lo raggiunse e gli comunicò delle notizie che aveva potuto cogliere. Nella falsa ricostruzione delle cause che egli aveva suggerito per togliere di scena la Sparami-in-petto aveva avuto cura di dosare perfettamente la responsabilità dell'equivoco. Lo stesso pareggio di responsabilità i padrini riscontravano nell'incidente vero e proprio.
- Ma c'è la sfida.
- Infatti gli uni sostengono che lo sfidante è l'offensore, gli altri invece che lo sfidante aveva subito delle vie di fatto e quindi deve considerarsi l'offeso. Sono in posizione di stallo, e non vedono come venirne fuori. Qualcuno ha proposto di nominare un giurì d'onore.
- Ed è questo che stanno a discutere tre ore ogni notte?
- Oh, no. Dopo un poco passano nelle sale da gioco e si mettono a giocare a poker. - E io che non posso più andare a giocare.
La notte al caffè avevo rinnovato l'amicizia con uno scultore di ferro battuto, Andrea, un uomo dallo sguardo dolce tormentato su dei lineamenti e una bianca carnagione da nobile beduino. Allievo d'un maestro assai noto, al suo rientro a Lecce aveva capito che i suoi crocefissi, i suoi piatti sbalzati non interessavano nessuno; così aveva aperto una bottega con molti operai e fabbricava porte, cancelli, grate, balconi, alari e parafuoco per tutti i ricchi che non pensavano si potesse costruire o restaurare o comunque modificare una casa senza quei suoi ferri cromati di verde, che rappresentavano con uno stile sciolto e arioso fughe di foglie e fiori sormontati da uccellini che col becco aperto e levato in alto davan l'illusione di cantare.
Andrea lo aveva preso in simpatia e lo invitò una sera a cenare con lui in casa della sua amica, ma il contino Danilo non potè, vincolato com'era dall'appuntamento notturno coi secondi; fu nominato un giurì d'onore, composto da due generali, uno per parte. Questi si riunirono, anch'essi al Circolo dei Nobili, e per prima cosa misero a verbale un preambolo in cui si recriminava, che mentre la patria era in armi, dimostrando scarsa sensibilità patriottica, un ufficiale e un borghese nelle retrovie ecc.: benchè non si potesse parlare propriamente di retrovie, perchè la guerra era nientemeno che in Abissinia, e i soldati sfilavano cantando:

Faccetta nera
dell'Abissinia,
aspetta e spera
che già l'ora si avvicina.
Quando saremo
vicino a te,
noi ti daremo
un altro Duce e un altro Re.

Dopo di che caddero a loro volta nella pania di quei garbuglio di ragioni e torti; e inciampati soprattutto nell'intoppo di quell'equilibrio fra vie di fatto e biglietto di sfida, aggiornarono la seduta e scesero a giocare nella sala dei biliardi a carambola.
Disoccupato nell'amore e nel gioco - coi padrini e il giurì d'onore ormai insediati nel suo Circolo -, stanco delle scaltre occhiate dei suoi concittadini, che cercavano di leggere in lui (e forse vi riuscivano) i grotteschi sviluppi della sua vertenza, il contino Danilo abbandonò il viale lungo le mura che costituiva il confine delle loro passeggiate, e cominciò a perdersi per la campagna circostante, che cominciava dopo poche case e lì, fra strade e viottoli polverosi, incontrò l'antico incubo della sua adolescenza, (e che credeva perduto con essa), il vuoto regno di polvere, di scogli e di pietre, da cui attratto e inorridito molte mattine non andava a scuola per percorrerlo per molti chilometri in ogni senso, nella speranza sempre delusa di trovare in qualche angolo un po' di verde che non fosse qualche ulivo selvatico intristito o un fico dalle braccia nude e morte; ogni parte da cui s'affacciava si lasciava scoprire la pianura fino a un remoto orizzonte, fittamente segnata, come un reticolo, da muretti di pietre delimitanti le proprietà. Ma che proprietà erano mai! Se non era qualche basso vigneto, il colore dei suoi grappoli non si poteva distinguere per la polvere, erano scogli, pietre di cui pareva ne spuntassero sempre di nuove cosicchè il contadino talora tentava di riunirle in un angolo, ma poi scoraggiato di quella loro moltiplicazione lasciava lì il mucchio appena iniziato. Danilo notò una proprietà appena più grande di una coperta, ma ben recinta da ogni parte da muretti, e centro non v'era altro che uno scoglio. In certi punti la pianura con tutti quei muretti che la percorrevano dividendola, era assai più morta d'una mappa catastale, e Danilo chiedeva inutilmente qualche conforto a un fiore incolore di uno sterpo o a un rosolaccio. E se guardava all'orizzonte, ciò che poteva ben fare perchè non vi era mai nulla che si frapponesse allo sguardo, ciò che vedeva erano altre pietre, le case bianche dei paesi, che avrebbe forse potuto amare se l'ossessione di tutto quei desolante pietrume non glielo avesse impedito. Si alzava da alcune di quelle martoriate prospettive, senza voce nel silenzio e nella solitudine, un doloroso appello come di un dio, un dio umano che mostra il suo corpo strazialo dalle ferite, dalle piaghe, le labbra secche e sitibonde, o era il senso del vuoto, del nulla personificati che imploravano da lui, proprio dall'adolescente Danilo, un soccorso qualsivoglia. Più volte, saltando le noiose lezioni del liceo, camminava per ore e ore in cerca di qualche segno di vita -un orto di piselli o di cicorie, l'abbaiare d'un cane, una campanula bianca, o il canto di due o tre cicale - per alleviare in sè quell'angoscia e corrispondere in qualche modo almeno una cosina, una briciola di ciò che gli veniva richiesto.
Ora il contino Danilo, ritornando per gli antichi itinerari, si ritrovò davanti lo spettro della sua adolescenza. Spinto dal suo desiderio di azione, progettò di acquistare - che cosa poteva mai costare un campo di sassi? - uno di quei suoli pei quali gli sembrava che uno spirito pietoso potesse operare un (relativo) miracolo; toglier le pietre, far dissodare la terra intorno agli scogli e comprarne altra (o rubarla e portarla a sacchetti, ma da dove?) e piantarvi alberi d'alto fusto: abeti, cedri, pini, eucalipti (ma non dimenticarsi dei teneri salici) e ricoprire gli scogli con limoni cresciuti in cassette di legno o in grandi vasi di terracotta e piante di fiori ovunque fosse possibile; e una parete di alti girasoli; pensò anche di rialzare i muretti ad evitare che venisse a rubargli la terra il vento, a cui forse l'incuria beata della sua gente, strappando o lasciando morire gli alberi, doveva aver consentito di scoperchiarla, fino a non lasciare che sassi e scogli. Pensò anche ai ferri battuti di Andrea, e questa volta ne considerò il successo in un'altra luce, come riprova dell'assurdità dei leccesi, che preferivano finti intrichi di foglie e finti uccellini verdi mentre essi e i loro avi avevan lasciato morire la natura. Ma poteva chiedere a Andrea di fargli costruire un corridoio ad arco e una bercense, nudi senza decorazioni floreali, da ricoprire di edera e di vite americana (qual'è che cresce più in fretta?).
Il progetto di Andrea urlava contro due difficoltà. La prima era la sua assoluta ignoranza di agricoltura. Contava di ovviarvi leggendo molle opere di agronomia. Anche perchè Danilo contava di non arrestarsi a quei primo esperimento e poi promuovere una unione, un consorzio fra i proprietari di quei sassi per riscattarli, oppure che stimolati dal suo esempio lo facessero per conto loro.
Il dottor Trenta, a cui esponeva queste idee gli disse:
- L'azione di uno scrittore è la parola. Colmi con la parola quei vuoto che lo fa soffrire: gli dia una voce.
Ma Danilo non avrebbe saputo da dove incominciare.
L'altro ostacolo per Danilo era che per ora non disponeva di danaro. Ma non dubitava che, ora che aveva rettificato il tiro, e posto il proprio obiettivo assai più in là di un vantaggio meramente privato, la fortuna non l'avrebbe più abbandonato a metà, come aveva fatto fin qui, ammettendolo nel giro del grande gioco. E in fin dei conti, che ci voleva per acquistare un suolo così inutile e delle piante? Bastava un banco fortunato o una buona nottata alla punta.
Camminando per la pianura sotto un cielo concavo e incombente, che affermava su di essa il suo incontrastato dominio, osservava il paesaggio con occhi nuovi immaginando le trasformazioni che avrebbe subito nel volgere degli anni; prevedeva anche che i leccesi, gente dalla battuta acre, avrebbero detto di lui e della sua impresa "il fabbricante di sassi", "l'industria dei sassi". E con ciò? Non l'avrebbero certo fermato con questo! (e qui zio Giovannino)
No, non si sarebbe fatto mettere sotto i piedi dai suoi concittadini come lo zio Nilo che per loro aveva preferito morire essendo ancora vivo.


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