Sul Bodini prosatore




Donato Valli



Il "romanzo incompiuto" Il duello del contino Danilo, che qui si pubblica insieme con il racconto Il giro della mura, è una delle più organiche, ad onta del titolo, prose inedite che Bodini ci ha lasciato. Esso tuttavia non faceva parte di quel l'intenzionale libro di racconti al quale il letterato leccese attese negli ultimi anni della vita, tra mille incertezze e altrettante paure, senza purtroppo riuscire a vederlo compiuto e pubblicato. Bisogna dire per inciso che neppure la morte, e la celebrazione che s'è fatta dello scrittore nella ricorrenza dei dieci anni del suo decesso, sono valse a rompere questa congiura di privatezza creatasi intorno al Bodini prosatore, anche se non sono mancate in questa occasione rivalutazioni critiche delle prose bodiniane, in particolare di Luciana Martinelli, Michele Tondo, Anna Dolfi e A. Lucio Giannone; il quale ultimo ha di recente pubblicato un volumetto monografico sulle prime esperienze dei Bodini narratore (Bodini prima della "Luna", Lecce, Milella, 1982, tredicesimo voi. della collezione "Minima" diretta da Mario Marti). Neppure il volumetto di racconti stampato da Vanni Scheiwiller in occasione delle giornate di studio (come vennero chiamate le celebrazioni del decennale della morte), tenute presso le Università di Roma e di Lecce nel dicembre del 1980, va al di là di un affettuoso richiamo rivolto alla cultura letteraria italiana per impegnarne l'attenzione su questo risvolto importante della molteplice attività dello scrittore salentino (La lobbia di Masoliver e altri racconti a cura di Paolo Chiarini, il quale esplicitamente nella Nota ai testi parla di "un primo contributo alla ricognizione di un settore dell'opera letteraria di Vittorio Bodini - quello delle prose narrative - che attende ancora di essere adeguatamente esplorato e vagliato", p. 99). In attesa di tempi migliori, di editori coraggiosi e di critici disponibili (i quali ultimi, in verità, non mancano), non resta che appigliarsi, per rinverdirne la memoria e non lasciar cadere per sempre i progetti, quasi gravasse su di essi quelle sorte di incompiutezza che Bodini richiamava emblematicamente nel suo ultimo racconto, a queste sporadiche pubblicazioni di lacerti inediti del compatto corpo narrativo bodiniano, non senza aver chiesto doverose scuse per l'operazione di vivisezione e di smembramento, che, se è utile per il verso or ora detto, contiene sempre il rischio di solleticare nel lettore un gusto epidermico di curiosità attraverso l'esibizione di singole perle, mettendo in ombra il valore storico e culturale dell'insieme.
Nel quale insieme è possibile discernere tre grandi linee, ancorché sia difficile tracciarne con esattezza lo svolgimento, dato che esse s'aggrovigliano intorno a quell'unico momento fisso che è l'uomo-letterato Bodini, il suo modo immodificato e immodificabile d'intendere la vita e la stessa letteratura. Di queste tre linee la prima attraversa il piano dell'esperienza ermetica, vissuta dal giovane Bodini tra Lecce, Firenze e Roma; per quanto essa sia quella più vicina alla fase formativa e direi quasi di apprendistato, deposita nelle altre due la scoperta della inscindibile unione tra vita e letteratura, nel senso che nulla può accadere in questa che non sia conseguenza o previsione di eventi in quella contenuti vuoi sotto forma di memoria e di coscienza, vuoi sotto forma di sogno e di inconsapevole invenzione. Né varrà la crisi dell'ermetismo, storicamente vissuta da Bodini con pieno coinvolgimento di tutte le sue facoltà, con illusori entusiasmi e con dolorose rinuncie, a modificare nella sostanza questo ambiguo rapporto tra realtà e scrittura, da lui avvertito sempre come superamento del dato naturalistico-descrittivo e come invito a penetrare le radici dei gesti e dei fatti, ad addentare la polpa dei significati più profondi. Infatti, quando questa prima linea si annoderà con la seconda, anche cronologicamente successiva, identica rimane la spinta bodiniana a cogliere l'anima delle cose perforando la loro scorza ingannevole.
La seconda linea giace tutta sul piano della esperienza madrilena, in quanto può essere fatta coincidere completamente col gruppo, alquanto compatto e certo molto importante, delle prose di argomento spagnolo. Qui, naturalmente, Bodini rifiuta ogni nozione di folklore superficiale e tenta di impossessarsi del cuore più vivo della Spagna procedendo dal fenomeno all'essenza, alla ricerca del punto unificante di tutte le manifestazioni della vita, della cultura, della civiltà spagnole. Se gli studi di Bodini rappresentano gli strumenti impiegati per portare a compimento questa operazione; se le sue traduzioni testimoniano in maniera ineccepibile del grado di appropriazione del mondo ispanico, le prose costituiscono certo il momento in cui egli crea ed agisce dall'interno di quel mondo, partecipe della sua vita e dei suoi misteri, della sua storia e dei suoi valori. E ancora una volta, procedendo a ritroso dall'estuario delle forme esistenziali alla sorgente del gran fiume della storia, Bodini arriva a quel guado estremo in cui non solo la vita e la morte si confondono, ma anche le sorti e i destini dei popoli rivelano le loro affinità attraverso la Spagna, Bodini ritrova il Salento più vero e ricostruisce la genealogia della sua piccola patria. Siamo, così, alla terza linea, quella salentina e larica, la quale è forse la più congeniale allo scrittore anche per gli evidenti rapporti col suo mondo poetico, con il Sud borbonico e barocco dal quale era sortito e al quale ora ritorna fatto esperto delle tante vite che egli ha vissuto, dei tanti luoghi, visibili e invisibili, che egli ha visitato. A questa terza linea che, come un filo rosso, è riconoscibile nel groviglio di tutta l'esistenza bodiniana e anzi ne rende possibile, in una certa misura, il dipanamento, l'esegesi globale, appartiene appunto il "romanzo incompiuto" che qui si pubblica. Ne è un segno esterno di conferma la data della composizione, risalente all'estate del 1970, a soli tre mesi, dunque, dalla morte dello scrittore, il racconto che segue, immediatamente collegato con il duello del contino Danilo, fu pubblicalo, invece, circa dieci anni prima, precisamente su Al Mondo" del 25 luglio 1961, con il titolo Il giro delle mura. Tanto Il duello del contino Danilo quanto Il giro della mura non risultano, come s'è detto, nell'elenco della progettata raccolta di racconti che il poeta non fece in tempo a pubblicare; ciò sembra giustificare l'ipotesi di un'altra opera narrativa, una sorta di "zibaldone leccese" (per riprendere un altro titolo bodiniano), probabile raccolta e condensazione di tutte le memorie laricosalentine, di quella tribù incredibile di nonne, zii, cugini, slargantesi fino a diventare simbolo e specchio di tutto un paese, di tutto un mondo "così sgradito da doversi amare" (La luna dei Borboni, 8).
Ciò servirebbe a rendere ragione della presupposizione di autobiografismo che indubbiamente affiora dal romamzo incompiuto e dal racconto che vi è inserito; un autobiografismo da intendere, evidentemente, non in senso diaristico, né in quello di un sofficiano "giornale di bordo" ordinato a registrare fatti e occasioni di una personale vicenda, bensì nel senso più generale di un diretto coinvolgimento nella narrazione, tendente ad allargare sempre più il gioco delle parti fino a un ambiguo nodo di identificazione/straniamento con i personaggi rappresentati. In questa prospettiva non la vicenda dev'essere indiziata di autobiografismo, ma i suoi precedenti e conseguenti, l'atmosfera in cui si colloca, l'ambiente nel quale si svolge, i personaggi che via via avviluppa nel suo complicato dipanarsi, insomma quell'apriori di coordinate spaziotemporali e quella preesistenza di sentimenti e ragioni che rendono possibile il coagulo e lo svolgimento concreto del racconto. Bodini, in fondo, narra sempre un risvolto della sua anima sintonizzata sulle grandi frequenze della storia di una città familiare, amata e odiata oltre ogni retorica, e, ancora più in là, sulle onde di messaggi segreti, provenienti da galassie (sottomondi e premondi) precluse ai più, ma ben decifrabili nel sistema di un codice intuitivo di relazioni non sempre razionali.
Ma è evidente che una interpretazione del racconto esclusivamente in chiave autobiografica e salentina sarebbe riduttiva, anche se la trama, i significati, le allusioni, i personaggi, gli ambienti (a cominciare da quelli storici) ci riportano fuor di ogni dubbio a un luogo e a un tempo precisi. Si ripropone insomma nel racconto il dilemma tra regionalità e università, tra tipicità e categorialità; dilemma che non può essere risolto in favore dell'uno o dell'altro corno, bensì fondendo le due estremità in un unico complemento di realtà ossimoriche. Si scoprirà allora che la regionalità di Bodini ha una valenza universale, così come valenza categoriale hanno i tipi da lui creati: il Salento viene redento dal suo aspetto bozzettistico-naturalistico per assumere significati di rappresentazione generale e per diventare quasi l'emblema di ogni provincia, di ogni Sud condannato all'inedia e alla emarginazione; il contino Danilo diventa il rappresentante tipico di quella categoria di personaggi che hanno perso prima di lottare, quasi incombesse sul loro animo e sulla volontà una frustrazione secolare di sconfitte senza gloria e senza possibilità di riscatto.
Che anzi, tutto lo spirito del racconto-romanzo può essere racchiuso proprio nello schema esegetico d'una mancanza che non si colma, d'un desiderio che non si realizza: l'amore e il gioco, i due pilastri dell'esistenza del contino, sono un fallimento. Il primo è fatto di sguardi e di sospiri, di desideri e di fantasticherie, gli manca il complemento naturale dell'unione fisica e spirituale, non potendosi tale considerare l'avventura del contino con la Sparami-in-petto, ulteriore conferma d'irrealtà e d'impotenza ottenuta per antifrasi; il secondo è una fatalità priva di soddisfazione, regolarmente fallimentare nel punto di massima speranza, fino a diventare il sito privilegiato di progetti mai realizzabili e di redenzioni impossibili.
Ma non sono soltanto queste due attitudini ad assorbire su di sé il destino di inazione che grava sul contino e sull'intera vicenda; esso si allarga a quelli che possono essere considerati i simboli d'una patria posticcia e votata all'inconsistenza. In fondo anche la cartapesta è un surrogato di vita, tensione verso il movimento fossilizzata in un gesto, in un atteggiamento privo di evoluzione. Infatti il contino Danilo si sente "fastidiosamente chiamato a cenni da persone che erano nella piazza, santi e madonne o ancora in scheletri rivestiti di carta o in candida cartapesta già passata a gesso, con le occhiaie vuote, che facevano a gara a benedirlo o ammonirlo con la destra levata o a invitarlo enfaticamente a esultanze e resurrezioni"; ma è chiaro che quell'invito era fittizio e come tale conteneva in sé la sua sorte di inefficienza, di casualità irrisolta. (Diremo di sfuggita che quelle "occhiaie vuote" si contrappongono flagrantemente agli sguardi delle donne cresciute solo negli occhi e prive di altri gesti che non siano impercettibili segni del capo; mentre i gesti enfatici delle statue di cartapesta, in evidente contrappeso con l'immobilità fisica e articolare degli innamorati, sono anch'essi una premonizione di fissità teatrale e retorica). E ancora, passando al paesaggio che fa da cornice all'azione del racconto, come non rilevare quell'intrico di vie, di case, di facciate che sembrano uscite dalla puntata di un caso fuori di ogni probabilità, come la scommessa di un urbanesimo senza prospettive e senza utilità? Anche qui quel "dedalo di viuzze candide di calce (è lo stesso candore - si badi - della cartapesta passata a gesso, e quello delle "case di calce" della Luna dei borboni, e quello, ancora, della calce, "regina arsa e concreta di questi umili luoghi" in Finibusterrae di Dopo la luna) e folli, come se le case vi fossero sorte da sole seguendo un capriccioso disordine, con porte a mezz'aria, balconcini senza ringhiera e scalini che non portavano a nessuna parte", non è anch'esso un indizio di inanità, di gioco perdente, che coinvolge simbolicamente tutta una città e tutta una cultura?
Un altro segnale d'inefficienza, di azione strozzata, proviene dalla stessa incapacità dei protagonisti del racconto e dei loro padrini di organizzare il duello. Qui si inserisce un ulteriore pregiudizio d'oziosità, contenuto nel gusto cavilloso della discussione, nell'attitudine all'astrazione intellettuale. Come l'amore delle fanciulle è tutto racchiuso, e quasi precluso, nell'intensità d'uno sguardo mostruosamente cresciuto sull'evanescenza di un corpo annullato dall'estenuarsi delle sue restanti funzioni, così la mancanza di concretezza attiva, di impegno vitale, ha fatto crescere ipertroficamente negli "intellettuali" della provincia la tendenza al sogno, al concettismo gratuito, di cui il bizantinismo inquisitorio e inconcludente è l'aspetto culturale più evidente. Il duello del contino Danilo si arena anch'esso sulle sabbie mobili d'una discussione senza esito, prolungando di conseguenza lo spasimo d'un'attesa che finisce col diventare modo di vita, condizione privilegiata del sogno. Non per nulla il romanzo si conclude con la visione fantastica di un giardino piazzato là dove la natura ha negato anch'essa ogni possibilità di azione produttiva: sui sassi, sul "desolante pietrume" delle campagne limitrofe, correlato oggettivo del "senso del vuoto, del nulla" degli abitanti.
Se volessimo insistere oltre, non potremmo dimenticare la vita-non vita di zio Antonino e la vita fittizia di zio Nanuccio; ma questa generalizzata intenzionalità di segno negativo, sulla quale incombe irreparabilmente il fallimento, è tutta contenuta nella stessa struttura del racconto che appartiene, si può dire, al genere dell'"incompiuto". La denotazione d'incompiutezza posta nel titolo non va riferita un accidente esterno, occasionale, ma ad un insanabile modo d'essere del racconto, che è incompiuto per definizione e per destinazione, in quanto il suo compimento avrebbe già il significato d'una realizzazione che l'intera vicenda e tutta l'impostazione della storia escludono. In questo senso, anche la parola si rifiuta di colmare il vuoto della sofferenza: il destino del contino Danilo finisce col coincidere con quello dello scrittore, reso dalla implicazione esistenziale-letteraria impotente rispetto allo strumento espressivo della parola, che è la sua azione e la sua prima moralità.
A questa atmosfera di evanescenza, di sfibramento delle volontà e dal pensiero si contrappongono, per un sapiente gioco letterario, una città e un tempo reali, sicché il senso dell'astrazione nasce proprio dalla concretezza dei fatti e del linguaggio, così come il senso del vuoto nasce dal pieno degli avvenimenti che si accavallano e si ampliano a dismisura, e quello del tragico dal paradosso delle situazioni e dell'ironia divertita dell'autore. Il barocco, la cartapesta, l'intrico delle vie, sbilenche, le mura, le porte, i monumenti ci riportano alla città-cuore di Bodini, la Lecce di Schipa e di D'Andrea, non a caso richiamati come parti inalienabili e caratterizzanti di una geografia culturale fin troppo nota e patita anche nei suoi risvolti di retorica e di mito; il modo del racconto, la stessa concezione della letteratura e della vita come azzardo da consumare fino in fondo, ci riportano ad un altro maestro esemplare della narrativa novecentesca, quel Tommaso Landolfi esplicitamente richiamato con le iniziali, ma la cui presenza sorveglia tutto il racconto e lo fascia di quella suprema ambiguità che ci preclude la scienza della esattezza e della certezza. E noi non sappiamo se, in fondo in fondo, il contino Danilo e lo scrittore Bodini siano davvero i vinti del destino di una città o se piuttosto non siano essi i vincitori d'una inane partita, di cui hanno scoperto il meccanismo segreto sconfiggendo in pari tempo ogni illusione di certezza e ogni ingannevole incanto.

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000