§ IL ROMANZO POSTUMO DI IGNAZIO SILONE

Un libro, forse due




Michele Prisco



Nel 1970 la rivista "Il Dramma" pubblicò un "omaggio europeo a Silone", con numerosi scritti e interventi, anche di stranieri, sull'opera dello scrittore abbruzzese. Invitato a mia volta a dare testimonianza
sull'uomo, mi trovai piuttosto imbarazzato a scriverne, Silone essendo allora uno dei pochi scrittori che ancora non conoscevo di persona. Con Pomilio, che in quegli anni trascorreva l'estate ad Avezzano, avevamo sempre progettato che vi facessi una gita per recarci insieme a trovarlo(anche Silone andava in Abruzzo, a passarvi le vacanze, nei mesi estivi ritornava alle sue radici), ma questa gita non s'era mai concretata.
Lo so, avrei potuto cercarlo a Roma, dove viveva abitualmente, che sarebbe stata oltre tutto la via più facile, ma a Roma si va sempre di gran corsa e poi, se non si presentava un'occasione adatta, bisogna vincere troppe remore e pudori (non siamo ormai più giovani) per assumersi l'iniziativa di compiere un gesto del genere: telefonare a uno scrittore sconosciuto, e dirgli di volerlo conoscere di persona. Un'occasione era stata il "Campiello" di due anni prima, ma Silone non venne a ritirare il premio (venne sua moglie Darina): era convalescente, e così neppure allora lo incontrai: e del testo sapevo in anticipo che non ci sarebbe stato. Quell'estate infatti dall'Abruzzo, Pomilio mi aveva scritto della malattia di Silone, così come l'estate precedente mi aveva riferito dei suoi incontri con lui, occupato in quel periodo a scrivere "L'avventura d'un povero cristiano": ed io gli scrissi, a Pomilio, che gi'invidiavo soprattutto questo: di poter parlare con un "collega" più anziano di cose di lavoro, di poter ascoltare, nel corso dei loro vari incontri, un autore in quella rara felice congiuntura in cui si apre - e con un altro autore, più giovane - a discorrere dei suoi problemi di laboratorio.
Perché noi apparteniamo a una generazione - siamo forse l'ultima - che ha creduto in queste cose: alla possibilità d'un arricchimento con la frequentazione di coloro che abbiamo eletti a "maestri", anche se diversi da noi, al beneficio (ma la parola é brutta, utilitaristica) d'un contatto più autentico e profondo con quegli scrittori che ci hanno preceduto e serbano della loro missione (sì, diciamola pure, la parola, senza paura d'apparire sorpassati), una dimensione in cui sia possibile riconoscerci e trovare un metro di misura per i nostri giudizi e le nostre scelte e il nostro comportamento di vita, e insomma per un certo tipo di rapporto umano.
Questo rapporto per sua e nostra fortuna Silone lo ha trasmesso nei suoi libri: nei quali non c'é mai solamente il letterato, ma c'é sempre anche l'uomo e si sente subito, leggendolo, che prima del problema del come dirlo c'é per lui quello del che dire, e che prima dell'operazione stilistica viene l'impegno etico, e prima della preoccupazione formale prevale o preme l'adesione umana, e tutto questo si combina in un impasto che conferisce alla sua pagina una risonanza particolare. Così che chi abbia letto l'opera di Silone non ha conosciuto solo uno scrittore, ha conosciuto soprattutto un uomo, e un uomo di straordinaria coerenza e forza morale.
Ecco, all'incirca questo dissi su Silone per quel mio intervento sul "Dramma" e Silone dopo mi scrisse un'affettuosa lettera dandomi il suo numero di telefono e sollecitandomi a cercarlo non appena capitassi a Roma. Non feci mai questa telefonata (la vita é piena di rimorsi), ma ci conoscemmo ugualmente, di persona, a Roma, in un incontro che magari racconterò un'altra volta. Perché adesso desideravo solo segnalare l'uscita del suo romanzo postumo, Severina, (Mondadori editore), pubblicato con una nota critica di Geno Pampaloni, e invece, accingendomi a scriverne, sono stato ripreso da quei ricordi personali e ho finito forse col prendere le mosse troppo da lontano: ma, tant'é, con Silone i conti si fanno sempre in un certo modo e porre subito l'accento sull'uomo non è probabilmente uno degli approcci peggiori per affrontare lo scrittore.
Severina é il romanzo a cui Silone stava lavorando negli ultimi mesi della sua vita, e le cui cartelle aveva portato con sé a Ginevra, in clinica, dove poi si spense nell'agosto del '78. Il libro é pertanto incompiuto, o diciamo meglio non finito e rifinito (lo scrittore aveva steso il capitolo finale e soltanto abbozzato quelli che lo precedevano), e la sua prima novità è quella d'avere questa volta una protagonista femminile, una giovane suora alla lontana ispirata sul modello della filosofa israelita Simone Weil convertitasi al cristianesimo, ma intrepidamente e profondamente "siloniana" nell'animo.
Trovatasi ad essere involontaria e unica testimone d'uno scontro in piazza in cui un giovane è pestato a morte dalla polizia, Suor Severina nel corso delle indagini, fedele al proprio bisogno di verità, si rifiuta di fronte ai giudici di rendere una dichiarazione falsa e concordata in precedenza e, coerente col suo gesto e obbediente a una crisi latente cui non è estranea la frequentazione di un prete, don Gabriele, a sua volta in crisi, abbandona l'abito e ritorna in famiglia. Ma all'Aquila, dove s'è recata per cercare un posto d'insegnante, finirà a sua volta vittima casuale in uno scontro a fuoco durante una dimostrazione di disoccupati.
Ancora, dunque, una cristiana senza chiesa e una socialista senza partito (come il suo autore), ricca però più che di fede, di una profonda speranza, è al centro di quest'ultima opera di Silone, che presenta altri motivi d'interesse, nell'intinerario dello scrittore: l'aprirsi per esempio al mondo giovanile, assai ben rappresentato, pur se le pagine che si riferiscono ad esso sono fra quelle meno approfondite o diciamo appena abbozzate; e l'intensità dei rapporti fra Severina e i familiari, il padre e l'affettuosa matrigna: e la lettura lascia qualche rimpianto di fronte al destino che ha impedito allo scrittore di completare appieno l'opera.
Ma è intervenuta sul testo la vedova Darina, che ha "ricucito" insieme le pagine per conferire al romanzo, fin dove era possibile, organicità e compiutezza. E premette e aggiunge pagine d'eccezionale testimonianza, non soltanto ragguagliandoci sul metodo di lavoro e sugli appunti lasciati dal marito e sul suo criterio d'intervento (in un caso, sopperendo persino ai vuoti del testo con brevi brani inediti d'un altro libro dello scrittore), ma raccontandoci con trattenuta commozione le ultime ore di vita di Silone nella camera della clinica di Ginevra, quando fu all'improvviso colpito da un attacco cerebrale (e morì dopo quattro giorni di coma).
Ne esce così un libro doppiamente struggente e fascinoso: una sorta di testamento, da parte dell'autore che riassume qui i motivi fondamentali della sua poetica, quella sua indomita necessità di coerenza con se stesso e col suo rigoroso mondo morale; e insieme una sorta d'insegnamento sulla forza di un sodalizio coniugale, che trova nell'amore e nella comprensione e nella verità della tolleranza e dell'intelligenza la sua più profonda compiutezza. Più di altri, forse, questo è il libro di Ignazio Silone, consegnato a noi lettori sulla soglia della morte ma in qualche modo è anche, umilmente, il libro di Darina Silone, la sua discreta preziosa testimonianza di quanto una compagna giusta possa aiutare uno scrittore anche oltre la morte.

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