§ A CINQUANT'ANNI DALLA MORTE

Le lettere di Fortunato




G.D.M.



"Carissimo amico, non Le so dire quanto il Suo affetto per il nostro Giustino mi ha commossa e confortata. Ora mi resta solo la gioia purissima di averlo veduto morire da santo e il ricordo affettuoso che i suoi amici serbano perlui ... "
Comincia con queste parole l'accorata lettera di Anna Fortunato a Giovanni Ansaldo, scritta cinque giorni dopo la scomparsa del fratello Giustino, uno dei piú grandi meridionalisti, avvenuta a Napoli il 23 luglio 1932. E' l'ultimo documento contenuto nel vastissimo carteggio (1.938 lettere, quasi tutte di Fortunato, a storici, uomoni politici, scrittori, giornalisti e amici), che l'editore Laterza ha portato a termine con il quarto volume, ordinato e annotato, come i precedenti tre, da Emilio Gentile.
A mezzo secolo dalla morte, le lettere recano molti elementi nuovi alla migliore e piú precisa individuazione di una personalità di spicco nel campo politico, in quello culturale ed economico-sociale. Il nome di Giustino Fortunato è scritto a grandi lettere nel gran libro della "questione meridionali", che fino allo scoppio del secondo conflitto mondiale, e negli ani del dopoguerra, fino al 1970, ha ricevuto contributi notevoli, mentre ora sembra relegato in soffitta, come se quella questione fosse stata definitivamente risolta o risultasse non piú proponibile. I cinquant'anni dalla morte, dunque, diventano un'irripetibile occasione di verifica del pensiero di Fortunato, e un motivo di riflessione su quest'uomo che dedicò tutto il suo impegno di studioso alla ricerca di soluzioni per il riscatto civile e umano delle terre che amò con dedizione particolare.
E' assai significativa, scrive Rosario Villari, (in Il Sud nella storia d'Italia, primo volume, Laterza 1966), la polemica del Fortunato contro i premi alle industrie, le agevolazioni alle cooperative (settentrionali), la legislazione sociale, gli aumenti di stipendi agli impiegati, cioè contro tutta la parte "riformistica" della politica giolittiana, e la stessa elargizione di lavori pubblici alle regioni meridionali. La polemica contro questi aspetti della politica giolittiana fu assai diffusa ed anzi dominante nelle file dell'opposizione: nel Mezzogiorno essa ebbe un terreno particolarmente favorevole e Fortunato fu tra coloro che questi motivi agitarono piú insistentemente. Pur muovendo da una impostazione di classe analoga a quella di un Salandra e di un Sonnino, egli fu piú vicino all'opposizione democratica e potè esercitare sulle tendenze radicali una singolare influenza (si pensi a Colajanni, Nitti, allo stesso Ciccotti e, piú tardi, a De Viti De Marco e Salvemini). La sua piú pronta adesione al liberalismo giolittiano, durante tutta la fase critica del 1898-1901, il suo rifiuto di aderire alla pressione reazionaria che veniva dalle forze stesse che egli politicamente rappresentava, furono la prima condizione della sua attualità anche nel periodo giolittiano, attualità di tipo diverso da quella di Sonnino, il cui riformismo fu tuttavia fortemente aggressivo nel primo decennio del '900. Altri fattori, però, contribuirono a fargli svolgere il ruolo di non inascoltato "moderatore" dell'oppposizione democratica, nella misura in cui questa cercava nel Mezzogiorno adesioni e nel meridionalismo una bandiera: il suo atteggiamento critico nei confronti della borghesia meridionali (egli che a quella classe si sentiva profondamente e spiritualmente legato), la sua esperienza culturale, politica, sociale della realtà e della vita del Mezzogiorno, che gli dava una indiscutibile egemonia culturale su coloro che si avvicinavano alla questione ed i cui interventi mancavano, assai spesso, del sottofondo e del presupposto di una indagine storica, sociologica, economica del tipo di quella che il Fortunato aveva condotto per tutta la vita. Non bisogna dimenticare - aggiunge il Viliari - nel valutare la sua funzione i caratteri propri di certe reazioni "meridionalistiche" che specialmente nell'ambiente culturale e politico napoletano avevano presa e vigore: di un "meridionalismo" risentito, particolarista, isolazionista e sostanzialmente corroto, contro il quale la battaglia del Fortunato fu vigorosa, elevata, costante fino all'avvento del fascismo, e condotta con ricchezza di motivi, con intransigenza e con una conoscenza dell'ambiente meridionale che nessuno degli altri meridionalisti ebbe mai cosí profonda.
In questo contesto, l'epistolario, di esemplare sistematicità, diventa non soltanto utile, ma indispensabile, soprattutto perchè gli interlocutori di Giustino Fortunato furono, via via, Quintino Sella, Pasquale Villari, Sidney Sonnino, Michele Torraca, Benedetto Croce, Pasquale Turiello, Francesco Saverio Niti, Floriano Dei Secolo, Giovanni Giolitti, Giuseppe Zanardelli, Giuseppe Lombardo Radice, Gioacchino Volpe, Ettore Ciccotti, Gaetano Salvemini, Giuseppe Prezzolini, Renato Fucini, Giovanni Ansaldo, Umberto Zanotti Bianco, Antonio Salandra, Luigi Albertini, Giovanni Amendola, Filippo Turati, Luigi Salvatorelli, Ferdinando Martini e molti altri.
"Il meridionalismo fortunatiano - osserva Rosario Romeo -, quale emerge dalle lettere, non è certo diverso da quello documentato negli scritti e nei discorsi già noti: ma ha spesso una maggiore immediatezza e un tono piú reciso e tagliente, quale è consentito e talora suggerito dalla intimità dello sfogo privato e delle relazioni personali".
Che Fortunato abbia dedicato tutta la forza del suo pensiero allo studio della storia e alle cause dell'abbandono delle province meridionali e che tale impegno sia stato notevole fin da quando il lucano incominciò a muovere i primi passi nel mondo della cultura, lo testimonia la lettera che, giovanissimo, Fortunato scrisse a Cesare Cantú, il quale con "la Storia dei cento anni" (Firenze 1851), era ritenuto il piú autorevole interprete di avvenimenti e di periodi storici.
"Non ho che 17 anni - scrive Fortunato - ma bramo ardentemente di conoscere e apprendere la verità ( ... ). Le chieggo un Suo parere: del modo più vero che si possa studiar la storia e del modo piú retto che si possa giudicar de' fatti ( ... )".
La verità: l'avrà mai conosciuta e appresa, come con candore da diciassettenne chiese allo storico lombardo, nella lunga battaglia condotta con sommo impegno fino al novembre del 1931 (per sessantasei anni, prendendo come punto di partenza la lettera al Cantú), allorchè il malanno che lo porterà, in pochi mesi, alla chiusura dei suoi giorni terrreni, gli impedí anche di leggere e di continuare a tenere i contatti epistolari con uomini politici, scrittori, amici, sempre in nome e per conto del meridionalismo?
Nei primi anni ruggenti del fascismo, in due case di Napoli si continuò a pensare e a riunirsi liberamente: in quella di Benedetto Croce, a Palazzo Filomarino, e in quella di Giustino Fortunato, al primo piano di via Vittoria Colonna. Il 28 ottobre 1929, il pensatore lucano scriveva ad Ansaldo: " ... ieri il discorso del duce al Campidoglio, stamane l'annuncio dell'Accademia degli Immortali ( ... ), io non piú dubito che tutta quanta l'Italia sia un manicomio, letteralmente manicomio, donde nessuno può dire dove e come potrà mai uscire. E dopo tutto che scuola di sovversismo pel domani che io, grazie a Dio, non vedrò! ... ". L'attuale, oggi, il pensiero di Fortunato sulla questione meridionale?
L'interrogativo può trovare una risposta nella rilettura delle sue opere piú significative, anche se non dovrebbe essere difficile stabilire che, poichè poco o nulla di concreto è stato fatto, dal 1932 in avanti, per avviare a trasformazione la vita delle popolazioni meridionali e nel frattempo sono passate come folgori una guerra disastrosa e varie calamità naturali, nonchè l'indecisa opera di uomini di governo, le linee generali del meridionalismo fortunatiano non possono non risultare tuttora valide.
"E' doveroso doverlo ripetere - disse alla Camera nel luglio '96 - ma bisogna ripeterlo alto, senza riguardi e senza rispetti: nessun governo, dal 1860 in poi, ha avuto mai piena coscienza dei doveri, verso l'Italia meridionale, dello Stato educatore, perchè nessun governo si è messo mai, nonchè a studiare, a conoscere con affetto, con sollecitudine, le condizioni politiche di quelle popolazioni: nessuno, e meno di tutti i ministri meridionali, forse, come io credo, perchè la pace e la riparazione il Mezzogiorno non le può interamente aspettare da' suoi. Se cosí fosse stato, se tutti avessimo saputo e sentito quello che è il problema del Mezzogiorno, non saremmo qui ora a tacciare d'impotenza ( ... ) tutta quanta la nostra legislazione, che pure è tra le migliori che abbia il mondo civile, e dar prova, solennissima prova - mi si perdoni -d'ingenuità: quella di credere che un nuovo ingranaggio ( ... ) nella già pesante, greve macchina dello Stato italiano, e un'altra delle tante inutili, dispendiose cariche ornamentali, delle quali non è penuria nei nostri ordinamenti amministrativi, possano, in uno, in due anni al piú, rifar dalle fondamenta un edifizio che crolla. ( ... ). La questione, per questo verso, non si può affatto risolvere. Ed essa, invece, si può certamente, a parer mio, sicuramente risolvere ( ... )solo che un governo onesto, profondamente, sinceramente onesto, pensi laggiú, non a fare della politica (..), ma a fare dell'amministrazione, niente altro se non della buona amministrazione nella pratica della vita quotidiana, con sentimento di verità, non con spirito di opportunità ( ... ). Ma, ciò facendo, non dimenticate ( ... ) che il fondamento e la salvaguardia di ogni buona amministrazione, cosí nelle Isole come in tutto il Mezzogiorno, sta nel risanamento, nella salute delle condizioni economiche di quelle popolazioni ... ".
Fra l'altro, resta il merito all'uomo di Rionero di avere seguito le orme del Villari, del Sonnino, del Franchetti, ma di essere stato il primo, come riconobbe Benedetto Croce nella recensione a "Il Mezzogiorno e lo Stato Italiano", ad aver sentilo il problema meridionale "in tutta la sua grandezza e asprezza", a proporlo "in una forma scientificamente precisa e letterariamente perspicua", a trasformarlo da "isolata preoccupazione" in "preoccupazione nazionale".
Fortunato si chiese: "A che cosa è dovuta l'inferiorità del Mezzogiorno?". La risposta fu immediata e precisa, inequivocabile: "Soprattutto alla sua geografia".
Il Mezzogiorno - osservava - è una parte d'Italia che il clima e il suolo da un lato e la condizione topografica dall'altro, condannano alla miseria economica e morale. La geografia ne spiega quindi la storia, completamente diversa, in tutte le manifestazioni sociali e politiche, da quella dell'alta e della media Italia. L'unità politica illuse di poter raggiungere anche l'unità economica e morale; i decenni si sono poi incaricati di dimostrare che la sperequazione tributaria, tanto nelle imposte quanto nei dazi di consumo, è stata la causa principale che ha impedito il progresso del Mezzogiorno.
Ecco, quindi, le "due Italie" che caratterizzarono l'intero pensiero e l'intera opera di Fortunato; ed ecco, soprattutto, la sua felice espressione, secondo la quale "il Mezzogiorno in politica ha sempre viaggiato accanto all'altra parte d'Italia, come un vaso di terracotta accanto a uno di fero". Disse alla Camera: "Che al Mezzogiorno, per scemate imposte e piú liberi commerci, o pure (come si esprimeva nel 1765 quell'Antonio Genovesi, creatore della scienza economica in Italia, dal quale nell'ordine del pensiero, unitamente col Giannone e il Filangieri, ebbero quaggiú inizio "i tempi nuovi") per "tenui tributi e facile giro" (voleva dire, libera circolazione), cresca l'annuo suo reddito, perchè emerga di vita nuova nelle vie della civiltà: questo il presagio di giorni piú lieti e non lontani, se esso per il primo, con la ferma convinzione di fare, insieme col bene di tutta Italia, il particolare suo vantaggio, saprà efficacemente opporsi a che vadano miseramente perduti in prodigalità e lusso gli avanzi, che soli pochi anni fa era follia sperare, nel bilancio dello Stato. Lo spreco del pubblico erario, sotto ogni forma di protezione e di sussidi, mediante ogni specie di favori e di opere, sarebbe ( ... ) un vero insulto alla miseria del Mezzogiorno, - il cui particolare interesse è quello, ormai, che cessi il cattivo andazzo della politica economica della nuova Italia, la cui caratteristica è stata la insufficienza del capitale circolante in confronto del capitale immobilizzato, con la inevitabile conseguenza dell'alto prezzo del denaro - una politica, che se ha dato fin oggi, sotto veste di forniture, a' costruttori della Liguria, a' lanifici del Veneto, a' cotonieri della Lombardia, oggi è sulle mosse di concedere, per allo di mera liberalità, a' ferrovieri, a' postelegrafonici, alle cooperative di lavoro della Romagna il miglior frutto de' sudati risparmi di tutto il gran popolo dei contribuenti italiani... Che monta che il Paese sempre piú sudi e produca, se lo Stato sempre piú assorbe troppa parte di ricchezza, per volgerla ai fini non utili all'universale - lavori pubblici o eccessivi o costosi assai piú che non valgano, bonifiche idrauliche incapaci da sé sole a fugare la malaria, armamenti superiori alla capacità di risparmio e a' bisogni della difesa, speculazioni bancarie ed edilizie o favorite o promosse dal governo, sovvenzioni e incoraggiamenti alle organizzazioni impresarie operaie, aumenti e miglioramenti a tutta la corte degl'impiegati organizzata contro lo Stato? Che giova che i partiti estremi protestino contro le maggiori tasse, se essi per i primi sospingono alle maggiori spese, che quelle generano, quando non siano spese militari? A' partiti estremi basta sapere che ogni nuovo stanziamento di bilancio si traduce quasi sempre in benefizio immediato del fondo degli stipendi per la borghesia minuta e dei salari agli operai; essi ignorano che la stessa somma di ricchezza, lasciata libera, si produce di per sè, e aumenta il fondo de' salari in modo continuativo; peggio ancora, essi fingono di ignorare che mezza Italia ha contadini, non operai, e che quella dei contadini è la sola classe, dice argutamente il Franchetti, che non figuri nella clientela dello Stato Italiano - ricca di avventurieri della finanza e di gente di affari, d'ogni risma e colore, che non hanno, no, cittadinanza meridionale ... "
Ad approfondire e a confrontare con l'attualità il meridionalismo di Fortunato, ci penseranno gli studiosi e gli esperti. Gli argomenti stimolanti, certo, non difettano. Noi vogliamo ora ricordare soltanto un episodio eccentrico, poco noto, che caratterizzò un periodo amaro della vita di Fortunato, e che rischiò di compromettere i rapporti di amicizia esistenti tra il lucano, Salvemini e Croce.
Venerdì 2 luglio 1920, durante la seduta della Camera dei Deputati, in sede di discussione del bilancio della Pubblica Istruzione, pronunciò un interessante discorso Gaetano Salvemini. Presiedeva Enrico De Nicola; sedeva al banco del governo Giovanni Giolitti; con altri ministri, era presente quello della Pubblica Istruzione, il senatore Benedetto Croce.
Salvemini si batteva con molta tenacia per la scuola laica e anticonfessionale, e poichè l'atmosfera si surriscaldava, ad un certo punto disse: "Il senatore Croce, nuovo ministro della P.I., è detestato da molti professori universitari. Ciò mi fa pensare che farà assai bene (si ride). Si narra che nel 1905, quando un amico di Giolitti, chiese a quest'ultimo di far senatore Benedetto Croce, ottenne questa risposta: "Croce? Non lo conosco!" (si ride, anche Giolitti ride). "Ma è un filosofo", incalzò l'amico. "Assumerò informazioni", rispose l'on. Giolitti, il quale pochi giorni dopo disse all'amico: "Sai, quel tuo Benedetto Croce nel 1899 ha partecipato a una sottoscrizione a favore dell'Avanti!".
Ci fu una vivace reazione in aula di Giolitti, il quale accusò Salvemini di mentire, gli diede del pazzo e venne cosí fuori il nome di Giustino Fortunato, l'amico che si era interessato presso Giolitti per la nomina di Croce a senatore.
Il giorno dopo, quasi tutti i giornali italiani raccontarono per filo e per segno come erano andate le cose a Montecitorio e, com'era ovvio, non omisero il nome di Fortunato, il quale nella sua casa napoletana lesse, trasecolò e in breve montò su tutte le furie.
Scrisse allora all'amico Giuseppe Zanotti Bianco: " ... quale, per Iddio, la mia figura e presso il Giolitti e presso il Croce, quale in nome di Dio, presso tutti, tutti? Ma si può essere piú malvagio di cosí? Questo l'affetto, la stima, il rispetto, cui avevo diritto?"
Secca e ironica la risposta, la replica di Salvemini, la cui lettera si apre con queste frasi: "Caro Giustino, finora sapevo che solo il Padreterno aveva ordinato dal Monte Sinai di non fare il suo nome. Debbo riconoscere che dopo il Padreterno ci sei tu ... "
In seguito, le ire di Fortunato sbollirono, Croce comprese e ... perdonò; con Salvemini ci furono sufficienti chiarimenti epislolari. Ma l'accaduto procurò a Giustino Fortunato giorni di grande amarezza, un'amarezza, molto probabilmente, pari a quella che gli faceva esclamare, come in una lettera inviata a Pasquale Villari nell'agosto 1899: " ... Ah, l'Italia ufficiale ignora le terribili angustie dell'Italia meridionale! ".

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