Le "Prediche inutili" di Giustino Fortunato




Massimo L. Salvadori



"Predicatore del nulla" si definì a un certo punto, pessimista, deluso dopo infinite battaglie. Un pessimista, però, di quelle rare tempre che da un simile stato d'animo vengono spinte non ad abbandonare il campo, ma all'opposto, a continuare sino alla fine. E, infatti, proprio mentre si definiva pessimista, subito aggiungeva che non sentiva mai venir meno in lui la fede intesa come "sostanza di cose sperate".
Giustino Fortunato. Tenne il campo, senza tregua, dagli anni '70 dell'Ottocento al fascismo consolidato, dal momento insomma di raggiunta stabilità dello Stato liberale alla sua rovina. Un'epoca storica: quella della borghesia liberale al potere.
A rileggere i principali Scritti politici di Fortunato, a cura di Francesco Barbagallo (edizione De Donato), prende come un senso di nostalgia, ci si sente dominati da un rispetto quasi religioso. Quali grandi uomini ha pur avuto la vita pubblica italiana! Era, Fortunato, uno scrittore raffinato, elegante. Beethoven, Orazio, Marco Aurelio, Dante, Manzoni, Tolstoj i suoi prediletti.
E' Kant il suo filosofo, il Kant della Critica della ragion pratica. Ma, nella sua attività di parlamentare e di scrittore politico, nessuna inclinazione "letteraria", nessuna inclinazione a coprire con belle parole la realtà dei problemi. Il grande problema cui dedicò tutte le sue forze - dal periodo della "Rassegna Settimanale", che lo accomunò a Villari, Franchetti e Sonnino, all'opposizione al fascismo - non fu la questione meridionale in sé e per sé, ma quello dei rapporti fra il Sud e il Nord, fra le "due Italie".
Convintosi che il Risorgimento fosse stato nel Sud la rivoluzione politica della sola borghesia, egli meditò e operò ininterrottamente sui modi per care un contenuto sostanziale all'unificazione politica delle due Italie. A questo scopo gli appariva necessario da un lato riconoscere le diversità tra esse, quali le avevano determinate la storia e la geografia, e dall'altro affrontare queste diversità, regolarle, trovare un equilibrio con una politica riformatrice.
La questione meridionale era per lui anzitutto una questione di miseria, avente cause naturali non affrontate ma aggravate dai governi. Ai governi liberali Fortunato chiese una politica demaniale che valesse a disinnescare annosi contrasti, una politica tributaria che non facesse pagare al Sud più di quanto non spettasse secondo la ripartizione della ricchezza nazionale, una politica doganale che favorisse le produzioni meridionali, una politica estera di raccoglimento senza smanie di grandezza, che non inseguisse inconcludenti ambizioni coloniani e agevolasse la benefica emigrazione verso le Americhe. Le risposte dei governi furono sostanzialmente tutte di segno contrario.
Alle classi alte del Mezzogiorno chiese la capacità di farsi portavoce degli interessi della regione, convogliando risorse verso la terra, difendendo le esigenze del Sud in Parlamento, aprendosi alla democrazia politica e al riformismo sociale. Le risposte andarono nella direzione dello sfruttamento esoso e arcaico dei contadini, del ministerialismo subalterno, della vocazione reazionaria. Alla borghesia settentrionale, in quanto forza egemonica della nuova Italia, chiese di perseguire una modernizzazione più equilibrata. La risposta fu l'aggravamento costante del rapporto fra Nord e Sud.
L'organo supremo delle riforme Fortunato lo vide dapprima nello Stato, la cui missione era di essere il "grande educatore". Dietro allo Stato stavano in primo luogo le classi alte, la borghesia, il cui "dovere" primo consisteva nella tutela dei più deboli e in un'efficace risposta in termini riformatori a "rossi" e "neri". Un ideale che condivideva con Villari, Franchetti, Sonnino. Non bisogna però pensare che Fortunato concepisse la funzione dello Stato educatore nel quadro di un riformismo autoritario. Come i suoi amici, infatti, era stato partigiano del suffragio universale quale mezzo di rinnovamento della politica nazionale. La sua era piuttosto una concezione che univa ruolo illuministico delle élites e democrazia come mezzo di integrazione delle classi inferiori. Un conservatorismo moderno.
Egli si professò per quasi un trentennio uno "statalista", persuaso che solo una politica di centralismo riformatore potesse affrontare il problema delle due Italie. E fu quindi un convinto avversario di ogni progetto regionalistico, temendo che le regioni potessero allora rafforzare il potere delle camorre locali, il male tradizionale italiano. Ma di fronte allo Stato sordo finì per sentirsi appunto "il predicatore del nulla".
Nel 1911 così manifestò la sua totale disillusione: "Invocai - disse - per tempo e a lungo, con intenzione aperta e chiara, con sicura fede dell'animo, uno Stato così forte di autorità e di mezzi da condurre esso tutto il popolo italiano sulle vie della coltura, della morale, della pubblica ricchezza; assai penoso mi e stato il dovermi convincere, che quello era un sogno e nulla più ( ... )". E allora, abbandonato lo "statalismo", prese a sperare nelle "libere energie individuali". Al liberalismo Fortunato unì il liberalismo. E su queste posizioni rimase.
Come dicevo, Fortunato, pur mettendo al centro la questione meridionale, la collegò sempre all'insieme della politica nazionale. Nonostante tutto il suo scoramento e pessimismo, non cessò mai di considerare l'Italia un Paese che progrediva, anche se faticosamente e meno di quel che avrebbe potuto. E per lui il motore del progresso erano le istituzioni liberali.
Si professava un liberale monarchico, un conservatore, ma anche un democratico. Fu decisamente contrario alle velleità autoritarie alla fine del secolo, considerò positivamente la politica di Giolitti verso il movimento operaio, che definì "il fatto più importante dell'epoca nostra". E, allorché vide arrivare il fascismo, fu tra coloro che non ebbero incetezze sulla sua natura di forza che, dopo una coloritura di demagogia sinistrorsa, prendeva rapidamente e stabilmente le tinte di un nazionalismo reazionario.
Visse la crisi del dopoguerra bensì come l'interruzione di un cammino, ma anche come lo specchio delle debolezze storiche sia della borghesia liberale sia di un socialismo senza strategia. li fascismo, dunque, fu nella sua analisi il sopravvento del negativo sul positivo, l'eplosione dello spirito di un sovversivismo autoritario, che più volle era stato respinto a fatica. E quindi "una rivelazione".
Con la stessa determinazione con cui, pur con critiche implacabili alle pecche di funzionamento, aveva sempre difeso il Parlamento quale istituzione, di fronte al fascismo ormai saldo al potere recitò il suo canto del cigno, il suo atto di fede: "Certo il liberalismo non è e non sarà un'idea morta, per la semplice ragione che mente umana non saputo né saprebbe concepire un'altra di pari valore morale E neppure l'idea democratica vorrà sparire dalla mente del maggior e miglior numero ( ... ). Ma perché liberalismo e democrazia ritornino, prima o poi, fra noi, ciò solo è necessario: che la fede non scemi in quanti - pochi o molti, non importa - rimangon devoti al loro culto, pronti al loro comandamento". Erano le parole di un grande vecchio che sapeva ancora parlare ai giovani anti-fascisti.
Fortunato é stato una delle voci più alte di un cinquantennio di pensiero e vita pubblica in Italia. E, pur essendo il suo pensiero ben caratterizzato, al pari di tutti i veri e grandi Maestri seppe essere punto di riferimento decisivo per uomini più giovani assai diversi fra loro: Salvemini, Dorso, Gobetti, Gramsci, Zanotti Bianco, i Rosselli, Fiore. Gramsci, é ben noto, lo definì insieme con Croce il "reazionario" più intelligente e grande d'Italia: ma intanto lo pose fra i solidi mattoni della sua cultura politica.

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