§ IL CORSIVO

Gente del Sud




Sergio Zavoli



Ricevo da Milano una lettera bella e dolente: "Caro signore, sono anch'io un esiliato come lei,, ma lei prese un treno per il Sud e io invece per il Nord. Più fortunato è lei. Non lo dico per amore dei miei luoghi, ma perché lei laggiù vive, mentre io qui sono senza terra sotto i piedi. A cominciare dalle parole mi manca tutto, tranne il lavoro ... ".
I meridionali, a Milano, non sono più come gli uccelli sul ramo, sempre pronti a partire. Vogliono essere di casa, ostentano con la città una confidenza che non hanno. Li ho visti alle prese con la velocità di una lingua che non si lascia capire, chiusi in un quartiere che tenta di ripetere il luogo di origine, ma che non è più borgo, vicinato, mutuo soccorso.
Questa gente del Sud, così giovane e così antica, è in balia di forti tentazioni: Milano è enorme, le sue strade di periferia non si estinguono nei campi, ma entrano in un seguito infinito di altre città. Gli immigrati credono che qui è possibile esprimere ogni rancore, che la metropoli è il luogo di tutti i risarcimenti, che solo al Nord si può avere giustizia.
Li ho osservati al centro di capannelli in cui cercavano il consenso, o premere per entrarvi e farsi accettare. Sollevare a uno a uno i coperchi pigiati sulle pentole che bollono nel Sud è forse una tra le funzioni di Milano, questa amara e fraintesa città.
Qui, dove il passaggio dall'indistinto reticolo popolare alle maglie già salde della piccola borghesia si fece quasi per contatto, la gente del Mezzogiorno avverte che il salto è ancora possibile, è a portata di mano. Ma il salto costò la lotta di generazioni operaie e nacque dal guardare negli occhi la realtà, dalla domanda organizzata, dall'utopia del possibile. Non può oggi essere facile, come vorrebbero lo spirito di rivalsa e le false promesse a cui molti hanno creduto salendo sui treni per il Nord.
Questi contadini dell'altra Italia non hanno, né forse possono avere, i sogni razionali dei poveri che qui si liberarono: bisogni e nostalgia, a furia di scontrarsi, sfiancano la vita. Gravano su questa gente sia il peso di rifiutare una storia, sia quello di entrare in un'altra; e intanto da molte parti si insiste sul diritto a liberarsi in patria dei propri fardelli. Ne nascono un'esistenza strabica, costretta a guardare indietro e davanti, è una continua insicurezza che sprigiona dubbi e speranze. Scrisse Giustino Fortunato: "Il Mezzogiorno sarà la fortuna o la sciagura d'Italia".
Milano è il luogo dove questo interrogativo può sciogliersi, ma a patto che la storia non abbia in serbo un inganno simile a quello consumato, sempre in nome dell'Italia da riunire, nelle trincee del 1915-18. Anche allora si predicava contro la separazione: "Qui, su questo enorme tavolo d'obitorio, si scopre il corpo dell'Italia intera", recitava lugubremente D'Annunzio. In realtà era un'Italia messa insieme alla meglio, e che uscirà dall'obitorio a brandelli.
"Affezionatissimo cogino", scrisse un ragazzo dal fronte, "da un momento all'altro mi possono anche fucilare per disserzione ma io non centravo niente e non capivo quelle parole del nord e del capitano che ci faceva l'interrogatorio. Ma speriamo che tutto va apposto come dice anche il capitano in volontà diddio Santo ... ".
Lettere come questa non entrarono a far parte della coscienza nazionale; giunsero invece nei luoghi dell'esclusione come arrivano, per vie traverse, i messaggi cifrati. E cifrato non era solo il linguaggio; cifrata era la vicenda di chi scriveva, cifrati erano anche i temi generali, in cui traspariva - stupefatto, goffo e marginale - un impossibile tentativo d'immedesimazione, per così dire, storica.
Ogni lettera spedita al Sud portava una sola voce, rifletteva un'unica vita, anche se ispirata da un dolore apparentemente comune. Le trincee non conobbero mai i cori dei meridionali; solo, qua e là, i loro singoli canti. Renato Serra chiamò quei monologhi "il segno dell'Italia da farsi, messa insieme quassù alla rinfusa, con larghi vuoti di consapevolezza e larghi margini non solo per la meraviglia, ma anche per il rancore".
Un invasore barbarico, cessata la battaglia, faceva uccidere i solitari, i nostalgici, gli inquieti perché il loro esempio indeboliva l'animo della soldataglia; la storia ha sempre fatto lo stesso con i meridionali per evitare il contagio di un'insicurezza che, prima o &oi, avrebbe potuto disturbare molte comode certezze. Ripenso a Serra che osservava, con ansia di fratello, quella gente stranita dalla guerra arrovellarsi silenziosamente sul proprio destino, che si sbriciolava passando da un mondo fuori del tempo a quello della storia. "Eppure", scrive Leonardo Sciascia, "questa gente va capita soprattutto in ciò che non dice". Ma dalle gole chiuse per secoli il grido, se sale esce come strozzato.

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000