§ I CONTI DEL SUD

La regressione




Pasquale Saraceno



A fine 1981, otto anni sono trascorsi dal tempo in cui, con il primo shock petrolifero, si è aperta la crisi che tanto turba l'economia mondiale; le sue connotazioni cominciano ormai ad apparirci più chiare, tanto da autorizzare a costruire un primo discorso sul decennio che sta davanti a noi e al quale si riferisce la proroga dell'intervento straordinario. A questo riguardo, dobbiamo rilevare che la proposta contiene aspetti nuovi rispetto alle tre precedenti proroghe, tutte di durata quinquennale; periodi minori di un decennio non consento di individuare la natura dei problemi da affrontare nel Mezzogiorno e i prevedibili risultati delle politiche da definire; non sarebbe quindi senza importanza rendersi conto che i piani a medio termine non possono contenere utili riferimenti per un'azione meridionalistica che, pur nel variare della situazione, ha pur sempre l'obiettivo di ridurre il divario esistente tra Centro-Nord e Mezzogiorno, evitando che nel corso del processo si accentuino divari interni allo stesso Mezzogiorno.
Nel non breve tempo trascorso dall'inizio della prima crisi energetica, altri eventi sono venuti a modificare il sistema dei rapporti economici internazionali. Si tratta di eventi di tanto rilievo da non autorizzar i più ad attribuire a quella crisi tutti o anche gran parte dei mutamenti in corso, anche se tali mutamenti sono ovviamente più o meno legati all'aumento del costo dell'energia; del resto, l'economia mondiale stava superando Il primo shock energetico e non è detto che non sia in corso il superamento del secondo. Ora, tra i fatti che nella situazione attuale richiedono distinta considerazione vi è certamente l'aumento del peso che da tempo vanno assumendo nell'economia mondiale i Paesi cosiddetti "emergenti". E' un fenomeno durevole e del resto preconizzato; esso dà ragione del fatto che la crisi, pur definibile mondiale, assume nel Paese europei ad economia di mercato una connotazione propria, costituita dal formarsi di una rilevante disoccupazione che ha un carattere non congiunturale. La crisi non è congiunturale, in quanto il suo superamento non richiede prevalentemente misure dirette a regolare domanda e offerta nell'ambito di un sistema produttivo capace di operare con profitto sui mercati; si constata oggi che quel sistema produttivo e in parte notevole fuori mercato e lo è al livello inferiore (le industrie cosiddette "mature"), perché talune produzioni sembra non possano più essere rese competitive ai livelli retributivi cui la società europea e pervenuta, e lo è al livello superiore, perché produzioni di alto valore tecnico sono ottenute più economicamente da altri Paesi industrializzati: Stati Uniti, Giappone e qualche Paese minore.
Per porre rimedio a questa duplice, potremmo dire, amputazione, il sistema produttivo europeo (e ci riferiremo ora solo ai Paesi della Comunità) deve aumentare in misura rilevante gli investimenti, e ciò a due fini: porre in atto produzioni sostitutive di quelle la cui produttività non può essere elevata in misura sufficiente, aumentare la produttività delle produzioni per le quali questa possibilità esiste. L'aumento degli investimenti perseguito a tale fine n n può determinare tanto un aumento dell'occupazione e del reddito nazionale, quanto rendere competitivi impianti che non lo sono più e il reimpiego delle forze di lavoro che vi sono occupate. Per intanto, il reddito nazionale ristagna o segna progressi molto limitati, dato che l'aumento di produttività che l'industria europea andrà conseguendo per affermarsi sui mercati sembra sufficiente per fornire, senza aumento sensibile di occupazione, lo scarso incremento di prodotto nazionale consentito dalla difficile situazione attuale. Una crisi avente simili connotazioni è, come detto, prevalentemente europea; basti pensare che aumenti del reddito tra il 5% e l'8% sono oggi correnti in parecchi paesi del Sud-Est asiatico e, senza giungere a quelle punte, anche in qualche paese dell'America Latina. Contare su andamenti di tal genere non ha oggi alcun senso in Europa, anche se essi non sono mancati in passato. Ricordiamo che nel 1953, nella formulazione dello Schema Vanoni, la Svimez previde, per il successivo decennio, un saggio di aumento medio annuo del reddito nazionale del 5%; e, ciò che più importa, esso risultò del 5,8% al termine del decennio.
Allo stato delle cose, occorre chiarire i termini in cui si pone per il Mezzogiorno quel problema della produttività che tanto impegnerà l'industria europea nei prossimi anni. Mi sembra che la situazione possa essere rappresentata come segue: il sistema produttivo meridionale deve portarsi al livello di produttività già raggiunto in novant'anni di vita da quello centrosettentrionale; questo però persegue nello stesso tempo l'obiettivo di portarsi verso i livelli di produttività, mediamente più alti, già conseguiti dall'industria dell'Europa Occidentale, che a sua volta deve pur tendere verso i più elevati livelli di Paesi extra-europei, in sostanza Stati Uniti e Giappone; questi, infine, non sono certo fermi. Primo obiettivo della politica meridionalistica e quello di includere il sistema produttivo meridionale in questo insieme di convogli.

IL DIVARIO

La proroga dell'intervento straordinario e stata proposta a trent'anni dal tempo in cui esso ebbe inizio. Quali i risultati conseguiti in un periodo che non e certo breve? A questo interrogativo mi sembra si possa dare una prima sommaria risposta, considerando le variazioni che nel corso del trentennio ha avuto il divario Nord-Sud, essendo il divario misurato dallo scarto in meno esistente tra i due redditi pro-capite rilevati in un dato anno nel Mezzogiorno e nel Centr-Nord.
Nel 1950 il reddito pro-capite era nel Mezzogiorno inferiore del 46% a quello del Centr-Nord; il divario e poi salito fino a valori intorno al 50% all'inizio degli Anni Sessanta; solo dopo ha cominciato a ridursi, scendendo al 40% nel 1973, anno precedente l'inizio della prima crisi energetica. Da allora il divario accenna ad aumentare. Dunque, dopo tanti discorsi fatti già nell'immediato dopoguerra sulla centralità della questione meridionale, il divario e cominciato a scendere solo dopo trascorsi quindici anni dalla fine del conflitto; ed e pressoché invariato intorno al 40% da ormai otto anni; nel 1980 esso era dunque inferiore soltanto del 13% a quello del tempo in cui si iniziò l'intervento straordinario.
La valutazione del divario non può però ridursi alla rilevazione del variare di percentuali globali. In primo luogo va tenuto presente che anche se vi e stata una riduzione, peraltro lieve, la situazione deve giudicarsi meno favorevole di quella di allora, se si tiene conto che sono peggiorate le condizioni in cui deve svolgersi la futura azione. In particolare, la crisi iniziatasi nel 1974 sembra aver avuto riflessi più gravi sul processo industriale del Mezzogiorno che su quello del Centro-Nord. Secondo dati Istat, integrati per il 1980 da stime Svimez, gli investimenti industriali sarebbero nel Mezzogiorno del 30% al di sotto di quelli del 1973. Se questi sono i dati, e da temere che il divario riprenderà ad aumentare, se qualcosa di nuovo non avviene nel Mezzogiorno.
Il fatto che l'eliminazione del divario Nord-Sud presenti oggi prospettive meno favorevoli che all'inizio dell'intervento straordinario non deve indurre a negare che nei trent'anni trascorsi dall'inizio di quell'intervento si sia costruito nel Mezzogiorno un sistema industriale pur inadeguato alla forza di lavoro disponibile che non e quella povera cosa che e implicita in molte delle valutazioni che si danno o che si sottintendono; tra l'altro quel sistema e forse di data, in media, più recente di quella degli impianti del Centro-Nord e soprattutto contiene, in proporzioni relativamente minori rispetto al CentroNord, quelle industrie cosiddette "mature" che il progredire dei Paesi emergenti sembra stia mettendo, senza scampo, fuori mercato. Unità di produzione meridionali invero si trovano oggi in una situazione di crisi; ci o\ però non autorizza a mutare questa valutazione positiva. In primo luogo talune di quelle situazioni di crisi sono comuni a tutti i Paesi della Comunità; in secondo luogo l'esperienza di ormai molti Paesi mostra che, nelle aree che hanno avviato solo negli scorsi decenni la loro industrializzazione, il processo si svolge su linee tanto incerte da richiedere frequenti correzioni di politiche e di decisioni. Una simile caratteristica era inevitabilmente più rilevante nel caso del Mezzogiorno, dato che politiche e decisioni hanno in genere risposto più a stati di necessità che non allo svolgimento di meditati programmi.
Va anche ricordato che il divario e una differenza tra due grandezze; la sua entità e quindi anche determinata dalla intensità del progresso economico del Centro-Nord. Se in astratto quel progresso fosse stato invece minore, sarebbe stato minore anche il divario. Il problema per l'economia meridionale non ne sarebbe però stato facilitato, a parità di altre condizioni. Comunque, il reddito pro-capite a fine 1980 e, sia nel Centro-Nord che nel Mezzogiono, più che triplicato rispetto al 1950; sono quindi molto mutate, dopo l'inizio dell'intervento straordinario, le situazioni delle due aree, la natura delle differenze tra esse intercorrenti e quindi i problemi da risolvere. Molto interessante, tra tali differenze, é il fatto che e oggi possibile determinare con qualche fondamento l'ordine di grandezza del numero dei posti di lavoro la cui creazione permetterebbe di ritenere eliminato il divario e quindi risolto l'aspetto economico della questione. Si e quindi reso possibile, invero dopo che cinque milioni di persone hanno lasciato in trent'anni il Mezzogiorno, impostare in modo più rigoroso il nostro problema e cominciare a chiarire, nella oscura situazione attuale, il destino riservato al Mezzogiorno dalle politiche che vengono proposte in sede comunitaria e da noi'.
Esaminati gli aspetti principali della nozione di divario, va infine fatto presente che ha ormai scarsa utilità riferire quella nozione all'insieme delle regiom meridionali; fra di esse vi sono oggi divari tanto rilevanti di carattere qualitativo - più ancora che quantitativo - da richiedere, sia nelle analisi sia nelle politiche, una marcata specificazione regionale.

POPOLAZIONE E FORZA DI LAVORO

Nel prossimo decennio la popolazione italiana si prevede resterà immutata. Dovremmo avere nel Sud un aumento dell'ordine di un milione di unità, che si bilancerà con una riduzione di un'entità non troppo diversa nel CentroNord.
La forza di lavoro meridionale era nel 1980 di circa 7 milioni di unità e rappresentata il 31% della complessiva forza di lavoro del Paese: percentuale di 4 punti più bassa di quella che competerebbe alle regioni meridionali, se la forza di lavoro si ripartisse tra i due gruppi di regioni proporzionalmente alla popolazione. Si valuta che essa si accrescerà nel prossimo decennio di 900.000 unità (nel Centro-Nord 200.000). Secondo rilevazioni Istat, i disoccupati erano 800.000 a fine 1980, di cui oltre quattro quinti giovani al di sotto dei 30 anni; il 53% della disoccupazione giovanile dell'intero Paese e nel Mezzogiorno. E poiché lo scarto della natalità dei due gruppi di regioni e destinato a permanere, la disoccupazione giovanile sta diventando prevalentemente un problema meridionale; ciò anche perché le possibilità di impiego, offerte localmente ai giovani meridionali, sono molto minori di quelle offerte dal Centro-Nord al meno numerosi giovani settentrionali.
Entro la fine del nuovo decennio di intervento straordinario occorrerebbe dunque creare 1.700.000 posti per dar lavoro ai disoccupati (800.000) e all'incremento naturale della forza di lavoro attuale (900.000); occorre inoltre mettere in conto un sia pure attenuato esodo agricolo, le possibili perdite di posti di lavoro conseguenti a ristrutturazioni industriali, il rientro di immigrati da
Paese europei in crisi (2) un aumento verso i livelli del Centro-Nord dei saggi di attività della popolazione attiva, il non ancora chiarito movimento immigratorio da Paesi estraeuropei. Per tener conto degli effetti, di entità minore, prodotti da questi fenomeni, il numero dei posti di lavoro da creare può essere aumentato a circa 2 milioni.
Da questo numero va dedotta l'emigrazione, che può ritenersi continui verso il Centro-Nord e che si presume di entità non dissimile da quella avutasi nel sette anni trascorsi dopo l'inizio della crisi energetica: 50.000 in media all'anno, di cui 35.000 costituita da unità lavorative; 350.000 dunque nel decennio. Si può quindi valutare intorno a 1,6 milioni il numero dei posti di lavoro a produttività moderna, la cui creazione darebbe al Mezzogiorno una struttura produttiva non più molto diversa da quella del Centro-Nord. Ottenendo questo risultato, si sarebbe costituita una dotazione di capitale simile a quella della restante area comunitaria, nel senso che essa sarebbe sufficiente Per conseguire una situazione di pieno impiego. E' una situazione, si precisa, nella quale la eventuale disoccupazione, superiore a quella frizionale, avrebbe carattere congiunturale, in altri termini, non sarebbe più determinata, come ora nel Mezzogiorno, da una insufficiente dotazione di capitale produttivo. In presenza di un deficità ancora piuttosto rilevante di posti di lavoro, pur messa in conto una certa emigrazione, si rende evidente l'importanza per il Mezzogiorno - unica area dell'Europa comunitaria - di conseguire aumenti di posti di lavoro, oltre che essere inserito nella generale azione volta ad aumentare la produttività.

L'IMPOSTAZIONE DI UNA POLITICA DI ELIMINAZIONE DEL DIVARIO

Nell'immediato dopoguerra - precisamente alla metà del 1946 - cominciò a concretarsi a Roma, presso il Ministero dell'lndustria, l'idea che l'eliminazione del divario Nord-Sud poteva essere conseguita solo avviando in modo risoluto un processo di industrializzazione di tutte le regioni meridionali; si ritenne in quel momento, da quel gruppo, che un simile indirizzo poteva già adottarsi nel corso della ricostruzione post-bellica, onde evitare che una ricostruzione avviata prescindendo dalla questione meridionale (come poi avvenne) determinasse un aumento del divario. Per affermare questa concezione si diede vita a fine 1946 alla Svimez, che già nel proprio nome volle affermare la sua ragion d'essere 3.
L'impostazione proposta allora dalla Svimez non venne mai presa veramente in considerazione nei dibattiti sullo sviluppo della nostra politica economica; anzi, venne interpretata come una scelta a favore dell'industria e contro l'agricoltura. Questo malinteso, che ancora dura, si manifestò anche in ambienti meridionali, il che concorse certamente a impedire che un serio dibattito sull'impostazione Svimez venisse aperto nel nostro Paese. A oltre trent'anni da quella enunciazione, occorre pur dire che essa è accolta praticamente su scala mondiale, anche dai Paesi sottopopolati nei quali il ruolo dell'agricoltura può essere relativamente maggiore che nelle aree che, come il Mezzogiorno, pur dopo quasi un secolo di rilevante emigrazione, sono ancora sovrapopolate. Né si tratta di una novità: Australia e Canada, tipici Paesi sottopopolati, non esitarono certo a dotarsi di un'industria all'inizio stesso del loro sviluppo. Del resto, alla recente conferenza di Cancun non si osò raccomandare all'India di non trascurare l'agricoltura. Insomma, l'agricoltura presenta certo importantissimi problemi; ne presenta però anche l'Alfa Sud; la difficoltà nell'affrontare il problema del divario risiede nel fatto che, supposti risolti quei problemi, rimane una forza di lavoro non occupata, che ha come unico sbocco l'emigrazione.
La questione meridionale si pone quindi nei seguenti termini, oggi come all'atto in cui si costituì la Svimez: posto (e dovrebbe essere superfluo dirlo) che si daranno le massime cure all'agricoltura, al turismo, ai giacimenti minerari e non ultimo all'industria esistente, resta una rilevante forza di lavoro non utilizzata per la quale lo sviluppo industriale costituisce la sola alternativa all'emigrazione. A questa impostazione si può aggiungere soltanto che l'alternativa migratoria oggi non esiste più; e del resto, neanche trent'anni fa poteva considerarsi accettabile.
Nell'affrontare il problema della creazione nel Mezzogiorno di circa 1,6 milioni di posti di lavoro, dopo scontata una emigrazione verso il Centro-Nord ipotizzata in 350.000 unità in un decennio, proporre ancora il discorso sull'agricoltura mi sembra significhi respingere, in principio, il solo discorso possibile sullo sviluppo meridionale.
Un'analoga questione di principio viene sollevata quando si indicano le piccole e le medie industrie, specie agricole, come quelle con cui può espandersi l'industria meridionale. Mi sembra che un processo di sviluppo richieda, molto semplicemente, che sopravvivano e sorgano gli impianti che risulteranno più convenienti nei successivi momenti in cui si prenderanno le decisioni di nuovi investimenti: siano tali impianti piccoli, medi o grandi, agricoli e non agricoli. Così si argomenterebbe nei riguardi dell'industria meridionale. Mi sembra che un processo di sviluppo richieda, molto semplicemente, che sopravvivano e sorgano gli impianti che risulteranno più convenienti nei successivi momenti in cui si prenderanno le decisioni di nuovi investimenti: siano tali impianti piccoli, medi o grandi, agricoli e non agricoli. Così si argomenterebbe nei riguardi dell'industria lombarda o di quella umbra. Quanto all'odierno problema dei grandi impianti, non e ormai più difficile apprendere che alla fine dell'ultima, guerra mondiale si apri per l'industria europea una fase molto favorevole per gli impianti che, utilizzando materie prime di importazione da altri continenti (minerali di ferro, petrolio, bauxite ed altro), fornivano economicamente, con attrezzature di grande dimensione, il prodotto richiesto da una serie di industrie manifatturiere - anch'esse in buona parte grandi e medio-grandi - che erano chiamate a soddisfare una rapida e crescente domanda dei prodotti più vari: automobili, navi, elettrodomestici, una moltitudine di prodotti chimici ed altro.
Anche per questo ordine di fenomeni, il 1973 ha segnato una svolta. Le materie prime di fonte extra-europea sono in misura crescente impiegate in impianti che sorgono nei Paesi che le producono, e i semi-lavorati sono utilizzati molto più di prima negli impianti manifatturieri costruiti nei Paesi emergenti. Per di più, si e molto rallentata, come detto in principio, la domanda interna dei Paesi europei.
Ridurre uno svolgimento tanto drammatico e dagli sviluppi ancora oscuri alla sola crisi dei grandi impianti (e, per il Mezzogiorno, alla evocazione dei gravi errori da non ripetere) e veramente puerile. Non si tiene conto che i grandi impianti generano una fioritura di imprese minori: il cosiddetto indotto. Il fenomeno si e ovviamente verificato anche nel Mezzogiorno, come vedremo fra poco, e toglie fondamento alla facile contrapposizione grande impresa - piccola impresa". E' tutto il sistema industriale, nelle sue varie categorie dimensionali, che è oggi in corso di conversione alla nuova situazione mettendoci di fronte, in sostanza, alle stesse esperienze, disgraziatamente su scala più vasta, vissute al tempo della conversione di industrie belliche in industrie di pace. Viviamo in campo industriale un dopoguerra, essendoci stata risparmiata la guerra.
Quanto al Sud, va tenuto presente che il ritardo con cui se ne è avviata l'industrializzazione non ha permesso che si affermasse quella diffusa imprenditorialità di cui e dotato il resto del Paese. E' quindi molto probabile che il progresso meridionale richieda un rilevante apporto dei maggiori gruppi pubblici e privati, apporto che può aversi solo con impianti di non piccola dimensione. Essi potranno poi generare un indotto di imprese di piccola dimensione. In una così complessa situazione, ammonire il Mezzogiorno - non le altre regioni - che esso deve attendersi solo piccoli e medi impianti rivela la persuasione che ci si rivolge a una società culturalmente molto arretrata.
Altra singolare posizione sulla industrializzazione meridionale e quella, ormai frequente, secondo la quale il Sud e invitato a non attardarsi sullo sviluppo industriale in un'epoca dominata dalla cosiddetta terziarizzazione. Il fenomeno della terziarizzazione e stato spiegato in termini definitivi già all'inizio del secolo (precisamente nel 1903) quanto il Taylor, in un breve saggio, chiari che progresso tecnico significava, già allora, aumento nel numero di coloro che, non addetti direttamente alla produzione, la rendono più economica. Il fatto che la terziarizzazione sia molto accelerata in questo nostro tempo, specie dopo l'avvento del calcolatore, non dovrebbe impedire di rendersi conto che essa -avvenga all'interno dell'impresa o fuori - e la condizione che rende competitivo l'investimento nell'agricoltura e nell'industria e che poi permette di gestire in modo efficiente la società che si costituisce col progresso economico. Non si può quindi, in aree dove il divario da anni non diminuisce, proporre la terziarizzazione come alternativa alle due reali linee di sviluppo economico: agricoltura e industria.

IL SISTEMA INDUSTRIALE MERIDIONALE A FINE 1980

L'occupazione nell'industria meridionale di trasformazione era, a fine '80, dell'ordine di un milione di unità, pari al 17% della complessiva occupazione dell'area; nel Centro-Nord la percentuale era del 31,1%. Nelle imprese che, con più di dieci addetti, sono definibile "industriali", gli occupati secondo le indagini lasm-Cesan erano 540.000; essi erano ripartiti tra i 9.114 stabilimenti esistenti come mostra la tab.

Da questa tabella si rileva che gli occupati in impianti aventi più di mille addetti rappresentano il 27% dell'occupazione industriale; e tale quota sale a poco più del 40% se, tra gli impianti di maggiore dimensione, si considerano anche quelli con più di 500 addetti. Il rimanente 60% si concentra per 2/3 in piccoli impianti (da 10 a 90 addetti) e per 1/3 in impianti medio-piccoli (da 100 a 499 addetti). Se si valuta che gli impianti con oltre 500 addetti generino nel Sud una occupazione industriale indotta tra il 30% e il 50% - assumiamo in prima approssimazione il 40% - agli impianti con più di 1000 addetti andrebbe attribuita una occupazione complessiva dell'ordine di 205.000 unità e a quelli tra 500 e 1000 addetti di 105.000 unità; in tutto 310.000 unità, pari al 57% dell'occupazione industriale meridionale, sarebbe dovuta, direttamente o indirettamente, agli impianti di maggiore dimensione. Una quota compresa tra il 25% e il 30% della occupazione degli impianti minori, tra 10 e 500 unità, sembra quindi generata dall'esercizio dei grandi impianti. Il contributo dato dai grandi impianti alla formazione dell'odierno sistema industriale del Sud e stato rilevante; né tale giudizio può essere modificato dal sopravvenire in parecchi di essi di uno stato di crisi. La crisi, in parte, e comune a quella che, per quel tipo di impianti, ha colpito l'Europa comunitaria; per altra parte, essa manifesta, in vari modi, la conseguenza di un'azione meridionalistica che, non illuminata dall'obiettivo della unificazione della nostra economia, ha finito per essere determinata in genere da decisioni prese in stato di necessità.

LA PROPRIETÀ NEL SISTEMA INDUSTRIALE MERIDIONALE

Gli addetti alle imprese industriali meridionali delle varie categorie dimensionali si ripartiscono come indicato in Tab. 2 in relazione alla natura dell'Ente che ne ha il controllo e alla sua sede:

Appare, dai dati della tabella, che le imprese locali a carattere 'privato danno occupazione al 44,7% degli addetti (ultima colonna); del 55,3% di addetti occupati da imprese aventi sede fuori arca, una meta circa (28,1%) fa capo a imprese private e metà (27,2%) a imprese pubbliche. Del 28,1% degli addetti a imprese private, appena poco più di un quarto e riferibile a imprese straniere; queste, dunque, sono state finora poco attratte dall'investimento nel nostro Mezzogiorno.
Dalla prima tabella si rileva che anche gli occupati nelle imprese con più di 500 addetti erano 220.000 a fine 1980; appare poi dalla seconda tabella che il 94% di essi - cioè 206.000 unità - erano addetti a imprese di proprietà non locale; e poiché si è supposto che le maggiori unità generino una occupazione indotta pari al 40% della propria forza-lavoro, le iniziative non locali avrebbero determinato una occupazione del seguente ordine:


Risulterebbe dai dati disponibili che, dei 540.000 addetti della industria manifatturiera meridionale, 380.000 (cioé oltre due terzi) apparterrebbero a imprese aventi sede non locale (circa 300.000) e a imprese locali la cui attività è però indotta da imprese non locali (le rimanenti 80.000). La percentuale degli addetti direttamente o indirettamente collegati con iniziative non locali e molto rilevante, tanto da richiedere un riesame di tutti i dati sui quali si fondano le precedenti elaborazioni. Fin d'ora si può però dire che il sistema industriale meridionale e profondamente diverso da quello del Centro-Nord, per la sua rilevante dipendenza da esso e per il ruolo che vi ha assunto l'impresa pubblica, come si rileva dalla Tabella 3.

La tabella mostra che gli addetti che, direttamente o indirettamente, fanno capo a imprese aventi sede fuori arca, si ripartiscono in parti uguali tra imprese pubbliche e imprese private; dei 540.000 addetti, il 35% appartiene a imprese private aventi sede fuori area, o a imprese locali da esse indotte, e il 35% a imprese pubbliche.


NOTE:
1) L'emigrazione verso l'estero era pressoché cessata dopo il 1970; a partire dal 1974 si é avuto un flusso di rientri valutabile in media intorno a diecimila unità all'anno.
2) Concorse notevolmente a dar vita all'iniziativa la circostanza che il piano cosiddetto di primo aiuto, primo intervento attuato dal governo italiano a partire dal 1946, era finanziato con disponibilità in dollari indirettamente forniti dalle regioni meridionali. Quella disponibilità si era infatti costituita con le rimesse che gli emigrati negli Stati Uniti, che erano prevalentemente meridionali, avevano continuato ad effettuare anche nel corso della guerra e con il controvalore in dollari delle Am-Lire la cui emissione, a partire dal 1943, aveva determinato nel Sud una inflazione tanto violenta da sconvolgere la vita di quelle regioni. Distrutti gli impianti napoletani, non fu possibile, con il piano di primo aiuto, evitare che la disponibilità in dollari, la sola in possesso del governo italiano, venisse utilizzata nella quasi totalità a favore del resto del Paese ove esistevano industrie riattivabili. Va aggiunto che l'idea della Svimez si può dire cominci ad affiorare a Milano già nel maggio 1945, quando ci si rese conto che non era possibile evitare che il piano di primo aiuto tagliasse fuori le regioni che, più sconvolte dalla guerra e dall'inflazione, maggiormente ne avevano bisogno.
3) Vedi il terzo paragrafo


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