Alla ricerca di un progetto politico per la crescita economica degli anni '80




Claudio Alemanno



L'abnorme sistema politico italiano rispetto ai modelli consolidati della democrazia occidentale, centrati attorno a due grosse aggregazioni di fede democratica, riflette la condizione reale di una società civile frammentata ed impone alla classe politica la ricerca faticosa di una continua duttilità nell'esercizio dell'arte di governo. Una borghesia sinceramente democratica, ma non disponibile a perseguire obiettivi di egemonia assoluta sulla società, ha sempre impedito la formazione di un partito liberale di massa e quella del suo naturale antagonista, un grande partito socialriformista, preferendo delegare i compiti di governo ad un'area centrale composita in cui la componente cattolica ha assunto di fatto il ruolo di garante.
Questa anomalia, che in passato faceva dell'Italia un Paese marginale e ad alto rischio rispetto al quadro politico dell'Occidente, oggi assume valori e contenuti politici positivi in presenza di una realtà sociale europea mal disposta verso ogni forma di egemonia e disponibile invece a realizzare una elaborazione sempre più articolata del consenso.
Questa constatazione rende, nel nostro Paese, impraticabile l'affermazione di progetti politici troppo audaci, costruiti in qualche laboratorio di partito che in nome di una gestione più efficiente del potere di fatto risultano limitativi dello spazio dato alla rappresentatività politica delle istanze sociali.
C'è ad esempio nell'area socialista la convinzione che il sistema di pianificazione più o meno rigida arriverà a dominare l'intera economia fondendosi, attraverso aggiustamenti tecnocratici, con l'apparato statale e giungendo per questa via alla creazione di un ordine mercantile meno anarchico. Ma, a ben guardare, queste sono osservazioni statiche e astratte di fenomeni dinamici. E' come supporre che il successo di una squadra di calcio sia dato dagli stadi pieni di gente che urla e beve birra. Gli aspetti decisivi delle grandi scelte economiche, come quelli delle grandi imprese, non sono quantitativi ma qualitativi. Il limite attuale dei sistemi economici occidentali è dato dal fatto che essi sono divenuti altamente rigidi e specializzati e solo in termini statici enormemente produttivi. Le grandi imprese stanno sperimentando assetti migliori in campo internazionale, ma dal punto di vista della crescita economica assumono scarsa rilevanza per i sistemi politico-sociali.
I profeti della transizione al socialismo inseguono i1 futuro scrutando pertinacemente l'obsoleto. Leggendo le loro analisi si sarebbe indotti a ritenere che gli operai dell'auto o della siderurgia siano le figure rappresentative dell'economia capitalistica del futuro.
Questi in realtà sono esempi della sclerosi e della stagnazione della macroimpresa, i cui equilibri vanno ricercati per assicurare una pace sociale comparabile col grado attuale raggiunto dallo sviluppo economico.
Ma il futuro della crescita che interessa più da vicino un progetto politico non può ignorare l'avvento impetuoso dell'informatica, della microelettronica delle telecomunicazioni, di tutta la miriade delle nuove tecnologie energetiche degli sviluppi rivoluzionari imposti dalla robotistica nella esecuzione dei processi produttivi della microbiologia, delle innovazioni nel campo della stampa, della scienza, dei laser e della farmacologia. Il problema della mobilità assume in questo contesto valenza politica e sociale di prima grandezza.
Va chiarito che il processo di razionalizzazione e di burocratizzazione, che mette un'impresa in condizione di essere la più produttiva di un settore, tende a renderla meno flessibile e inventiva. La preoccupazione eccessiva per la produttività statica può portare dunque ad un'economia rigida e a lungo andare improduttiva. I segni di questa evoluzione sono sotto gli occhi di tutti e devono essere colti come terreno necessario per governare il presente, ma non sono sufficienti per elaborare un progetto politico disposto a promuovere la crescita nel futuro.
Non a caso si usa dire che nel sistema economico attuale è molto difficile entrare mentre è relativamente facile rimanervi! Sulla crisi dei sistemi la stessa sinistra europea, attraverso i suoi intellettuali più rappresentativi, e concorde nell'attribuire ai "tratti illiberali", presenti nelle società a pianificazione centralizzata, la ragione principale dell'insuccesso economico. Quando si è trattato di procedere alla industrializzazione dei settori di base tramite i grandi gruppi, le economie di scala hanno funzionato ed i risultati sono stati apprezzabili. Quando invece si è trattato di passare alla fase della produzione dei beni di consumo ed alla specializzazione della agricoltura, quelle economie di scala non hanno funzionato più. Sarebbe stato necessario un sistema di decisioni differenziate e articolate, che invece non c'è stato perchè incompatibile con i canoni propri del centralismo economico. Riconoscere infatti l'autonomia aziendale sul piano produttivo avrebbe portato alla autonomia anche sul piano del lavoro, con il riconoscimento alle organizzazioni dei lavoratori di una reale capacità di discussione e di decisione. Si sarebbe messa in moto per questa via una dialettica che avrebbe avuto presto o tardi dei riflessi anche sul piano dell'organizzazione politica, costituzionalmente disposta in modo accentrato. Intuita questa interdipendenza in tutta la sua portata, le riforme economiche sono state bloccate; in sostanza esse si sono arenate sullo scoglio della natura politica dello stato socialista.
Nel Paesi socialisti europei il danno è stato duplice, sia perchè è stata adottata la pianificazione centralizzata, sia perchè questa soluzione è stata imposta e strutturata come derivazione e integrazione di un modello esterno, quello sovieto.
Per il Keynesismo, che ha guidato nel dopoguerra lo Stato sociale affermatosi nell'Occidente democratico, il discorso è diverso. La sua crisi deriva dalla degenerazione improduttiva e parassitaria della politica della spesa pubblica. Keynes in verità elaborò le sue proposte in una fase di grave ristagno economico e c'è da dire che, per principio, egli non era sostenitore di una spesa pubblica qualsiasi, improduttiva o finanziata in deficit. Se le sue proposte sono poi diventate sinonimo di espansione assistenziale, ciò è dovuto all'uso che ne hanno fatto i circoli dirigenti dei Paesi capitalistici, preoccupati di garantire il consenso sociale e di mediare i conflitti assecondando le pretese corporative dei gruppi economici organizzati. Nella degenerazione delle politiche keynesiane della spesa anche la sinistra europea, compresa quella italiana, ha la sua parte di responsabilità perchè ha propugnato e voluto ad ogni costo i salvataggi industriali, la cassa integrazione, le pensioni di comodo, ecc.
Oggi comunque i tratti. assistenziali della politica keynesiana non sono più praticabili proprio per le conseguenze negative provocate dai loro effetti. Le linee di tendenza socialiste sembrano orientate ad appropriarsi dei fattori positivi dell'evoluzione dello sviluppo capitalistico (riduzione del divario tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, controllo dei mezzi di produzione pubblici e privati, ecc.) proiettandoli verso una trasformazione in senso socialista della società, intesa principalmente come riduzione progressiva delle barriere tra le classi e quindi come massificazione dei bisogni e dei consumi sociali e individuali.
Naturalmente anche la sinistra (sindacati compresi) deve fare i conti con i problemi economici, che non sono una invenzione delle forze conservatrici: come rilanciare l'accumulazione, come fare politiche che diano respiro ai profitti, come creare condizioni più favorevoli allo sviluppo ed alla profittabilità delle imprese pubbliche e private. Più che alla politica di piano sembra che, per l'immediato, la sinistra dia credito alla capacità di controllo dei mezzi di produzione. La programmazione viene considerata come un risultato ciò deriva la ricerca e la definizione di un insieme di controlli diretti ed indiretti che attengono all'efficienza ed A funzionamento del settore pubblico, passando talvolta anche attraverso il trasferimento transitorio di risorse economiche al settore privato.
Questa elaborazione concettuale di fondo della sinistra europea è in larga parte condivisa della sinistra italiana e in particolare da quella francese attualmente al potere. Il tentativo operato da Mitterrand si muove su linee opposte a quelle del liberismo economico. L'offensiva è basata su due postulati: il principio delle nazionalizzazioni generalizzate e l'impostazione espansiva del bilancio pubblico, realizzata dal lato degli investimenti e non da quello della domanda dei consumi.
La vicenda delle nazionalizzazioni ha un notevole peso per la gestione ed il controllo politico del potere economico. Se alle nazionalizzazioni si aggiungono le misure fiscali adottate per acquisire parte delle risorse destinate all'operazione, si può dire che saranno utilizzati non pochi dati di fatto perchè contro il Governo venga eretto il muro del denaro e della impopolarità sociale. Intanto è in atto uno sciopero degli investimenti, ormai fermi da mesi, cui il Governo sta cercando di ovviare con allettanti proposte alle imprese.
Il tasso di autofinanziamento delle imprese che nel 1978 era del 76% è già sceso, nel secondo trimestre dell'anno scorso, al 36%.
Ancora, si deve registrare un tasso di inflazione del 14,1% (marzo 1982, contro il 13,9% del mese precedente), un grave deterioramento del franco e della bilancia commerciale e valutaria, un disavanzo pubblico passato da 140 miliardi nell'81-82 ad oltre 200 miliardi della previsione dell'83.
Ci sono poi i primi segnali di un conflitto sindacale, di cui una recente testimonianza è fornita dallo sciopero di 7000 dipendenti della Renault, promosso dalle Confederazioni Sindacali per ragioni che esulano dal contesto aziendale e si iscrivono invece nella valutazione dell'operato governativo, considerato troppo morbido nei confronti del padronato. Con tutti questi paletti posti lungo il suo accidentato cammino, Mítterrand sarà costretto a rivedere molti punti del suo programma iniziale. Intanto ha deciso di aggirare gli ostacoli interni aprendo le braccia ai capitali stranieri. E' uno stato di assoluta necessita, che si concilia malvolentieri col principio della porta chiusa, più congeniale allo spirito francese di "grandeur". In Francia pertanto si va delineando un lungo periodo dominato dalla ricerca di faticosi compromessi tra la volontà di rottura con il capitalismo e la possibilità reale di sostituire i tradizionali centri di potere con la costituzione di nuovi aggregati sociali.
Questo progetto pilota ricco di idee è ancora scarso di mutamenti reali non sembra certo adattabile alla società italiana, più articolata e meno disponibile ad uscire dalla crisi economica con ricette nazionalizzatrici o con soluzioni astratte predisposte nei laboratori dei partiti. Ed infatti la sinistra italiana non propone nazionalizzazioni ma una tematica più duttile e felpata che, avendo alla base gli stessi obiettivi di egemonia politica, contiene varianti apprezzabili solo di tipo strategico (riforme costituzionali, istituzionali, amministrative come presupposto per la ricerca di mi nuovo ordine economico peraltro non ancora definito).
Ma questo disegno è praticabile? Ed è realmente utile per attivare un progetto di crescita economica che contenga chiare direttive di riferimento sul piano industriale? Al di fuori delle dispute sulla egemonia politica, che contraddistinguono ogni disegno riformatore, corre l'obbligo di verificare in primo luogo se esso può dare una risposta convinta e positiva ai 2.500.000 disoccupati (e forse più) che attendono di essere recuperati dal mercato del lavoro. Va sottolineato che trattasi dell'unico progetto elaborato dall'area di governo, I cui caratteri innovatori sono opera di una ingegneria riformatrice posta al servizio di una società virtuale, estranea alla dinamica dei conflitti che attraversa la nostra Società civile. Le altre forze di governo non hanno elaborato progetti, per incuria o realismo politico. Resta il dato essenziale dei problemi posti dall'inflazione e dal ristagno che, surrogando l'azione politica, incidano sul tessuto civile mutando il peso specifico delle varie aggregazioni sociali.
Non ad un modello di Società pretestuosamente egalitaria bisogna dunque riferirsi, ma alla Società così com'è, con i suoi bisogni, le sue aspettative, i suoi impulsi creativi. Per la gestione dei suoi conflitti, la filosofia ed il modello ormai sperimentato di una economia sociale di mercato, allo stato attuale, non hanno alternative. Nell'area comunitaria non siamo certo soli a camminare lungo questo sentiero, anche se nel suo variegato contesto dobbiamo constatare che, insieme ai tedeschi, esprimiamo emblematicamente le due tendenze più significative di segno opposto.
La Germania, con un tasso di inflazione che si aggira sul 5%, riesce a rinnovare i contratti di lavoro con un aumento salariale mediamente inferiore di un punto rispetto all'indice inflattivo. Questo Paese riesce a dare risposte alla depressione, operando una redistribuzione di risorse dai consumi agli investimenti, ed appare fermamente orientato a favorire il processo di accumulazione, con l'obiettivo di preparare l'apparato industriale a fronteggiare la congiuntura internazionale con la forza di una maggiore capacità produttiva e soprattutto di un elevato grado di innovazione.
L'Italia ha raggiunto il traguardo minimo del contenimento della inflazione al 16%, ma è un risultato effimero nel contesto di una congiuntura internazionale favorevole. Un secondo aspetto negativo di questo 16% è che è stato raggiunto non attraverso l'attribuzione di una maggiore quantità di risorse indirizzate verso l'accrescimento della dimensione e della efficienza del sistema produttivo, ma al contrario, penalizzando gli investimenti.
Occorre quindi un serio impegno politico a costruire lo Stato sociale mai realizzato, depurandolo dalle degenerazioni che l'assistenzialismo e l'inflazione hanno prodotto nell'ultimo decennio. La crisi del Welfare-State non significa che esso debba essere distrutto o smontato, ma semplicemente ristrutturato e trasformato, evitando ricette di tipo conservatore, incentrate su soluzioni monetariste o prevalentemente tali, ma anche quelle suggerite dalle socialde mocrazie occidentali che, se non sono attratte da tentazioni nazionalizzatrici, propendono a privilegiare eccessivamente la teoria dell'offerta, ritenendo che i "fattori di rischio" (ad esempio il rischio occupazionale) sono da attribuire alla sfera individuale e non più a quella collettiva. Un fattore che contraddistingue le difficoltà dello Stato assistenziale, in cui viviamo in Italia, risiede nei suoi limiti tecnico-strutturali. I danni ed i costi provocati dalle attività industriali (basti pensare all'ambiente, alla salute, alle carenze dei più recenti insediamenti metropolitani) crescono in misura superiore alle quote fiscali che l'apparato statale destina per porvi rimedio. Si è instaurato, insomma, un circolo vizioso che non consente di liberare risorse sufficienti da destinare all'attuazione di un modello economico-produttivo. La crescita risulta essere bloccata, o comunque non più produttiva, ne in termini economici ne in termini sociali, per cui riteniamo che l'azione di guida politica dovrà svilupparsi nei prossimi anni su due fronti: nel breve periodo, per ricercare risorse da destinare ad investimenti produttivi, lasciando intatta la struttura tecnico economica esistente, all'interno della quale occorre ridare spazio e respiro ai meccanismi della accumulazione e del profitto; nel medio e lungo periodo, per avviare la ricerca e la messa a punto di un modello integrativo rispetto a quello attuale, che per alcuni versi sembra esaurito nella capacità di stimolare la produzione di forme nuove di ricchezza.
Un programma proiettato verso la crescita economica deve naturalmente essere animato da una offerta selettiva, polche in molti casi avremo nuovi prodotti di impresa che verranno ad alimentare la domanda. Tuttavia non è inutile ricordare una vecchia legge della teoria economica, secondo cui l'offerta crea la domanda mentre l'offerta sovvenzionata la distrugge. La produzione, non verificata da un mercato disposto ad assorbirla, e una forma di consumo mascherato che nonostante le apparenze non stimola ma deprime il sistema economico. Lo stimolo artificiale, come l'assuefazione alle droghe, richiede dosi sempre maggiori per ritrovare l'effetto iniziale e l'Azienda Italia rappresenta in questo senso un valido test irrisolto.
Per mettere in movimento un meccanismo di questa portata occorrono sacrifici per un arco di tempo minimo, dai tre ai cinque anni, che le forze politiche, per non alienarsi il consenso elettorale, non osano chiedere o preferiscono rinviare, giocando al massacro di tutti per evitare l'impopolarità di qualcuno.
Si chiede dunque alla classe politica di agire sull'economico e sul sociale senza progetti elefantiaci ed ambiziosi che hanno poche probabilità di successo nei tempi stretti in cui e necessario operare. Si chiede di procedere a piccoli passi per assicurare funzionalità al sistema economico e per rendere la sua efficienza compatibile con le posizioni già acquisite dalla società italiana nella divisione internazionale del lavoro.
Le riforme possono essere introdotte con un'azione di ricerca pragmatica, condotta sul versante amministrativo più che su quello istituzionale e diretta a liberare risorse da destinare ad investimenti produttivi ed a ridurre l'appropriazione pubblica delle disponibilità finanziarie. Secondo l'ultima relazione della Banca d'Italia (maggio 1982) il deficit complessivo del settore pubblico allargato assorbe oltre il 65% del risparmio lordo delle famiglie e viene impegnato in prevalenza per l'adempimento di spese correnti e solo in via residuale in investimenti produttivi. La sua incidenza sul Prodotto Nazionale Lordo e pari al 10,3% contro appena il 3,6% fatto registrare in Germania. In ciò consiste il grave fenomeno di spiazzamento del disavanzo pubblico, con la conseguente vischiosità dei suoi effetti sull'intero sistema. La funzionalità e l'efficienza del settore pubblico attiene ai compiti ed alla responsabilità della direzione politica che lo governa. Occorre dunque esercitare il primo, serio impegno riformatore in questa direzione, abbandonando la vecchia regola marinara ancora largamente in uso: andare avanti adagio, quasi indietro!

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