§ INFLAZIONE IN RITIRATA?

Come vincere la scommessa




Ulrico Buttini



Le valutazioni congiunturali del momento differiscono per il modo in cui accostano un elemento certo (il recente peggioramento della bilancia valutaria) e un elemento tuttora incerto (se sia in corso una ripresa produttiva). Dato il vincolo esterno, coloro i quali vedono la ripresa, la vedono con una certa preoccupazione. Nelle attuali condizioni, l'economia italiana non può permettersi di crescere ad un ritmo più veloce di quello, praticamente immobile, dell'economia internazionale. Pena, l'aggravarsi dei conti con l'estero dopo il miglioramento, ma non il riequilibrio, avvenuto nello scorso anno. Occorre allora considerare l'opportunità di restringere (ulteriormente) la domanda interna, con strumenti monetari o fiscali.
Coloro i quali, invece, non vedono ancora chiari sintomi di ripresa, hanno ragione di essere ancora più preoccupati. Denota peggiore tenuta un'auto che esca di strada rispetto ad una che procede a più bassa velocità. Se non èdovuto alla ripresa, lo sbandamento dei conti con l'estero riflette principalmente la perdita di competitività delle merci italiane, nel mercato nazionale e nei mercati esteri. Essa è causata a sua volta dall'inflazione italiana che supera quella media estera in misura maggiore del "recupero" consentito dal deprezzamento del cambio della lira (deprezzamento che d'altra parte ha concorso esso stesso ad alimentare l'inflazione italiana).
Esiste - come quasi sempre - una diagnosi intermedia. E' in corso una ripresa forse non della produzione, ma delle scorte di materia prima d'importazione. Il deposito obbligatorio sulle importazioni, introdotto nel mese di maggio '81, aveva indotto le imprese a ridurre all'osso tali scorte; aveva per converso accresciuto le scorte di riserve valutarle presso le autorità monetarie; nonchè, forse, le scorte di tranquillità presso le parti politiche e sociali, le quali sembrano in grado di assumere decisioni coerenti contro l'inflazione solo quando gli indicatori di squilibrio esterno superano livelli allarmanti.
L'eliminazione del deposito ha poi avuto gli effetti attesi, determinando la ripresa delle importazioni, la concentrazione dei pagamenti delle importazioni, il parziale rimborso dei debiti in valuta delle imprese, anche in seguito alla liquidità ad esse affluita per il rimborso del deposito.
Questa terza interpretazione, per la quale propendiamo sulla base degli indicatori disponibili al momento in cui scriviamo, non esclude comunque il dato di fondo: la tendenziale debolezza delle partite correnti a causa del differenziale di inflazione.
Se il disavanzo fosse dovuto soprattutto ad una ripresa della domanda, nelle attuali condizioni di stagnazione internazionale, una nuova stretta sarebbe spiacevole, ma appropriata. Se invece, (al di là degli effetti del deposito e della sua abolizione), il disavanzo è dovuto soprattutto alla perdita di competitività dipendente dal rientro insufficiente dall'inflazione, gli strumenti appropriati sono quelli del controllo del bilancio pubblico, dei costi di produzione e delle altre cause di inflazione diverse dall'accesso di domanda.
In carenza di interventi adeguati su questi fronti, si userà la restrizione della domanda ancora una volta: sarà un uso forzato, ma improprio e gravemente costoso in termini di occupazione. La responsabilità dovrà esserne attribuita non a coloro che imporranno la stretta monetaria o fiscale, ma a coloro che - con la forza o con la debolezza - non hanno condotto sotto controllo la dinamica del bilancio pubblico e dei costi.

Non giova ripetere in questa sede quali interventi sarebbero necessari. Essi sono largamente noti, generalmente condivisi, solitamente non applicati. Ci limiteremo a due osservazioni su aspetti forse non sempre tenuti presenti, relativi l'uno al costo del lavoro e l'altro alla finanza pubblica, vale a dire, relativi entrambi alla metodologia per passare dalle enunciazioni alla loro realizzazione.
Sul costo del lavoro, riesce difficile capire anzitutto Perché gli imprenditori italiani si rifiutino oggi di aprire le trattative per i rinnovi dei contratti. Nel periodo più recente, in vari paesi sono stati gli imprenditori ad aprire vertenze che si sono poi chiuse con accordi estremamente moderati, che in vari casi prevedono la riduzione dei salari nominali, date le condizioni dell'economia internazionale e le politiche restrittive nazionali. Considerati i livelli dei salari italiani, un analogo esito non appare né probabile né desiderabile.
Ma considerata la dinamica del costo del lavoro per unità di prodotto in Italia, èdifficile immaginare condizioni esterne più favorevoli di quelle odierne per argomentare la necessità quanto meno di accordi intesi ad accrescere la produttività (sul lavoro, non passando il lavoro in cassa integrazione).
D'altra lato, riesce difficile capire perché i sindacati sostengano - seguiti da un'ampia pubblicistica - che costituirebbe atto gravissimo la disdetta dell'accordo del 1975 sulla scala mobile. Che cosa intendevano essi, precisamente, quando il 25 gennaio del 1975 sottoscrissero l'articolo 8, che prevede il tacito rinnovo di anno in anno, salvo disdetta data da una delle parti almeno sei mesi prima? E per quale altra via potrebbero, essi stessi, tradurre in concrete modifiche del meccanismo le numerose critiche che hanno anch'essi formulato in dozzine di convegni?
Sulla finanza pubblica, una sola osservazione. Qualunque sia il canale che genera l'inflazione, l'inflazione non può esserci se una quota rilevante del risparmio nazionale è presa a prestito, contro pagamento di interessi, per essere distrutta invece che trasformata in capitali produttivi, capaci di creare reddito nazionale. L'inflazione, in tali condizioni, è il solo modo per riconciliare a posteriori la promessa di pagare interessi nominali con l'impossibilità di farlo in termini reali.
Questo fabbisogno di inflazione è determinato perciò dai disavanzi correnti, del settore pubblico come delle imprese in perdita. Che tali disavanzi correnti esistano, e certo un problema "reale" che richiede interventi sulle variabili reali. Ma se quel disavanzi vengono permanentemente finanziati, spesso mediante vincoli che spiazzano il finanziamento degli investimenti produttivi, ci sembra difficile affermare che non vi sia un qualche disordine nella struttura finanziaria, da superare rendendo questa meno arrendevole alle occorrenze degli operatori in disavanzo corrente e meno impervia agli operatori che vorrebbero effettuare uno o più investimenti produttivi.
Meccanismi presenti da tempo nella struttura finanziaria italiana, di cui il massimale sui prestiti bancari non è che l'esempio più emblematico, sono stati posti in atto e vengono mantenuti con la retta intenzione di combattere l'inflazione. In realtà, a lungo andare, essi la alimentano, in quanto plasmano la struttura finanziaria e bancaria in modo tale da rendere più facile il dirottamento del risparmio finanziario verso destinazioni improduttive.
Va ricercata - e non è impossibile trovare - una modifica alquanto radicale dei meccanismi in questione. Essa è condizione necessaria (non certo sufficiente) perché l'inflazione venga durevolmente ridotta.
Si dice: bravi no, fortunati forse. L'inflazione in qualche modo è calata, e tutti si domandano se il "raffreddamento" durerà ancora a lungo e sarà tale da avvicinare il nostro sistema economico a quelli più evoluti e concorrenti. Gli esperti concordano nel giudicare questa parziale riduzione del ritmo di crescita dei prezzi come l'effetto combinato della stagnazione sui mercati delle materie prime e del petrolio, della recessione e della "stretta" creditizia, non dei comportamenti. Via, dunque, ogni titolo di merito? Sembrerebbe di si.
La discesa del tasso d'inflazione dal 22,5 per cento d'inizio '81 a quello tendenziale d'aprile '82, pari al 15,5 per cento, è interpretata con diverse sfumature. I pessimisti agitano i differenziali d'inflazione, ovvero il confronto costante e necessario fra i ritmi di incremento dei prezzi dei vari paesi, indice di una accresciuta o diminuita competitività dei prodotti interni.
Nel paragone con la Germania Federale, da dicembre '81 a marzo '82, il differenziale è sceso dall'11,8 all'11; con il Giappone è passato dal 13,8 al 13; con la Francia dal 4,1 al 2; con gli Stati Uniti è cresciuto dal 9,2 al 9,4. Piccoli e insignificanti progressi secondo alcuni; sintomi incoraggianti secondo altri.
Lecito attendersi, dicono all'Isco, ulteriori rallentamenti del tasso d'inflazione. E' un fenomeno mondiale e i listini delle materie prime tenderanno ancora a sgonfiarsi. Il petrolio è prevedibile che, per l'intero 1982, non si scosti molto dai trenta dollari al barile. Tutti i principali paesi industrializzati sono impegnati a contenere il tasso d'inflazione.
Ma ognuno pensa solo a fare ordine in casa propria, anche a spese degli altri, come nel caso degli Stati Uniti, dove si è rovesciato il tradizionale meccanismo che voleva i mutamenti di cambio conseguenza dell'inflazione. E ha pagato, e continua a pagare, l'Europa.
L'Isco avverte che il nostro paese, pur avendo abbattuto il proprio tasso d'inflazione, nel corso del primo trimestre, di poco più di un decimo, ha compiuto un passo avanti superiore a quello, per esempio, della Repubblica federale tedesca o del Giappone (nello stesso periodo, una riduzione di un quarto), "perché partita da un gradino più alto".
Gli imprenditori sostengono che parlare di una prima vittoria contro l'inflazione è un gioco pericoloso di illusioni economiche. E' solo diminuita - è scritto nel documento della Confindustria - per un aggancio con la ripresa la velocità con cui il nostro paese si allontana dall'area dei sistemi industrializzati".
Il costo delle materie prime, sostiene la Direzione. centrale per i rapporti economici della Confindustria, è diminuito in tutto il mondo, ma noi ne abbiamo beneficiato pochissimo. Nel marzo scorso, sul mese precedente, i prezzi in dollari sono scesi dell'1,3 per cento, ma in lire sono saliti, per colpa del cambio, dell'1,2 per cento. Il confronto marzo '82 su marzo '81, è una diminuzione del 3,3 per cento in valuta Usa e un rialzo del 24,4 per cento in moneta italiana.
Secondo questa interpretazione, il "traguardo" di una inflazione europea a tassi accettabili può essere solo il risultato di una vigorosa azione sui fattori strutturali, costo del lavoro e del denaro, spesa pubblica, investimenti produttivi. E l'esempio è quello della Repubblica federale tedesca, dove è stato pattuito un incremento dei salari nell'82 del 4-5 per cento. Per gli imprenditori, l'obiettivo del 16 per cento potrà dirsi raggiunto solo se a fine anno si avrà un tasso tendenziale d'inflazione attorno al 12 per cento.
L'economista Paolo Onofri nota che un valore medio, al termine dell'82, del 15 per cento è prevedibile, a condizione che i salari non crescano più del 17,5 per cento e non vi siano altri sostanziali mutamenti nei costi di produzione. E' una "proiezione" che trova il proprio fondamento in una situazione "congelata", dalla quale sono escluse quelle che Onofri chiama le "bombe a termine" dei contratti e della riforma delle indennità di fine rapporto.


La previsione del 15 per cento, afferma Prometeia, è compatibile solo con aumenti fisiologici del costo del lavoro, con i contratti attuali. Ma c'è già un piccolo campanello d'allarme. Nel primi due mesi dell'anno i salari sono aumentati sul corrispondente periodo dell'81 del 21,5 per cento e per confermare un valore medio nell'82 del 17,5 per cento nel quarto trimestre, dell'anno, dovrebbero decelerare al 14,3 per cento rispetto al corrispondente periodo dell'8l.
La "proiezione" di Onofri e di Prometeia tiene conto del parallelo andamento fra prezzi al consumo e prezzi all'ingrosso. I primi sono così variati, nel confronto trimestre su trimestre precedente, rapportato ad anno:
+ 22,5% (primo dell'8l);
+ 18,3% (secondo dell'8l);
+ 11,7% (terzo dell'81, contenuto per fattori stagionali);
+20,2% (quarto dell'81);
+16,1% (primo dell'82).
Ma se si considera la media del trimestre febbraio-aprile il valore è ancora più basso: al 14,9 per cento.
I listini all'ingrosso hanno seguito questo grafico:
+21,1% (primo dell'81);
+22% (secondo dell'81);
+14,7% (terzo dell'8l);
+17% (quarto dell'8l);
+13,4% (primo dell'82).
Sono ottimista - rileva l'economista Fabio Gobbo - su un ulteriore raffreddamento dell'inflazione. I prezzi delle materie prime rimarranno deboli. E forse ci aiuterà un possibile calo del dollaro. Si è convinti che gli Stati Uniti abbiano la necessità di sostenere gli investimenti e i consumi. E il dollaro non riflette più il prodotto interno lordo Usa.
Ma in caso di ripresa, è logico attendersi un ritorno all'inflazione? Rispondono gli economisti; è chiaro che se tutti decidessero contemporaneamente di ricoprirsi e di riportare le scorte ai livelli normali, la domanda si gonfierebbe in misura abnorme e farebbe lievitare i prezzi. Nessuno ritiene però che si vada incontro a una situazione di questo genere.
Un'inflazione meno violenta e con una minore carica distruttiva: ma con quali costi? Risponde Gobbo: "A differenza del precedente periodo di "raffreddamento" dei prezzi, quello del '75-76, l'attuale situazione èdecisamente migliore. Allora il calo fu dovuto quasi esclusivamente ad una flessione della domanda. Negli ultimi mesi abbiamo assistito ad una riduzione dei costi dovuta anche ad una maggiore produttività del sistema. Ma è anche vero che molti degli oneri delle imprese sono stati scaricati sulla collettività, con i prepensionamenti e con la cassa integrazione".
In sostanza, si pone una serie di interrogativi sulla capacità di crescita del sistema e sulla possibilità di un riequilibrio dei conti con l'estero, sulla stabilità del cambio.
In questi giorni, la Comunità economica europea sta discutendo il nuovo listino dei prezzi agricoli, con un aumento medio proposto del 10,7 per cento (13,2 per cento con la svalutazione del 2,5 per cento della lira verde) che, se varato, avrà certamente un discreto influsso sui prezzi al consumo di molti prodotti alimentari. Per Bruxelles ogni punto in più equivale a una lievitazione dello 0,25 per cento annuo dell'inflazione. "Noi siamo un elemento frenante - afferma la Confagricoltura - i nostri prezzi sono sempre aumentati meno dell'inflazione. Quelli stabiliti a Bruxelles sono soltanto indicativi, poi il mercato dirà quali sono quelli veri. E oggi i prezzi agricoli all'origine sono più vicini al livello d'intervento, molto più basso di quello indicativo. Facciamo l'esempio dei cereali, base delle produzioni agricole. Un quintale di grano tenero in maggio, con un prezzo indicativo di 30.762 lire è venduto mediamente in Piemonte a 26/27.000 lire. E un quintale di grano duro a 36.000, anziché a 40.879 lire.
Gli effetti dei nuovi prezzi agricoli dunque, saranno lievi. Ma l'inflazione la creano gli altri, non noi".
Comunque, non è il caso di dire addio all'inflazione: lo dicono le statistiche dei bilanci familiari. Anche l'inflazione, infatti, ha il suo "Guinnes" dei primati. I maggiori incrementi, calcolati, ha il suo "Guinnes" dei primati. I maggiori incrementi, calcolati nell'aprile '82 sul corrispondente mese dell'81, sono stati registrati dai francobolli (+50%) dall'energia elettrica (+29,7%), dal riso (+29,1%) dalla carne congelata (+28,7%), dai tabacchi (+28,5%) e dal lattiero-caserai (+ 25,7%). Il primato verso il basso lo hanno invece raggiunto i motorini di una marca nota (+ 3,8%), i1 caffé tostato (+ 5,1%), la frutta fresca (+ 6,2%) e alcuni pezzi di ricambio per le auto (+6,3%).
I dati resi noti dall'Istat si riferiscono ad aumenti medi nazionali dei prezzi al consumo, elaborati su base annua. L'inflazione accelera e rallenta. E le tensioni che permangono su alcuni "beni caldi" autorizzano a diffidare delle notizie di "clamorosi raffreddamenti" della corsa dei prezzi. Esprimiamo riserve sul generale ottimismo e saremmo molto cauti, dicono alla Direzione della Contabilità Nazionale dell'Istat. E' vero, aggiungono, l'inflazione è scesa di due punti, ma se i prezzi galopperanno con un aumento medio mensile dello 0,9 per cento e non si verificheranno avvenimenti eccezionali nei prossimi mesi, l'indice del costo della vita chiuderà l'intero '82 con un aumento del 17 per cento. Sarà difficile rimanere al di sotto.


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