§ L'EMERGENZA ECONOMICA

Il gioco e il massacro




Dario Giustizieri, Lucio Tartaro



L'impressione e che, se continuiamo ostinatamente ad applicare all'economia italiana gli schemi logici e le razionalità dei libri di testo, finiremo un giorno per subire delusioni cocenti. Non più di pochi mesi fa, con l'indice dei prezzi al consumo al 17,3 per cento ed il rendimento dei Buoni del Tesoro trimestrali al 18,65 per cento, si gridò da più parti allo scandalo per la decisa resistenza delle autorità monetarie a prendere atto, con una riduzione di due o tre punti del saggio di sconto, dell'avvenuta svolta antinflazionistica. A guardare come stanno le cose oggi, ci sarebbe da chiedersi quale disastro valutario avrebbe colpito il nostro paese, se si fosse ceduto a quelle frettolose invocazioni espansionistiche.
Siamo scesi al di sotto del 16 per cento d'inflazione e nemmeno una risalita dei tassi (i BoT a tre mesi rendono adesso il 19, 34 per cento) ha evitato che si spendessero in poche settimane circa tre miliardi di dollari in riserve per scongiurare un'altra svalutazione del cambio che, comunque, si staglia sempre più minacciosamente all'orizzonte.
I massimi storici toccati dai tassi d'interesse in Italia alla fine del 1981 verranno probabilmente superati tra non molto, anche se l'inflazione dovesse proseguire nella sua frenata lunga. In trenta mesi di ininterrotta ascesa dei tassi (contro I 16 e I 10 mesi che accorsero per superare le crisi del 1973-74 e del 1976-77) la lira ha già svalutato per ben due volte, e ciò dimostrerebbe che anche la più classica delle armi monetarie si e ormai definitivamente spuntata. Il ragionamento secondo cui tutto ciò dipenderebbe esclusivamente dalle perturbazioni del quadro internazionale, a questo punto, può non convincere più; nemmeno il fatto che il rendimento del denaro e oggi ovunque positivo basta a spiegare l'anomalia della situazione italiana. E' ormai l'intero sistema finanziario del Paese a "congiurare" contro la logica e il buon senso di un equazione stretta fra inflazione e costo del denaro. Tanto e vero che, come sosteneva recentemente un economista, "la riduzione del tasso interno di inflazione non e più condizione sufficiente per abbassare i tassi".
Su questa contraddizione tecnica rischia di esplodere nei prossimi mesi una grave contraddizione economica e politica, poiché sarà incomprensibile al più il motivo di una perdurante "stretta" monetaria nel momento in cui sarebbe opportuno invece agganciare il Paese alla fase di ripresa economica internazionale.
C'è, dunque, qualcuno che in Italia "scommette" sull'aumento dell'inflazione? Lo Stato innanzitutto, sembra di capire. Non potrebbe esservi altra risposta, visto che il BoT semestrale (il più richiesto tra i risparmiatori) ha perso in quattro mesi appena 81 centesimi, mentre l'inflazione e scesa di ben quattro punti percentuali. Se poi si prendono ad esempio i Cct, il "caso" appare addirittura macroscopico: la prima cedola semestrale offre un rendimento del 10 per cento, pari ad un interesse annuo del 22 per cento. Si dirà che queste remunerazioni "sudamericane" corrispondono all'esigenza di allungare la vita media del debito pubblico: ma e vero anche che l'unico risultato pratico è quello di rinviare nel tempo il rimborso del capitale con un peso specifico degli interessi alle scadenze drasticamente aumentato.
La scommessa e dunque sull'inflazione in grado da sola di quadrare tutti i conti tra qualche anno? Pare di si, visto che anche gli enti pubblici e le aziende si sono buttate sui tassi astronomici per rimediare alle loro drammatiche esigenze di finanziamento. Le obbligazioni dell'Enel, per esempio, sono indicizzate addirittura sia al capitale sia agli interessi e dovrebbero rendere all'incirca il 24 per cento.
La dimostrazione forse più chiara della incapacità strutturale dell'Italia (finanziaria) ad adattarsi ad un clima inflazionistico meno pesante la si e probabilmente avuta con l'emissione degli EuroBoT, denominati in Unità di Conto Europea (ECU), lanciati sul mercato al 14 per cento, quindi in posizione di apparente netta inferiorità rispetto ai titoli concorrenti. Le autorità monetarie hanno fatto allora due promesse: la prima (ragionevole) di un'inflazione calante che avrebbe finalmente reso positivo il rendimento dei nuovi titoli; la seconda (sorprendente) di uno slittamento del cambio che avrebbe permesso al risparmiatore di compensare l'eventuale tasso d'interesse troppo basso con un recupero di maggiore capitale rispetto a quanto da lui investito nel caso in cui la lira avesse nel frattempo svalutato rispetto all'ECU.
Come si vede, siamo ben lontani dalla situazione nella quale si trovano gran parte degli altri Paesi, dove - sembra ovvio, ma non lo e - i tassi d'interesse assolvono soltanto al ruolo di strumento di allocazione delle risorse tra sistema finanziario e sistema produttivo, e non a quello di ammortizzatore delle debolezze e degli squilibri interni.

L'Italia, dunque, e al bivio tra recessione ed espansione. Come dire: la vera emergenza economica comincia adesso. Ma che cosa hanno in mente gli lmprenditori? L'idea che ci si fa in questi tempi e quella di una Confindustria in festa: lo spettro del referendurn sulle liquidazioni e svanito, o sembra svanito, il sindacato appare paralizzato, l'economia ha ripreso in qualche modo a "tirare", i bilanci aziendali si sono chiusi uno dopo l'altro con utili che da anni non sì ricordavano sugli azionisti, per troppo tempo delusi, piove una manna di dividendi. Vittorio Merloni, presidente della Confindustria, non ha invece l'aria felice. Sta per cominciare il suo secondo biennio alla testa degli industriali italiani, ancora più preoccupato di quando, nel 1980, lasciò la metodica vita di medio imprenditore a Fabriano per gettarsi nelle acque tempestose di Roma. Dietro i grandi occhiali che nascondono a metà il suo volto corrucciato si legge un pessimismo che non può non sorprendere. Perchè?

"E' facile dire ripresa. Ripresa partita, economia decollata... Qualche movimento c'è stato, chi lo nega? Ma dobbiamo dire grazie soltanto a fattori interni dei quali c'è poco da gioire.
Innanzitutto, due svalutazioni che hanno abbassato il cambio di circa il dieci per cento e hanno lanciato i nostri prodotti all'estero; siccome il differenziale d'inflazione con gli altri Paesi e stato di circa il dieci per cento, per sette-otto mesi abbiamo recuperato competitività. Ciò che vendiamo in più adesso e l'effetto di trascinamento di quelle svalutazioni. Non possiamo però continuare a sperare nello slittamento del cambio. Il secondo fattore e la ricostituzione delle scorte che erano state tenute basse per l'alto costo del denaro e il deposito previo sulle importazioni. Il terzo elemento di spinta e la ritrovata prospensione al consumo delle famiglie. Gli italiani avevano speso circa il tre per cento in meno per i consumi nel 1981, mentre adesso, anche perché i salari sono nel frattempo cresciuti, hanno ripreso ad acquistare. Tutto qui. Un fuoco di paglia".

Siamo ancora in crisi?

"Ci sono settori Produttivi ancora in situazione di pesante recessione o di stasi degli ordini e settori che hanno migliorato un pò. Tutti i settori che producono beni di investimento se la passano male, per esempio".

Ma allora, perchè si parla di imminente ripresa economica internazionale? Siamo la "pecora nera" del mondo industriale?

"Il problema e come arrivare all'appuntamento con la ripresa mondiale. Faccio un esempio. Noi siamo un rimorchio lanciato insieme ad un camion con motore; finché andiamo in discesa, va bene; ma che cosa succede quando ci si rimette in salita? li camion va avanti, il rimorchio scivola a valle. Ecco quel che mi preoccupa: come facciamo ad agganciarci al camion degli altri paesi? Il fatto e che gli altri Paesi hanno fatto buon uso della recessione per sistemare alcuni problemi strutturali, come il costo del lavoro, l'innovazione tecnologica, la spesa pubblica. Noi la recessione l'abbiamo subita passivamente. Che cosa è cambiato in ltalia? Più disoccupazione, calo degli investimenti, emoraggia di risorse dall'impresa verso i consumatori. Se, per caso, la domanda mondiale riparte e i costi delle materie prime aumentano, la nostra inflazione riesploderà. In una battuta: finiremo per subire la ripresa così come abbiamo subito la recessione. Scherzi a parte, nelle condizioni in cui siamo oggi, ammesso che la ripresina si consolidi, e molto probabile che si sarà costretti ad ucciderla rapidamente o prima della svalutazione, per tentare di evitarla, o subito dopo per impedire un pericoloso rimbalzo dell'inflazione. Dunque: l'emergenza economica comincia davvero adesso. Altro che parlare di uscita dal tunnel ... "

Nel vostro documento "Aggancio con la ripresa" si parla di novanta giorni utili per evitare il dramma. In termini operativi che cosa significa?

"Guai se non correggiamo la rotta adesso. Dunque, fisserei tre punti: primo, riduzione dei costi di produzione; secondo, controllo della spesa pubblica; terzo, rilancio degli investimenti. Non e la solita musica. Prenda i costi industriali. C'è quel famoso 16 per cento da rispettare. Come si fa se il costo del lavoro continua a salire più che altrove e i costi finanziari sono quelli che sono? Quasi ovunque i sindacati hanno accettato negli ultimi tempi aumenti salariali inferiori al tasso d'inflazione atteso. E da noi? Tutto è rimasto come prima. Dal 1973 in poi in tutto il mondo il sindacato si è trovato di fronte all'alternativa tra difendere il salarlo e difendere l'occupazione. All'inizio ha difeso il salarlo, poi ha capito che bisognava proteggere l'occupazione. In questo nostro Paese il sindacato ancora oggi insiste nel salarlo. Sembra incredibile. In Giappone e da due anni che si sono accorti della incompatibilità dei due obiettivi; negli Stati Uniti è dal 1980; nella Repubblica Federale Tedesca, nel Regno Unito, in Olanda, almeno da dodici mesi. Qui siamo al 1982 e non la si vuole ancora capire. Non si può continuare a distribuire all'infinito più ricchezza di quanta se ne produca."

La Confindustria, dunque, dice no agli aumenti salariali?

"Andiamo con ordine. Il presidente della Confindustria oggi ha di fronte due interlocutori. Un mondo politico litigioso, attento ai problemi di potere, ma poco impegnato sul fronte dell'economia. Dall'altro lato, un mondo sindacale che vuole combattere l'inflazione, come dimostra almeno con le parole, ma che resta latitante sul piano concreto. I salari continuano a crescere più dei prezzi, ci sarà una riforma delle liquidazioni che avrà comunque oneri pesanti per le aziende, la scala mobile alimenta l'inflazione di continuo, la piattaforme sono in stridente contrasto con le compatibilità minime. Abbiamo chiesto al sindacato di riaprire la trattativa sul costo del lavoro, ma non ci hanno nemmeno risposto. Forse non sanno che cosa dirci ... "

E allora?

"Abbiamo avocato al centro, alla Confindustria, le trattative sui contratti per riannodare i fili di un discorso che investe tutti i fattori del, costo del lavoro. La giunta ha impegnato la presidenza, nel caso in cui le trattative globali sul costo del lavoro non si riaprissero, a prendere tutti i provvedimenti perché siano rispettati gli accordi del giugno 1981, quelli del "tetto sul 16 per cento". Non voglio dire con questo che decideremo senz'altro per la disdetta dell'accordo sulla scala mobile perché, stavolta, o lo facciamo davvero o nemmeno minacciamo una simile eventualità. Resta il fatto che fino a quando il governo non ci dice che quel 16 per cento non vale più, che si può andare oltre, non prenderemo alcuna decisione sui contratti. Abbiamo tutte le ragioni dalla nostra parte. Quando, il 28 giugno 1981, decidemmo di non disdettare la scala mobile, ci fu l'impegno del sindacato a sedersi al tavolo per discutere del costo del lavoro. Oggi possiamo dire che loro sono inadempienti; a parte i contratti, denunciare adesso le intese sul punto unico avrebbe comunque più valore di un anno fa. Per questo non sono affatto pentito di aver scelto la strada che allora scegliemmo. Un anno fa la disdetta sarebbe stata una decisione poco comprensibile politicamente in presenza del primo governo laico e di una non facile situazione generale del Paese. Oggi chi potrebbe darci torto? Occorre tener presente questo: noi non parliamo del 16 per cento per il 1982; parliamo del programma triennale di rientro dall'inflazione; quindi del 13 per cento del 1983 e del 10 per cento del 1984. Dobbiamo perciò valutare quale effetto avrebbero certe concessioni fatte adesso sui prossimi due anni. Siccome gli automatismi salariali e quel che ci costerà la riforma delle liquidazioni anche senza il referendum portano già al 16 per cento, non ci sono spazi per i contratti. E poi: mettiamo pure che la proposta del governo sulle liquidazioni comporti maggiori costi inferiori al 16 per cento per quest'anno; che cosa succede l'anno prossimo, quando il tetto fissato è quello del 13 per cento? E nell'84, con un limite del 10 per cento? Dovremmo fare una battaglia per salvare quel che resta, i pochi mesi rimasti, quando sappiamo che dal primo gennaio 1983 siamo già fuori dai limiti? Che senso avrebbe? A meno che il governo non svaluti la lira, diciamo del 7 per cento, e ci dica: signori imprenditori, potete arrivare fino al 23 per cento di aumento dei Ma è una decisione che non ci compete, riguarda il capo del governo, il ministro del tesoro e il Governatore della Banca d'Italia. E infine, che cosa otterrebbero i lavoratori? Un pò più di lire svalutate ... "

Ma la produttività sta aumentando fortemente, e i profitti aziendali anche. Dunque?

"La produttività è aumentata in alcune grandi aziende dove le strozzature erano maggiori, dove gli operai hanno assunto spontaneamente comportamenti diversi dalle rappresentanze sindacali, dove la mobilità e gli organici erano bloccati. Ma nella gran parte delle imprese, produttività e assenteismo sono invariati. Gli utili? Allora rivolgo Io una domanda: è sceso il costo del lavoro? No, è ancora superiore all'inflazione. E' sceso il costo del denaro? No, è più alto di dieci punti rispetto al tasso d'inflazione. E' sceso il costo dell'energia? Sì, ma soltanto artificialmente, come dimostra il deficit dell'Enel. Gli utili che si vedono scritti sulla carta sono un'illusione ottica.
Innanzitutto, sono utili con lire svalutate per ben due volte in un anno. Le nostre imprese stanno facendo profitti che in marchi e in franchi francesi valgono sempre meno e che valgono soltanto in pesetas o in dracme. La nostra è un industria che non ha più la forza finanziaria per fare investimenti, per aprire nuovi impianti. Di fronte ai concorrenti, gli imprenditori italiani fanno guadagni ridicoli in termini di fatturato. Tanto è vero che la gente non mette i soldi in Borsa, ma in BoT e in case. La pietrificazione del risparmio è la dimostrazione lampante della scarsa credibilità delle nostre aziende. Ma si sa che il valore di tutti i titoli quotati è di circa 30 mila miliardi di lire, quanto costa più o meno costruire 300 mila case? Cioè, se gli italiani smettono per un anno di costruire nuove abitazioni, con i soldi risparmiati si comprano in Borsa tutto il sistema industriale del Paese. E sembra possibile che con i profitti dichiarati oggi dalle aziende italiane si possano fare gli investimenti, gli ammodernamenti degli impianti, l'innovazione tecnologica? Non molto tempo fa sembrava eccezionale fare gli ammortamenti in cinque anni; oggi i macchinari in cinque anni sono belli e pronti per essere buttati via. Le società italiane non sarebbero nemmeno in grado di coprire questi costi di rimpiazzo con i soldi che fanno, immaginiamo pensare nuovi investimenti. Si dirà: e gli utili di cui tanto si parla? Serviranno magari per portare i risparmiatori in Borsa: uno specchietto per allodole".

Per questo gli industriali cominciano a chiedere l'intervento del governo e dello Stato per rimettere in modo gli investimenti?

"Non è che l'impresa italiana non abbia più possibilità di muoversi, ma i tempi per realizzare gli investimenti minimi necessari in proprio sono di circa cinque - sei anni. Gli imprenditori non possono aspettare tanto. Nel giro di sei mesi può essere troppo tardi. Se decolla l'economia internazionale, e può sempre accadere nel giro di poche settimane o di qualche mese, le nostre aziende rischiano di rimanere spiazzate, di perdere i maggiori spazi di mercato che si apriranno. Occorre dunque mettere in moto quella massa di manovra, quel programmi di investimento che allo stato attuale sono bloccati dalla mancanza di incentivazioni all'ingresso del risparmio in Borsa dalla pesantezza dell'imposizione fiscale, dallo scarso coordinamento dei flussi finanziari, e anche dal basso volume degli investimenti pubblici, e dal costo del denaro. O si parte subito, oppure questa volta non riusciremo più ad agganciarci al carro degli altri Paesi industriali".


Intanto la disoccupazione di massa sta diventando il maggior problema nella più gran parte dei Paesi sviluppati (per non parlare di quelli sottosviluppati, o "in via di sviluppo", dove quasi sempre la somma d'inoccupazione + sottoccupazione + pseudoccupazione improduttiva presenta il volto della più grande tragedia economica, sociale e morale). Anche da noi la situazione e grave e in peggioramento, come dimostra la media annua delle quattro rilevazioni trimestrali effettuate dall'Istat nel 1981. Dunque: che cosa e accaduto l'anno scorso, periodo al quale possiamo ormai dare uno sguardo complessivo?
E' successo che:
1) rispetto al 1980, la disoccupazione "esplicita" ha avuto un boom del + 13%, aumentando di 215 mila unità, fino a superare il tetto di 1.900.000 persone. E così il tasso di disoccupazione è arrivato all'8,4% della popolazione attiva (era il 7,6% nel 1980 e il 7,2 nel 1978). Un vero e proprio dramma, tra l'altro già aggravatosi nei primi mesi dell'82 e - secondo tutte le previsioni - destinato ad aggravarsi nel prossimo futuro: un dramma che contrasta con il "diritto al lavoro" indicato dalla Costituzione e ancor più con la coscienza collettiva, la quale misura il dolore individuale e familiare, lo spreco di energie socialmente utili, i rischi per la solidità della democrazia, che ogni diffusa mancanza d'occupazione, di sicurezza, d'impegno, di reddito porta sempre con sé.
2) Di più: la disoccupazione reale e assai superiore a quella "esplicita", se e vero che si sono superati I 2.600.000 individui, considerando anche quel 730.000 italiani - prevalentemente donne - che, pur essendo in età lavorativa (14-70 anni), hanno dichiarato all'lstat di non essere "in condizione professionale", ma di esser disposti a lavorare "a particolari condizioni". Gente, per capirci, che vorrebbe si un'attività retribuita, ma che tristemente neppure la chiede, ben sapendo che in nessun caso riuscirebbe a trovarla un minimo adeguato: per esempio, perché nella loro zona la crisi e già grave e lascia a casa i lavoratori "forti", oppure perché manca ogni proposta di lavoro part-time compatibile con alcune esigenze di studio o con quelle assai dure del lavoro domestico.
3) Sempre di più il fenomeno ha "picchiato" sui giovani e sulle donne. Sono un decimo dei disoccupati "espliciti" e stato composto nell'81 (come già nell'80) da ex occupati. Per oltre la metà (percentuale in forte aumento rispetto al passato) si e trattato di individui in cerca di prima occupazione: quasi tutti giovani, i veri, nuovi "paria" del mercato del lavoro. Mentre il resto e stato dato da studenti e casalinghe, teoricamente "in condizione non professionale", ma dichiaratamente alla ricerca (inutile) di un'attività retribuita. E, sempre stando ai dati "ufficiali", il tasso medio di disoccupazione femminile è stato del 14,4%, contro il ben minore 5,4% del sesso (qui davvero) "forte": ma il divario reale e ancora maggiore, e nasconde insieme l'emarginazione di molte donne (anche se oggi assai contrastata) e la crescente volontà di non accettarla e di premere comunque per entrare nel mondo della produzione, uscendo dal coatto isolamente domestico.
4) E il Mezzogiorno? Qui, nell'81, le cose sembrano peggiorate meno che altrove, ma lo sono comunque partendo da una base assai più bassa. 60.000 disoccupati "espliciti" in più (prevalentemente giovani e donne in cerca di prima occupazione) rispetto al 1980; almeno 1.200.000 disoccupati reali; un tasso di disoccupazione "ufficiale" del 12,2% (contro il 10% di tre anni prima al Sud e l'8,4% in tutta Italia l'anno scorso): questi, i due dati dati-chiave di un quadro da sempre oscuro, reso solo un pò meno fosco da un lieve incremento dell'occupazione industriale che qui - diversamente dal resto del Paese - ha consentito (assieme a un modestissimo incremento del lavoro nel terziario) di controbilanciare il netto calo dell'occupazione nell'agricoltura. Ma la sostanza resta: l'insufficiente sviluppo delle regioni meridionali e squilibrato e mal guidato, e più spontaneo che programmato, comunque e incapace di allargare la base produttiva e dar pane, reddito, lavoro, sicurezza, cultura a tutti coloro che li richiedono e che li meritano.

 

5) Una grave novità: anche al Centro-Nord la crisi dell'occupazione ha cominciato a far sentire un forte peso: dall'80 all'81, ben 155.000 disoccupati "epliciti" in più (pari a un boom del 20% in dodici mesi); in tutto, oltre un milione di inoccupati "ufficiali" e quasi un milione e mezzo di veri e propri disoccupati; l'allargarsi a macchia d'olio di quella forma di sottoccupazione che e la cassa integrazione (mezzo milione di ore l'anno scorso!); un forte calo dell'occupazione industriale (-100.000 dipendenti dalle imprese di ogni dimensione, cioè - 1,6% che sale però a -3% nelle imprese maggiori); in ultima analisi, l'indebolirsi di interi comparti della media e grande industria manifatturiera che, una volta venuto meno il "freno" della cassa integrazione, rischierà di tradursi in crolli d'occupazione, per i quali la crescita del terziario (che continua) non e e non sarà una risposta sufficiente.
Come si vede, una situazione grave, ovunque: che va superata di slancio con un serio programma di riconversione industriale, di razionalizzazione della spesa pubblica finalizzata allo sviluppo, di crescita non iper-inflazionistica, di riforme e di riforma morale. In altre parole, con quell'utilizzo più razionale delle risorse che solo un mix avanzato di innovazioni politiche, di consenso sociale, di lotta agli sprechi e al parassitismo, può davvero dare.
La questione meridionale: com'è che non se ne sente parlare più? Delle regioni del Sud i giornali trattano quasi solo dì mafia profittatrice e di camorra rampante, o di nuove scosse di terremoto; ma del problema nazionale del Mezzogiorno e delle sue isole maggiori non si fa più cenno. Perchè?
Un poco per stanchezza, dopo tanti anni di diagnosi impietose non seguite da adeguate terapie, e di promesse non mantenute, di grandi risorse spese, certamente, ma senza che - nella maggior parte dei casi - esse agissero da volano di uno sviluppo autonomo. E un poco per superficialità: dato che conoscere e capire il Sud che comunque muta richiede la messa in mora di stereotipi invecchiati e uno sforzo d'aggiornamento non indifferente.
Eppure, in questa parte decisiva del Paese si stanno preparando grandi novità, che presto si imporranno agli occhi di tutti. Vediamone qualcuna.
La prima è di carattere demografico: come pure l'ultimo censimento conferma, il tasso di natalità tende a scendere anche dal Lazio in giù. Nascono e nasceranno, insomma, sempre meno bambini; le famiglie divengono più piccole; alla lunga scomparirà anche qui il modello di nucleo familiare tradizionale, con conseguenze immense sull'insieme della società. Ma il punto è un altro: anche se la natalità cala rispetto al passato, essa rimane comunque assai più vigorosa che al Nord (che già registra un decremento di popolazione e a Centro (ormai prossimo alla cosiddetta "crescita zero") e, se il Sud continua ad accrescere la sua popolazione, contrariamente a quanto accade per il centro-Nord, ne consegue una più accentuata "meridionalizzazione" della popolazione dell'Italia: oggi poco più di un terzo dei cittadini italiani vive nelle regioni meridionali; tra qualche anno questa percentuale supererà il 37%. E toccherà il 40% prima della fine del secolo, a meno di un tracollo del tacco di natalità e di contemporanei fenomeni migratori verso le regioni centrali e settentrionali.
Proprio quest'ultimo è un "rischio" di solito insufficientemente considerato: se le cose continueranno così, tra breve - dopo più di quindici anni di relativa stasi - torneranno a farsi rivedere Rocco e i suoi fratelli. In altre parole, si riattiveranno forti spinte a trasferimenti di popolazione dal Mezzogiorno (in crescita demografica, ma in inadeguata crescita economica) alle zone demograficamente in calo ed economicamente più avanzate.
Come tra l'inizio degli anni Cinquanta e la metà degli anni Sessanta, ma con quattro grandi e terribili differenze: allo stato attuale, le metropoli centrosettentrionali sono già ingorgate; la disoccupazione è, e resterà alta anche nelle aree "forti"; i nuovi eventuali immigrati non saranno simili al "cafoni" scotellariani o leviani di trent'anni fa, con bisogni scarsi e con poche pretese (l'avanzamento del Paese ha modificato esigenze ed aspettative di tutti quanti); e l'industria italiana non ricaverà benefici dall'utilizzo di valanghe di lavoratori poco qualificati ma a basso prezzo, dato che ora il mondo è cambiato, i salari reali sono assai cresciuti, il controllo politico-sindacale è forte, e in ultima analisi non si può pensare di usare il differenziale di costo del lavoro rispetto agli altri Stati sviluppati come fattore di successo della nostra economia.
Viene dunque da chiedersi: come potrà essere evitato il nuovo dramma dei "treni della speranza", evitando nello stesso tempo l'altra tragedia, quella delle non-migrazioni causate da assenza di ogni speranza, da una disperata sconfitta preventiva?
La risposta è una sola: accelerando i processi di crescita autonoma delle regioni meridionali, in modo da ottenere risultati - sul terreno della sviluppo economico e dell'estendersi dell'occupazione "sana" - tali da permettere sia di dar lavoro (e lavoro dignitoso) ai milioni di disoccupati, di semi-disoccupati, di "finti occupati" che già ora la mancata soluzione della questione meridionale ci regala; sia di affrontare il divario demografico di cui abbiamo parlato, il quale tende a peggiorare spontaneamente la situazione del mercato del lavoro, a partire soprattutto dalle fasce d'età giovanili.
Tutto ci è possibile, senza continuare al gioco al massacro? Certamente si. Lo dimostra la stessa vicenda storica degli ultimi venti anni, caratterizzata dal "decollo" - quasi mai programmato e molto spesso non aiutato - di intere zone del Mezzogiorno, oggi riscattate dal sottosviluppo e connotate da una struttura economica e sociale ricca e solida, articolata e integrata (agricoltura moderna + industria piccola e media + terziario non parassitario + infrastrutture e tecnologie avanzate): la ormai celebre "fascia adriatica", tra Abruzzo e Puglia, celebra i suoi fasti, a lungo inattesi e sconosciuti.
Lo dimostra anche la crescita culturale della società meridionale, distorta certo in molti suoi aspetti, ma forte e "rivoluzionaria" dopo secoli di stagnazione arcaica. Una crescita culturale e anche sociale alla quale non ha corrisposto affatto una contemporanea trasformazione dell'apparato produttivo e della istituzioni (il che ha portato a definire questa fase della vita del Sud come quella della "modernizzazione senza riforme"): ma che di per sé tende ad accrescere il rigetto collettivo del malgoverno clientelare, dell'economia assistita, dello sviluppo parziale e irrazionale.
Sul piano congiunturale, la domanda complessiva non risulta aver registrato nelle regioni meridionali oscillazioni di qualche consistenza: come previsto, non sono intervenuti nuovi elementi di qualche peso a modificare settorialmente la tendenza generale; questa resta in pratica sui moderati livelli già osservati, proseguendo su di un tracciato notevolmente decelerato rispetto ai primi mesi del 1981. In particolare, dei fattori ben determinati hanno contribuito a provocare il rallentamento: in primo luogo sono da menzionare gli aspetti regressivi sempre più evidenti nel grande comparto delle spese in capitale fisso; soprattutto gli immobilizzi finanziari nelle costruzioni hanno progressivamente diminuito le cadenze di sviluppo, in parte risentendo degli usuali fattori di stagione, ma, accusando in misura ancor più elevata le acuite difficoltà attinenti alla disponibilità di denaro fresco. Quanto alle costruzioni pubbliche, il necessario contenimento delle spese ha imposto vari dilazionamenti a numerosi programmi di necessità non improrogabile. Per gli investimenti nell'industria manifatturiera, si nota in genere un riassorbimento abbastanza diffuso della progressione degli stessi, rispetto al periodo iniziale dell'anno. Anche in agricoltura le ridotte possibilità o disponibilità degli operatori del ramo tendono ancora a comprimere gli acquisti di macchinari e di attrezzature. La situazione congiunturale nel suo insieme resta dunque contraddistinta da persistenti difficoltà, con ripercussioni immediate e sempre più nette sull'occupazione, ravvisabili in particolare nell'ulteriore peggioramento del rapporto disoccupati / forze di lavoro. In sintesi, la formazione del prodotto interno lordo ha risentito soprattutto nel Molise, negli Abruzzi, in Basilicata e in Calabria di due fattori concomitanti: un significativo rallentamento nell'industria, e la mancanza di compensi in qualche elemento propulsivo nell'ambito delle attività del terziario. In altre regione, infatti, (Puglia, Campania, Sardegna), la decelerazione del comparto manifatturiero è riequilibrata in misura maggiore dal più favorevole andamento dei servizi. In Sicilia taluni recuperi nell'industria hanno contenuto la flessione del prodotto lordo.


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