Dell'età preistorica
s'è trovata testimonianza nella Grotta Romanelli che presenta molti
elementi importantissimi sull'antichità dell'uomo. L'età
preistorica ha nel Salento una testimonianza importante nella Grotta Romanelli
(scoperta da Paolo Emilio Stasi, credo a principio del secolo), che mostra
segni di gran valore sull'antichità dell'uomo. Nei pressi della
grotta furono trovati i resti di carbone e ceneri attestanti l'uso di
focolari. E' fra le più antiche d'Italia - dopo la caverna dei
Balzi Rossi. Remotamente avranno abitato la regione gli ltalioti, a cui
risalirebbe l'uso di specchie e di trulli. Invasioni di japigi, messapi
e calabri - popolazioni che vengono secondo alcuni da Creta secondo altri
dall'Illiria - da una parte e dall'altra. Case recenti di mura con pietroni
megalitici si sostituiscono alle primitive costruzioni italiote. Il più
antico monumento di Lecce è l'apogeo messapico ritrovato nell'atrio
del palazzo Guarini, via Palmieri. Secondo una iscrizione messapica è
dedicato a Eczena di Pirro. Leggenda: la città sarebbe stata fondata
da Malennio. Il greco Idomeneo - re di Creta - tornato a Creta dopo la
guerra di Troia e non potendovi rimanere per rivolta del suo popolo sbarcò
qui e tolse in moglie la figlia di Malennio.
ROMA
C'è Lupiae e Rudiae, due paesi vicinissimi e l'uno è sobborgo
dell'altro. Uniche testimonianze dei primi tempi della conquista romana:
a) Quinto Ennio, nato a Rudiae nel 239 a.C. Dice; " Noi (io) siamo
Romani che fummo prima Rudini".
b) l'anfiteatro o i due anfiteatri (non s'è ancora deciso se
quello piccolo è greco o romano). Il grande è del II secolo
dopo Cristo. Più tardi, l'imperatore Adriano fondò il
porto coi suo nome sull'Adriatico. Qui sbarcò (...) che convertì
Sant'Oronzo, patrono leccese, che unitamente ai suoi amici o famigli
Giusto e Fortunato ebbe la testa mozzata sotto Nerone.
Stemma della città - La lupa coi leccio è stemma
che appare in epoca normanna, cioè dopo il 1000. La lupa, vuol
rappresentare un ricordo delle antichità romane della città.
Mia ipotesi: lo stemma sarebbe stato coniato, semplicemente, a modo
di rebus, per significare i due nomi di Lecce, l'antico e il nuovo:
Lupiae e Litium. (Tanto più se lo stemma comincia ad apparire
in epoca normanna, cioè quando è sopraggiunto da poco
il cambiamento di nome, che dovette aver luogo verso il 1000).
Dopo la caduta di Roma
Non si sa nulla. Certamente si saranno susseguite le invasioni barbariche.
Come tutto il Sud fu soggetta al dominio bizantino. La città
decadde, la popolazione diminuì. Nel 542 si trovò nella
zona della guerra fra i Bizantini e i Goti di Totila, che la saccheggiò
nel 542. Nel 544 fu donata da Giustiniano alla Chiesa insieme con Gallipoli.
La città fu sottoposta a paurose gravezze fiscali contemporaneamente
da parte del governo imperiale bizantino e da parte della Chiesa. Nel
620 cadde sotto i Longobardi con Taranto e Brindisi, incorporati nel
ducato di Benevento, il resto del Salento restò alla Chiesa.
Nel 773, per sconfitta dei Longobardi, ritornò alla Chiesa. Furono
edificate chiese e conventi, istituiti molti ordini religiosi. Sulle
coste salentine si andò abbattendo in questo tempo la furia delle
irruzioni moresche.
I NORMANNI (dal
1000 al 1200)
Di passaggio per l'Italia meridionale intervengono nelle guerre fra
Greci e Saraceni. Sono vari nuclei, uno dei quali - la stirpe degli
Altavilla - occupa la Puglia e la divide in 12 baronie con Melfi metropoli.
Un Goffredo di Altavilla prende il nome di primo conte di Lecce nel
1055. Lotte fra i suoi nipoti Ruggero e Belmondo, al quale rimarrà
il principato di Taranto. Finchè si cerca di coincidere la storia
di Lecce con la storia personale di questi insigni avventurieri dal
sangue irrequieto che cercano la gloria su campi più illustri
che non sia quello di ben amministrare questa città piantata
qui non si sa bene per quale ragione. Non saprei dargli torto: anche
se molti di essi son poi finiti miseramente. Son pochi i conti normanni
o francesi che vissero nella contea: qualcuno non la vide neanche -
come oggi farebbe un ricco proprietario con una lontana tenuta toccatagli
in eredità. La maggior parte di essi scendevano a Lecce dopo
qualche rovescio di fortuna: a finire qui, meditando gli errori commessi,
oppure a restaurarsi coi riposo finchè non gli ritornasse la
voglia di ricominciare a correre avventure. Rotolavano qui dopo avventure
qualche volta ingloriose. Dov'è che poteva andare a finire il
duca d'Atene dopo la cacciata da Firenze. (E pensare che abbiamo visto
tante volte quel quadro di Stefano Ussi: il duca seduto su un seggiolone,
affranto: tutt'intorno ... ). E c'era tante volte venuta la curiosità
di sapere dov'è che poteva essere andato a finire quell'uomo
ormai battuto, cacciato fuori dal gioco della storia. Ma ora lo sappiamo:
a Lecce, naturalmente. E Maria d'Enghien che fu la sola a occuparsi
degli affari della città non lo fece se non dopo avere accarezzato
l'ambizione d'essere regina ecc. "Se moro, morrò regina".
Nella dominazione spagnola, poi borbonica, la città trovò
ciò che voleva, ciò per cui era nata: il quieto vivere.
Confinata nel fondo dello stivale, dove le rivoluzioni e i rivolgimenti
arrivano in ritardo, come minestre fredde quando non sono più
in grado di suscitare passione di novità - e lo si vede dai tempi
attuali, nei quali è il solo Comune d'Italia che abbia un sindaco
monarchico; per di più non atta a difendersi perchè circondata
da una pianura aperta da ogni lato: questa coscienza che la storia non
dipende da lei, e che data la sua posizione non le resta da fare altro
che aggregarsi passivamente, trovarono il loro clima ideale nella tranquillità
delle dominazioni. In quel tempo fiorì la città, veramente
fiorì nella docile materia della sua pietra: l'ozio e il, capriccio
si sbizarrirono in centinaia di chiese e di palazzi. Questo capitolo
che il nostro storico intitola "Periodo antistorico spagnolo"
è l'unico in cui la città abbia vissuto in armonia con
la storia. Di contraddizioni simili son lastricate le sue strade. Nel
'60 vi fu a Lecce un solo arresto. Le notizie qui arrivavano sempre
in ritardo. Una notte, la città dormiva, una leccese tornò
in città con la notizia che Garibaldi era sbarcato in Sicilia
e che l'aveva già quasi tutta occupata. A Lecce ancora non se
ne sapeva nulla. Due guardie lo fermarono e lo portarono al corpo di
guardia. Allora arrabbiato di questa assurdità cercò di
sciogliersi dalla stretta e disse: Sangue di Dio! Così fu arrestato
per bestemmia e rifiuto di ,obbedienza. In quel tempo i garibaldini
Balconi fecero una cosa veramente empia; rovesciarono la statua d'un
grande re che era nell'attuale piazza Sant' Oronzo: era la statua del
re Carlo V, a cui fu dedicato anche un arco di trionfo a Porta Napoli.
Carlo V non venne mai a Lecce come qualcuno potrebbe arguire dall'arco
di trionfo che gli fu dedicato all'ingresso di una delle sue porte.
Mai venuto, e non ha mai avuto a che fare con Lecce. Così nell'attuale
piazza restò incastrata l'autorità di Sant'Oronzo. A non
essere per l'anfiteatro romano chi l'avrebbe detto che questa città
fosse così antica. Anzi di anfiteatri se ne scoprirono due, uno
più piccolo, e l'altro così grande pensarono di proseguire
gli scavi si accorsero con orrore che per tirarlo completamente alla
luce avrebbero dovuto demolire tutto il centro cittadino. Lasciarono
lì. Ora c'è uno spicchio di gradinate non abbastanza grande
da suggerire l'idea della grandiosità dell'insieme, non così
piccolo da non dare fastidio, essendosi per sua colpa scombinata la
piazza principale e la civica abitudine della passeggiata serale in
piazza. Da quel momento-perduto quel centro di gravità -E' decaduto
negli abitanti ogni sentimento di appartenenza ad un corpo civico. L'ultimo
segno i colombi, già spaesati, invitati da quel buco di dente
cariato. Che razza di idea avranno avuto a fondare una città
in questo punto? Si direbbe che l'abbiano scelto come si sceglie un
nascondiglio: vediamo dov'è che nessuno s'immaginerebbe di cercarla.
Perchè nessuno ci pensasse occorreva evidentemente che non vi
fosse un solo motivo perchè sorgesse in quel punto una città.
E così era di fatti. Con tanta costa, non è sul mare;
con tanta campagna fertile, è nel punto più pietroso.
Di questa speculazione della topografia inutile non poco è passato
nell'indole degli abitanti, la cui vita si svolge come nella provvisorietà
d'una sala d'aspetto d'una stazione, dove non si possono stabilire delle
relazioni stabili, ed è inutile sprecare sentimenti diretti a
gente destinata a prendere un altro treno. L'astuzia, il trucco della
topografia valse a risparmiare a questa città le devastazioni
e i saccheggi che si succedono dopo la caduta dell'impero romano nelle
altre città, nelle città vere. L'unica eccezione: gli
Ostrogoti di Totila che la trovarono per caso sul loro cammino. E la
spianarono (536). Di quanto sia storicamente artificiale questa città,
basti considerare questa circostanza: verso la fine del X secolo o il
principio dell'XI essa cambierà nome. Come può cambiar
nome una città a un tale punto della storia? quando ha già
una quindicina di secoli di vita? Durante la dominazione normanna -
e cioè fra il 1000 e il 1200, si affermerà il cambiamento
del nome, e in più farà la sua apparizione lo stemma della
città. Tale stemma è composto d'una lupa ai piedi d'un
leccio fronzuto. Molte interpretazioni sullo stemma, la più comune,
e soddisfacente la vanità dei liciensi, è che la lupa
costituisca un richiamo orgoglioso alla romanità della città,
che nella lupa si sia inteso di riaffermare il vincolo coi nipoti di
Romolo e Remo. Sono attendibili tali sentimenti in una popolazione che
poco tempo fa ha potuto con indifferenza lasciare il nome vecchio e
prenderne uno nuovo, come se si trattasse di cambiarsi di camicia. Non
so se questa interpretazione sia mai stata avanzata. Proponiamo l'ipotesi
che lo stemma altro non sia che un rebus per ricordare i due nomi, vecchio
e nuovo. Così la lupa dovrebbe leggersi Lupiae, il leccio Litium
o Lycium, cioè Lecce. Una storia falsa non poteva avere che uno
storico falso. La storia dello storico falso è delle falsità
storiche di Lecce la più singolare, forse la più maliziosa
- e con tutta la tristezza che ha la malizia vista dall'altra parte.
Tanto più che questa storia dello storico appartiene al nostro
tempo -può controllarla chiunque. Al principio del secolo uno
scrittore di L., uomo che fra le sue qualità conta abbastanza
talento ma non, per suo danno, l'indipendenza economica, dubitando che
una storia di L. da lui scritta avrebbe mai potuto interessare i suoi
concittadini alla cui naturale malevolenza la sua mancanza di denaro
annullava anche quei meriti di studioso che poteva avere, riuscì
a far pubblicare quell'opera gabbandola per l'opera d'uno storico tedesco,
Herbert Krass, che egli aveva tradotto. Il successo incontrato dall'opera
indusse qualcuno a ricercarne l'autore. Se ne provò l'inesistenza.
Ci fu uno scandalo, e l'autore fu smascherato e ingiuriato per la sua
truffa. Non si pensò invece a complimentarlo per essere stato
molto più che un semplice traduttore di un'opera che avevano
poco prima lodato. Questa città - a rigore - non consente una
storia: solo una cronaca. Ma invaghito dell'illustre il nostro storico
è portato a celebrare quella scarsa materia che si eleva di un
po' sulle cronache (da ciò il fastidio del tono celebrativo),
ed eccolo entusiasmarsi per il periodo in cui Lecce fu capitale di contea,
sotto i Normanni, sotto i Brienne e gli Enghien, e da ultimo Giovanni
Orsini del Balzo, ed arrestarsi, invece, alle soglie della dominazione
spagnola, indispettito dall'anonimia in cui il governo accentratore
degli aragonesi avrà gettato politicamente questa città.
Ma quale fu l'impostazione politica della Contea? Continuò a
non aver storia anche in quei secoli e le vicende dei suoi feudatari
non...
(L.)
L'opera più candidamente ispirata al tempo l'ho veduta sul muro
d'una fabbrica nuova verso la via di Brindisi. Era un pomeriggio d'i
fine inverno, ora favorevole alle scoperte malinconiche.
Al colore fresco del tufo squadrato da poco, la mano dell'imberbe cronista
s'era come esaltata, e n'era nato un grande affresco tra messicano e
bizantino a punta di carbone da cucina. Vi erano raffigurate per la
lunghezza del muro tutte le bambine del quartiere comprese fra i sette
e i dieci anni, che doveva essere su per giù l'età dell'artista.
I riccioli neri parevano crepitare sulle facce pienotte, ma l'incanto
più grande era nei corpi, stilizzati in modo che sembravano tutte
delle bottiglie di liquore e di colonia, con le testine per tappi. Difatti
una curiosa avversione aveva impedito all'artista di rappresentare i
piedi e le gambe delle sue contemporanee. Certo, erano tutte eguali
fra loro, ma sotto c'erano i nomi. Non si poteva sbagliare. Ninetta,
Anna, Mirella... e a una figurai ripetuto due volte per un'improvvisa
smemoratezza: Maria Maria...E io dissi ridendo a Cesare Massa: - Ecco
il nostro Campigli. Ma dentro di me pensavo a cose più elementari:
quelle età, quella mano, il colore del tufo, qualche rumore in
quell'ora spersa ai margini della città, e le tristi domande
di don Jorge Manrique:
Qué se
hicieron as damas,
sus tocados, sus vestidos
y sus olores?
(Che ne fu delle dame, delle pettinature loro, delle loro vesti e profumi?).
|